Margherita De Bac, Sette 12/10/2012, 12 ottobre 2012
Un ex marine a caccia di staminali riparatrici – Robert Hariri era al pronto soccorso al Jamaica Hospital Cornell Trauma Center quando prese coscienza di un limite al momento invalicabile della medicina
Un ex marine a caccia di staminali riparatrici – Robert Hariri era al pronto soccorso al Jamaica Hospital Cornell Trauma Center quando prese coscienza di un limite al momento invalicabile della medicina. Malgrado gli incredibili successi nel campo della riparazione dei tessuti, l’uomo era ancora lontano dal traguardo finale: poter restaurare il cervello umano lesionato da gravi traumi cerebrali. Il dottor Hariri quel giorno, di fronte all’ennesimo dramma di una giovane vittima di un incidente stradale giunto in ospedale in condizioni disperate, probabilmente destinato a un coma perpetuo, tornò a casa col morale a terra. Qualche settimana dopo, il destino lo pose di fronte a un’immagine che gli indicò chiaramente la “via”, come oggi racconta: la figurina stondata del suo nipotino nella pancia della figlia, visto attraverso un’ecografia. Sì, lui sapeva fare anche questo, il radiologo. E fu proprio mentre eseguiva quell’esame che ebbe un’illuminazione: sarebbe stata la placenta, il morbido involucro che avvolgeva il piccolo, la candidata ideale per sperare che un giorno i ragazzi caduti dalla moto o le persone colpite da ictus potessero avere una prospettiva di cura. Eccola, forse, una miniera di cellule staminali da cui trarre materiale di ricerca. Da quell’intuizione è nato un progetto scientifico culminato 15 anni fa nella creazione di una società finalizzata alla scoperta e alla produzione di cellule derivate dalla placenta. Sede a Warren, tra i boschi e le colline del New Jersey: assorbita tre anni fa dall’azienda Celgene Corporation, la multinazionale che opera nel campo delle biotecnologie con investimenti poderosi, oggi la Celgene Cellular Therapeutics è fra i maggiori centri al mondo del settore da cui si attende la risposta a molte malattie non curabili, legate alla degenerazione e alla morte dei tessuti. L’obiettivo è arrivare alla ricostruzione in laboratorio di organi da trapiantare al posto di quelli danneggiati. Un sogno, da sempre accarezzato nei laboratori, ancora lontano. Ma ci sono altre applicazioni, più vicine al malato. Già è possibile ottenere dalle staminali della placenta, ricca di proteine come il collagene e l’elastina, porzioni di pelle con cui rivestire parti del corpo ustionate e, in una fase successiva, far ricrescere il derma direttamente sul corpo dei pazienti. Non basta. Sono in fase di sperimentazione farmaci per la cura di certi tumori rari e malattie degenerative. Per la felicità di donne che aspirano a prolungare la giovinezza, arriveranno poi creme, gocce e impacchi antinvecchiamento: una linea di sviluppo che i responsabili di Celgene tendono a non enfatizzare, ritenendola marginale rispetto ai grandi progetti negli altri settori. Nella visita all’azienda, i laboratori dedicati alla cosmesi vengono mostrati quasi solo per completezza. perché potrebbero sembrare niente rispetto a quello che i bioingegneri tentano nelle stanze accanto. Biomateriali rivestiti di staminali, sistemi di rivascolarizzazione e il futuristico bioprinter, la possibilità di “stampare” parti del corpo umano. Le staminali della placenta vengono ricavate con una tecnologia che consente di ottenerne di buona qualità e in quantità sufficiente per la sperimentazione clinica. Recente l’autorizzazione da parte dell’agenzia Fda (agenzia americana del farmaco) di un preparato chiamato con una sigla, Pda-001. Significa che le applicazioni delle staminali placentari potranno essere provate sull’uomo. Sono in corso sperimentazioni in fase avanzata per il trattamento di malattie immunologiche: morbo di Crohn e sclerosi multipla sono in cima alla lista delle priorità, ma c’è anche l’ischemia, nel mirino. La delusione delle embrionali. Abbiamo incontrato Hariri, amministratore delegato del centro, nel suo ufficio di Warren dove coordina una squadra di 200 ricercatori. Amichevole, abbronzato, sorridente e pratico grazie, probabilmente, alle sue esperienze avventurose. Origini mediorientali, un’ascendenza italiana, ex marine, pilota di jet, patologo clinico. «La placenta è il più naturale sistema di produzione di staminali» esordisce. «È un organo capace di controllare il sistema di nutrimento del feto; perché non sfruttare le sue potenzialità? Parliamo di una miniera di cellule: da una sola placenta riusciremo a ricavare 100mila dosi di farmaco. Oltretutto è un materiale inesauribile. Subito dopo il parto verrebbe gettato via. Invece noi lo raccogliamo dopo aver chiesto il consenso alle donne». Ogni anno nel New Jersey vengono utilizzate tremila placente, a costo zero. Hariri continua: «Le staminali dell’embrione sono instabili, dunque rendono difficile la produzione di farmaci. Dall’embrione si ricavano poche staminali e oltretutto in parte di scarsa qualità. Dunque dal punto di vista tecnico non sono utili. I ricercatori se ne sono resi conto. Le prime aziende che hanno investito su questo fronte hanno chiuso. La placenta è una fonte superiore che ci ha permesso di superare questi problemi». Secondo lei bisogna rinunciare agli studi sull’embrione? «È un campo interessante per la ricerca di base, ma non sul piano delle applicazioni cliniche». Dal punto di vista etico qual è il suo pensiero? «Sono cattolico, ma ragiono da uomo di scienza. Se l’embrione si fosse rivelato utile, credo che non avremmo dovuto precluderci la possibilità di sperimentare. Ma ci sono alternative più efficaci, e la placenta è uno degli esempi. Se è più facile estrarre petrolio in Texas perché andarlo a cercare in Oceania?». Una delle caratteristiche del centro è la giovane età del personale. Due edifici. Il primo per la ricerca vera e propria, il secondo per la produzione di staminali. Periodicamente vengono eseguiti test per verificare il rendimento delle squadre di ciascun reparto. Se uno solo dei “giocatori” ottiene un punteggio inferiore a quello dei compagni, l’intera équipe deve seguire un corso di addestramento. In Italia il cammino degli studi sulle cellule placentari viene seguito con interesse crescente. Il sogno è di creare un centro in stile americano anche da noi. L’azienda di Warren avrebbe identificato come sede il Policlinico Gemelli ma le parole non sono state trasformate in fatti. Stefano Portolano, nuovo vicepresidente di Celgene Europa: «Il nostro Paese deve dare segnali politici incoraggianti sia sul fronte della ricerca sia del premio all’innovazione. Dobbiamo essere competitivi, altrimenti le multinazionali si dirigeranno altrove. Si parla tanto di crescita ma è soprattutto in questo settore che bisognerebbe insistere tanto più che il nostro Paese possiede le competenze per giocarsela a livello internazionale». Da noi di cellule placentari si occupa un discreto numero di gruppi. Giulio Cossu, professore di biologia di staminali umane all’University College di Londra, non esprime giudizi: «Non ho mai lavorato su questo materiale. I ricercatori si dividono. Una parte della comunità è entusiasta. Lo scetticismo deriva dall’assenza di risultati definitivi e dal dubbio che si tratti effettivamente di cellule privilegiate dal punto di vista immunologico e dunque non esposte al rigetto. A mio parere il futuro è nelle cellule riprogrammate, cioè quelle adulte che vengono riportate a uno stato di totipotenza, alla capacità di essere progenitrici di tutti i tessuti, come le embrionali. Non dimentichiamo però che dietro allo scetticismo nei riguardi delle placentari potrebbero celarsi l’interesse di spingere verso altri campi di ricerca». Il gruppo all’avanguardia è quello coordinato da Ornella Parolini, al Centro Menni della Fondazione Poliambulanza di Brescia: «Abbiamo cominciato 10 anni fa, sperimentiamo su modelli animali le cellule della membrana amniotica, quella più interna. Abbiamo capito che queste staminali hanno una funzione rigenerativa non in quanto riparano direttamente i tessuti ma perché con un’attività antinfiammatoria e protettiva creano un ambiente favorevole alla rigenerazione. Sono dei serbatoi molto preziosi di sostanze benefiche». Ogni anno il centro bresciano raccoglie circa 400 placente donate dalle donne che partoriscono in ospedale.