Fabio Corti, Libero 11/10/2010, 11 ottobre 2010
TRENTADUE MORTI. E SCHETTINO VUOLE PURE I DANNI
[Capitan Codardo impugna il licenziamento di Costa Crociere: «Non c’è giusta causa». E chiede reintegro e arretrati] –
Il transatlantico Concordia sfracellato sulla scogliera. Trentadue cadaveri. L’isola del Giglio sfregiata. L’Italia costretta a vergognarsi davanti al mondo per quel suo capitano che s’affretta a toccar terra e bofonchia balle al cellulare, con decine di passeggeri che ancora si tuffano nel Tirreno in una notte d’inverno perfetta per annegare, che a molti non concederà di raggiungere la spiaggia né l’alba. Alla fine però Capitan Codardo il coraggio l’ha trovato: ha presentato, lui, una richiesta di risarcimento danni.
A luglio i dirigenti della Costa Crociere, la compagnia di navigazione più famosa del globo nei giorni seguenti il naufragio del 13 gennaio 2012, hanno deciso di licenziare il comandante della sciagura. Detto, fatto. Per «giusta causa», scrivevano gli avvocati dell’azienda nella comunicazione al dipendente Schettino Francesco. A una prima sommaria valutazione delle sue prestazioni professionali, le ventimila tonnellate di relitto inabissate nella baia, i trecento milioni di dollari necessari a tirarle via di lì e il lievissimo danno d’immagine - per tacere dei trentadue funerali celebrati - sembravano motivazioni valide per fare a meno dei servigi del comandante. Secondo lui no, invece. Secondo Schettino il provvedimento preso dalla Costa Crociere è ingiusto. Fa niente se in quel periodo un italiano su due dichiarava nei sondaggi di aver più paura a salire su una nave da crociera che a operarsi da solo d’appendicite usando una penna biro. Il comandante più impopolare dei sette mari ha chiesto (come riferiva ieri Repubblica) il reintegro in azienda. Vuole un timone di nuovo fra le mani e via, solcare le onde in camicia bianca sbottonata fino a metà panza, con le mostrine cucite addosso e perché no tutte le ballerine di fila dello show serale di samba accalcate in plancia. Non solo: il comandante avrebbe richiesto agli ex datori di lavoro anche un tot di denari, siccome da luglio scorso - quando fu cacciato a pedate - nessuno ha più avuto la gentilezza di versagli uno stipendio a fine mese.
A questo punto toccherà ai giudici, che già si stanno occupando di stabilire responsabilità e castighi per l’incidente, pronunciarsi anche sul destino professionale del capitano.
Forse sarà necessario chiamare al banco dei testimoni Gregorio De Falco, il comandante della Capitaneria di porto di Livorno che telefonò a Schettino mentre la Concordia s’inabissava per legger gli testualmente ciò che suggerisce il manuale della Marina civile in situazioni analoghe: «Torni a bordo, cazzo!». Tre parole e una parolaccia che valgono più di centomila perizie: il più alto in grado stava già a terra mentre sulla sua nave si crepava. Ma lui rivuole il posto, al limite dopo una lavata di capo. Un passeggero ha documentato con gli scatti della sua vacanza la cena allegrotta dove c’era anche la ragazza moldava (quella che poi si ritrovò in sala comandi al momento del patatrac), qualcuno ha testimoniato che al tavolo del comandante fu svuotato un intero decanter di prelibatissimo vino rosso. Ma lui presenta carte bollate e pretende una nave nuova di zecca. E c’è quell’ora e mezza di troppo dopo lo scontro con gli scogli, trascorsa senza ordinare l’evacuazione che avrebbe ridotto - forse azzerato - il numero delle vittime. Con la crisi che c’è Capitan Codardo s’è fatto coraggio, vuole tenersi il posto di lavoro. Anche se quella notte descrisse così la dinamica dei fatti: «Maronna, ch’aggio cumbinato».