Isabella Bossi Fedrigotti, Sette 12/10/2012, 12 ottobre 2012
Lilli Gruber e i fantasmi del Tirolo: «Le mie radici tra nazismo e nostalgia» – C’è un’altra Lilli Gruber, diversa da quella che per cinque giorni della settimana, alle otto e mezzo di sera, discute di fioretto (o, volentieri, anche di sciabola) con qualche protagonista più o meno accattivante della politica italiana
Lilli Gruber e i fantasmi del Tirolo: «Le mie radici tra nazismo e nostalgia» – C’è un’altra Lilli Gruber, diversa da quella che per cinque giorni della settimana, alle otto e mezzo di sera, discute di fioretto (o, volentieri, anche di sciabola) con qualche protagonista più o meno accattivante della politica italiana. Diversa nel senso che si occupa di tutt’altro, in quanto racconta una storia vera sul filo della memoria; eppure, insieme, uguale perché uguali sono la passione, la determinazione e il rigore che mette, che ha messo, in questo suo secondo lavoro. La storia che ha raccontato, inventandola dal vero, romanzandola, cioè, là dove mancavano concrete pezze d’appoggio, è quella della sua famiglia, tirolese della Bassa Atesina, di quella regione, cioè, che a sud di Bolzano si stende verso il Trentino e dove, come quasi sempre succede nelle zone di un qualche confine, le contrapposizioni sono state e a volte ancora sono più forti. Non una famiglia qualsiasi, la sua, bensì una grande e illustre discendenza di proprietari terrieri e, perciò, per forza di cose, strettamente coinvolta nella tormentata storia dell’Alto Adige, della sua “Heimat”, come dalla notte dei tempi dicono i tirolesi, termine caldo e rassicurante, ma allo stesso tempo carico di nostalgia, che indica patria ma anche casa, spesso lontane, spesso perdute. Quella di Lilli (Dietlinde) Gruber è stata, dunque, in un certo senso, un’inchiesta, una delle innumerevoli della sua carriera giornalistica, però un’inchiesta molto speciale e privata che felicemente sfuma nella narrazione, nel romanzo, cioè, in un ibrido che si può dire riuscito, se non altro a giudicare dalla velocità con cui il lettore – non soltanto quello territorialmente coinvolto – macina le oltre trecento pagine. Eredità (Rizzoli, pagg. 334, € 18,50) si intitola il libro, in questi giorni in libreria. Perché un romanzo? «Perché le parti romanzate permettono all’autore di penetrare meglio certe vicende, di comprenderle più in profondità, oltre che di ricostruire con l’invenzione i vuoti, i buchi della storia, come un tempo donne più abili di me con l’ago rammendavano, in modo invisibile, i buchi di una stoffa, di una calza. Anche se sul tema ho letto molto, non sono una storica e non volevo scrivere un saggio. La mia è piuttosto una piccola saga familiare, sullo sfondo, più ampio, dei grandi rivolgimenti vissuti dalla mia terra e dall’Europa tra le due guerre mondiali». Tutto comincia, come spesso cominciano i libri, da un vecchio diario ritrovato in una casa di famiglia, il diario della bisnonna materna di Lilli, Rosa Rizzolli nata Tiefenthaler. Donna di grande carattere che combatté come un leone, prima con il patriarca suo padre per poter sposare l’uomo che amava, un “senzaterra” considerato non all’altezza di una Tiefenthaler, e poi per proteggere la sua proprietà e la sua famiglia, i tanti figli e nipoti, cercando di mantenere vive in loro cultura, tradizioni e fede ereditate dagli antenati. Considerando l’energia e la determinazione di Lilli, pur piccolina e sottile, è facile immaginare che abbia preso qualcosa dalla bisnonna… «Ho conosciuto Rosa solo attraverso il suo diario, trovandovi le parole di una donna immersa nelle vicende politiche, ma anche in una grande passione amorosa che sarebbe durata tutta la vita. Per quasi quarant’anni ha annotato gioie, preoccupazioni e dolori – sì, erano i sentimenti forse ancora più degli avvenimenti che la inducevano ad aprire il diario – commentando la sua vita quotidiana con profonda saggezza. Per leggerlo ho dovuto farmelo, in un certo senso, tradurre perché è scritto in caratteri gotici, grafia che conosco solo nella versione stampatello, non nel corsivo della scrittura a mano. Il dolore più grande o, meglio, l’assoluto sconcerto, l’ansia, la disperazione a Rosa li ha portati la guerra, la Prima, la Grande, che ha segnato per la sua famiglia e la sua gente la perdita della Heimat. Con il trattato di Versailles il Sudtirolo venne, infatti, assegnato all’Italia e i suoi abitanti, fedeli sudditi della monarchia asburgica, si sentirono traditi e abbandonati». Eredità ha il merito di spiegare con chiarezza le conseguenze spesso tragiche di questo sentimento di abbandono e di tradimento, di ingiustizia subita da un popolo fedelissimo alla patria, consegnato in mano agli stranieri. Ovvio che l’impressione di essere stati venduti come prede di guerra, uniti ai tentativi di italianizzazione subito intrapresi dal neonato fascismo, spinsero gli ormai non più tirolesi ma altoatesini ad aggrapparsi in ogni modo alle loro tradizioni, a sottolineare la loro diversità, a chiudersi nella loro cultura e lingua, sempre sperando che il nastro della storia potesse riavvolgersi indietro. Con il solo risultato di indurre il regime ad accanirsi contro di loro con controlli, arresti, divieti e repressione. Specialmente nella Bassa Atesina, dove, nel paesino di Pinzon, la bisnonna annotava nel diario i suoi dispiaceri di natura politica e l’allarme per una figlia in particolare, Hella, la minore, appassionata sostenitrice della causa tirolese e maestra di tedesco nelle scuole clandestine. «Fu arrestata, per questo, la mia prozia, subito ribattezzata Elena dalla burocrazia fascista e mandata, dopo cinque mesi di cella, al confino in un piccolissimo paese della Basilicata per altri sei mesi. Sono andata a Castelluccio Inferiore e ho trovato qualche ricordo del suo soggiorno laggiù, riuscendo a immaginare lo sgomento di Hella in quel mondo che più distante dal suo non si poteva. Maggiore è stato, tuttavia, lo sgomento mio nello scoprire che diventò una fervente nazista, convinta, come la maggioranza dei sudtirolesi – in particolare dopo l’Anschluss con l’Austria – che Hitler avrebbe salvato la loro Heimat, riportandola dentro la grande nazione tedesca. Come attivista del Vks, movimento filonazista che si batteva per i diritti dei sudtirolesi, era stata invitata in tribuna d’onore al congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga nel 1936, e ne tornò esaltata. Posso capire le ragioni, ma non giustificarle. Ci fu chi capì in tempo: lei, come altri, volle credere che quanto il Führer andava ripetendo a proposito dell’inviolabilità del confine del Brennero fosse solo tattica politica; né dubitò di lui quando nel suo viaggio in treno verso Roma, attraversando l’Alto Adige, si guardò bene dallo scostare la tenda del finestrino per salutare le folle che si erano adunate, con bambini festanti, lungo la ferrovia». E l’ormai anziana Rosa cosa scriveva, di questa sua figlia? «Ci sono pagine sulla sua ansia durante il confino e su quello che cercava di fare per liberarla: riuscirà a ottenere la grazia dal Duce con un appello a Ciano consegnato in modo rocambolesco… Ma non era per niente d’accordo con la sua fede in Hitler, perché lo considerava un senza Dio». Poi, nel ’39, venne il tempo delle opzioni, per le quali, secondo l’accordo Hitler-Mussolini, gli altoatesini potevano scegliere se restare in Italia, italianizzandosi, oppure trasferirsi in terre tedesche, senza però che nessuno sapesse dove in particolare: era soltanto stato detto loro che li aspettavano fertili campi da coltivare. Opzioni che divisero crudelmente la popolazione tra optanti e non optanti, tra la stragrande maggioranza che decise di andare e la minoranza che scelse di restare, con accuse reciproche di tradimento. «Rosa alla fine optò o, meglio, optò per lei il marito Jakob, perché le mogli non avevano diritto di voto. Ma non partì mai. Come non partì la maggior parte dei suoi conterranei. Nessun proprietario terriero voleva davvero lasciare casa e campi posseduti da secoli in cambio di chissà quale pezzetto di terra lontano e inospitale. E per di più in Germania era scoppiata la guerra. Quando poi l’Italia si unì al conflitto, le partenze cessarono del tutto. Nell’insieme furono circa 75.000 quelli che partirono, la metà dei quali poi tornò indietro. Ma questa è un’altra storia. Per Rosa, la sola idea di dover strappare le proprie radici fu così devastante che morì nel giro di pochi mesi». Sarebbe stata fiera, Rosa, della sua bisnipote? «Spero di sì. Era una donna che viveva pienamente nel suo tempo e penso di esserlo anch’io. E magari avrebbe approvato il fatto che l’aver scritto Eredità è stato un modo per riconciliarmi con il mio passato e con la mia Heimat, che era anche la sua». Nel libro, oltre a pagine del diario di Rosa, a brani di lettere di Hella – tutte o quasi tutte fortunatamente conservate – entra di quando in quando, con osservazioni, confessioni e noterelle biografiche, anche la voce dell’autrice, di modo che, alla narrazione della grande storia cui corre parallela quella piccola e familiare, si mescola anche, più discreto e più sottile, un terzo filo, quello autobiografico di Dietlinde Gruber, nata a Bolzano, cresciuta a Neumarkt (Egna) ma presto traferita nella capitale e poi destinata viaggiare in tutto il mondo. Come succede che una sudtirolese finisca a Roma? «Un po’ per fortuna, un po’ per le scelte fatte. Dopo vario precariato giornalistico alla Rai di Bolzano in lingua tedesca fui assunta alla Rai in lingua italiana. Il salto a Roma lo devo ad Antonio Ghirelli che, quando nell’86 arrivò al Tg2, si chiese perché in video comparissero sempre e soltanto facce maschili: setacciò le sedi regionali in cerca di un volto femminile e fui invitata a presentarmi anch’io. Partii da Bolzano un torrido sabato di luglio con un paio di cassette sotto braccio, da mostrare al direttore. Ne guardò una per dieci minuti e poi disse: “Gruber, lunedì lei incomincia”». E lei cosa ha fatto? «Sono corsa fuori a comprarmi una giacchetta per andare in video, prima che chiudessero i negozi». Ventisei anni dopo Lilli Gruber è più che mai al lavoro, tanto che Eredità ha dovuto prepararlo e scriverlo interamente in tempo di vacanze, mettendoci, peraltro, due anni buoni. Le sue giornate, insopportabili per chi dovesse soffrire anche soltanto un poco di ansia, se ne vanno tutte nella preparazione della puntata serale di Otto e mezzo, il che significa ascolto della radio e lettura di cinque, sei, sette giornali fino, quasi, dall’alba e poi riunioni con il coautore Paolo Pagliaro – bolzanino anche lui – e con la redazione. Nel frammezzo, una corsa salutare a Villa Borghese e un pranzo supremamente dietetico a base di verdure, insalata e semi vari. Niente vino fino a sera, di modo da restare vispa abbastanza per poter ribaltare la trasmissione anche all’ultimo minuto. Una sudtirolese a Roma vive così.