Francesco La Licata, la Stampa 12/10/2010, 12 ottobre 2010
CONTRADA: QUALCUNO SI RAVVEDER
[L’ex funzionario del Sisde scarcerato dopo 10 anni: la verità verrà ristabilita] –
Non si è mosso di un millimetro dalla posizione assunta la mattina di quella vigilia di Natale del 1992, quando, lui «sbirro» tra i più raffinati, aprì la porta ai colleghi che venivano ad arrestarlo su mandato della Procura di Palermo, ferita a morte dalle terribili stragi che avevano portato via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Oggi Bruno Contrada, funzionario di vertice dell’ex Sisde (il servizio informativo civile) ed ex capo della squadra mobile di Palermo negli Anni 70), è di nuovo un uomo libero, dopo 20 anni di processi e più di 8 di detenzione. Il suo commento: «Spero che qualcuno si ravvederà del male che ha fatto a me e alle istituzioni».
Contrada ha sempre cercato di difendersi dall’accusa di «intelligenza col nemico» (cioè Cosa nostra), macchia indelebile per un uomo di formazione militare e con una innegabile inclinazione verso le regole. «Se fossi colpevole di ciò di cui vengo accusato - aveva detto dopo la prima condanna - non meriterei una pena così lieve, ma la fucilazione alle spalle». E, una volta libero dopo 30 mesi di carcerazione preventiva, corresse i cronisti che pontificavano: «Giustizia è fatta». «Assolutamente no», rispose Contrada. «Sono soltanto un imputato a piede libero, la strada della giustizia sarà lunga».
Facile previsione, la sua. E così oggi, dopo un quarto di secolo, ha gioco facile a insistere sulla tesi della giustizia non compiuta perché continua a protestarsi «non colpevole», nella migliore delle ipotesi vittima di un abbaglio dei giudici, nella peggiore bersaglio di una «trappola» di uomini che non nomina ma evidentemente crede di conoscere bene. L’aspetto fisico non rende la capacità di un ottantenne, neppure in buona salute, ossessionato da un solo obiettivo: recuperare la dignità persa, la sua e «quella dell’Istituzione che ho rappresentato». In passato, nelle aule dei tribunali, ha affidato la sua difesa ad uomini di legge, ora ha cominciato a fare da solo.
Per questo ha racchiuso tutto il peso dei ricordi in un libro («La mia prigione», Marsilio editore), scritto con la giornalista Letizia Leviti (inviata di Sky). «Non è una difesa», dice Contrada, «è solo il racconto dei fatti, ora che ho espiato per intero una pena che non meritavo». Ne vien fuori una disamina di tutti i capi d’accusa che rimanda al mittente. Evidentemente sono i pentiti ad essere presi di mira: Gaspare Mutolo, Masino Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Rosario Spatola, Francesco di Carlo e tutti gli altri (17 in tutto) arrivati, fa intendere l’autore, a coprire i vuoti man mano lasciati dalle bugie dei primi.
Ma non ci sono soltanto i pentiti nel suo elenco. La sua tesi è che "costruzione" non avrebbe retto senza la volontà istituzionele di certificare una volontà inesistente. E così lamenta i silenzi di uomini dell’antimafia (come il consigliere istruttore Antonino Caponnetto) che avrebbero potuto testimoniare in suo favore ma preferiscono "non ricordare". Più di una frecciatina la riserva a Gianni De Gennaro (allora dirigente della DIA). E’ pungente quando - parlando del pentimento di Mutolo - lo descrive adagiato "tra le braccia ospitali della DIA di De Gennaro". Più esplicita la critica a commento di una frase di Enzo Biagi Su Buscetta: "De Gennaro me lo descrisse come un uomo pieno di dignità". Scrive Contrada: "Io l’avrei definito un uomo pieno di carisma criminale".
Ma chi ha voluto la fine di Contrada? Non risponde, forse perché non ci può essere una risposta sola. Certo, è singolare che fra tanti processi svaniti nei meandri dell’ingegneria giudiziaria abbiano resistito solo il suo e quello a carico dell’altro capo della squadra mobile di Palermo, Ignazio D’Antone, anche lui tornato in libertà da pochi giorni. Una certezza se la lascia sfuggire: «Vedo un tentativo che proviene anche da ambienti dei carabinieri di coinvolgermi in storie alle quali sono completamente estraneo». Parole dure, scritte però dopo aver descritto il generale Mori come «uno dei migliori ufficiali dell’Arma» e «la Benemerita» come «simbolo della nostra Patria».
E la trattativa tra Stato e mafia? Contrada dice di non aver saputo nulla fino al ’92, «poi fui arrestato». «Se avessi saputo - scrive - di un’azione svolta, forse anche a fini investigativi ritenuti volti al bene, io non avrei nessuna difficoltà a riferirlo». Ma la trattativa c’è stata? «Io credo che ci possa essere stato un tentativo, tacito ma implicitamente significativo e di chiara lettura per chi doveva capire e provvedere, da parte della mafia, di intimidazione, di pressione, di convincimento ad attenuare la durezza delle misure che lo Stato aveva già adottato e di altre che avrebbe ancora adottato, più incisive».
E allora? «Non vedo motivo di scandalizzarsi. D’altra parte tutto il pentitismo è basato su questa strategia». Paragone forse eccessivo, visto che i pentiti qualche vita umana l’hanno salvata.