Gian Antonio Stella, Sette 12/10/2012, 12 ottobre 2012
La deportazione dimenticata – In conseguenza (della) inefficienza numerica morale e combattiva dell’Arma dei carabinieri in Roma, ordino: entro questa notte tutti i carabinieri reali siano disarmati»
La deportazione dimenticata – In conseguenza (della) inefficienza numerica morale e combattiva dell’Arma dei carabinieri in Roma, ordino: entro questa notte tutti i carabinieri reali siano disarmati». Quegli italiani che non si scandalizzano per l’indecente mausoleo di Affile e si rifiutano di riconoscere in Rodolfo Graziani il macellaio di migliaia di vecchi, donne, bambini costretti a una marcia di centinaia di chilometri attraverso il deserto libico o di quei 1.400 preti e diaconi cristiani fatti decimare dalle truppe islamiche inquadrate nell’esercito italiano, atti che non c’entrano nulla con le guerre «normali», dimenticano tra le altre cose anche il dispaccio firmato di suo pugno dal maresciallo mercoledì 6 ottobre 1943. Il criminale di guerra era allora ministro della Difesa della Repubblica di Salò, sapeva probabilmente che i nazisti stavano predisponendo il rastrellamento di tutti gli ebrei romani che sarebbe avvenuto esattamente dieci giorni dopo, e voleva evitare problemi. Stando alle ricerche di Anna Maria Casavola, autrice del libro 7 ottobre 1943, il macellaio temeva infatti che i militari fossero troppo legati al giuramento al Re per garantire la collaborazione che i nazisti pretendevano. Quella dei carabinieri, spiegò la Casavola presentando il suo studio alla Scuola Ufficiali dell’Arma intitolata al maggiore Ugo De Carolis, uno degli eroi della Resistenza romana assassinato alle Fosse Ardeatine, fu «la più grande deportazione di uomini da Roma». Meno tragica nei suoi esiti finali ma più numerosa perfino di quella della comunità ebraica. Duemila e cinquecento appuntati, brigadieri, ufficiali, militari semplici vennero rastrellati, caricati sui treni piombati e avviati ai campi di concentramento in Germania. «Dalla decriptazione del traffico telefonico di Kappler tra Roma e Berlino», secondo l’autrice della ricerca, «è venuto fuori che egli aveva chiesto al suo superiore Wolf la deportazione dalla capitale dei carabinieri, prima di mettere in atto il rastrellamento degli ebrei, perché evidentemente pensava che i carabinieri avrebbero potuto ostacolarlo, oppure che potevano innescare una rivolta come quella che era avvenuta qualche giorno prima a Napoli, in cui i tedeschi erano stati cacciati dal popolo, che era insorto contro di loro, combattendo a mani nude o armato con armi fornite dai carabinieri, che erano scesi al suo fianco». dettagli illuminanti. Erano stati i carabinieri, il 25 luglio, su ordine di Vittorio Emanuele III, ad arrestare Benito Mussolini all’uscita da villa Savoia dopo un incontro che il giudice aveva avuto con il re: come poteva il fascistissimo Rodolfo Graziani fidarsi di loro? Molto meglio, dal suo punto di vista, affidare l’ordine pubblico nella capitale agli alleati nazisti e, come spiega l’ordine che citavamo all’inizio, alla P.A.I., cioè la polizia dell’Africa italiana, di cui il boia della Cirenaica e dell’Etiopia si fidava ciecamente. Tanto per capire il tono del dispaccio, Graziani chiudeva così: «Gli ufficiali resteranno nei rispettivi alloggiamenti sotto pena, in caso di disobbedienza, di esecuzione sommaria e di arresto delle rispettive famiglie». Dettaglio illuminante sulla statura morale dell’uomo cui è stato dedicato il sacrario infame: cosa c’entravano, in ogni caso, le mogli e i figli dei carabinieri? Come la pensassero quei militari lo dice la testimonianza del sottufficiale Domenico Lusetti, detenuto nel lager 11b di Fallingbostel: «Il tedesco con voce stridula grida e l’interprete traduce. Chi non è fascista alzi la mano. Eravamo duemila consapevoli che stavamo per decretarci un destino di sofferenza e forse di morte ma tutti, nessuno escluso, abbiamo alzato la mano. Era una selva di mani e in quell’istante ci siamo sentiti Noi».