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 2012  ottobre 12 Venerdì calendario

MO YAN, NOBEL ALLA CINA PROFONDA — È

Successo nello Shandong. Non poteva che succedere nello Shandong. Il Premio Nobel per la letteratura è andato a scovare Mo Yan, uno dei pochissimi scrittori cinesi ad aver conquistato una rilevanza internazionale, nel suo nido. Nel villaggio dov’è nato 57 anni fa, Gaomi. Perché tutto è cominciato lì, il suo universo e l’universo della sua scrittura si sono impastati con le sementi dei campi, hanno succhiato le storie della regione dove nacque Confucio, che patì l’umiliazione coloniale (tedesca, nella fattispecie) e che, come il resto della Cina, si è insanguinata della guerra antigiapponese, della guerra civile, degli obbrobri del Grande balzo in avanti e della Rivoluzione culturale. Gli accademici di Stoccolma hanno voluto premiare la lussureggiante prosa di Mo Yan, capace, «attraverso una mescolanza di fantasia e realtà, prospettive storiche e sociali», di dare vita a «un mondo che, nella sua complessità, rimanda a quella delle opere di William Faulkner e Gabriel García Márquez, ma allo stesso tempo scaturisce dall’antica letteratura cinese e dalla tradizione orale».
È felice Mo Yan, vero nome Guan Moye, che nel 2009 aveva confidato al «Corriere» che, sì, «mi piacerebbe ottenere il Nobel anche se non mi cambierebbe la vita». Nella fresca notte di Gaomi fa sapere che «la Cina ha parecchi autori eccezionali, e anche il loro lavoro dovrebbe essere riconosciuto dal mondo. I miei scritti sono letteratura cinese che è parte della letteratura mondiale. Mostrano la vita dei cinesi, la loro cultura unica». La Cina esulta. Quella che veniva indicata, e talvolta irrisa, come «ansia da Nobel» è placata. Il «Quotidiano del Popolo» ha subito rimarcato che si tratta del «primo cinese a vincere il Nobel per la letteratura» e che «gli scrittori cinesi hanno aspettato troppo a lungo, il popolo cinese ha aspettato troppo a lungo». Non è vero. In realtà, lo scrittore cinese Gao Xingjian aveva ottenuto il riconoscimento nel 2000, ma vive a Parigi, è cittadino francese e resta virtualmente sconosciuto nella Repubblica Popolare: dalla leadership l’onore svedese fu subito come uno schiaffo umiliante. Gao, transfuga e critico del Partito comunista, non viene dunque calcolato. Le precipitose parole di elogio dell’allora premier Zhu Rongji furono presto inghiottite, come lo stesso Gao, da un silenzio polare. Per una Cina in perenne ricerca di rassicurazioni e riconoscimenti sul suo status di potenza globale, per un Paese tanto accanito quanto talvolta goffo nel dispiegare il suo soft power, il Nobel a Mo Yan assume così il gusto di un riscatto, a maggior ragione quando un’altra nazione asiatica, l’affannato e rivale Giappone, ne conta due, Yasunari Kawabata (1968) e Kenzaburo Oe (1994).
Il premio a Mo Yan s’infila però come un cuneo nelle contraddizioni della Cina. Mo Yan, che si è ritirato a Gaomi da Pechino per sfuggire alle pressioni dell’attesa, non appartiene alla cerchia degli autori «contro». Per quanto abbia avuto in passato problemi con la censura e non schivi i temi ostici, è vicepresidente dell’Associazione degli scrittori. I detrattori gli rimproverano l’iscrizione al Partito comunista, la scorsa primavera il Web fremeva di sdegno perché Mo Yan aveva partecipato con altri scrittori a un’iniziativa in cui aveva ricopiato a mano frasi di Mao Zedong sulla letteratura, un gesto considerato una sorta di servilismo postumo a un dittatore sanguinario.
Il paradosso è che il Nobel a Mo Yan può spostare nuovamente l’attenzione su un altro Nobel vinto da un cittadino cinese, un Nobel che fece infuriare Pechino esattamente due anni fa: quello per la Pace (di nomina non svedese, ma norvegese) al dissidente Liu Xiaobo. Proprio a Liu ha perciò fatto riferimento ieri l’artista Ai Weiwei quando, pur senza aver letto i libri del connazionale, ha dichiarato che il premio «non servirà a Liu, a meno che Mo Yan non esprima preoccupazione per lui». Mo Yan è organico al sistema, sostiene Ai: «In passato ha dichiarato di non aver nulla da dire su Liu. Penso che i signori del Nobel si siano chiamati fuori dalla realtà, assegnandogli il premio. Davvero, non riesco a capire».
Con la sprezzante durezza di Ai fa contrasto He Peirong, l’attivista che contribuì alla fuga dell’avvocato Chen Guangcheng nell’ambasciata Usa di Pechino. «Se il premio serve a promuovere la letteratura seria, sono contenta», ha confidato la donna ad «AgiChina24», sottolineando come l’argomento di Le rane (uscito in Cina nel dicembre 2009), ovvero gli aborti nelle campagne raccontati attraverso quella che può apparire una sorta di ostetrica al contrario, tocchi proprio la battaglia di Chen: la lotta agli aborti forzati.
E qui sta uno degli aspetti chiave di Mo Yan, proprio la capacità di introdurre temi politici — non necessariamente in senso lato — nel denso tessuto delle sue storie, costellate di «metafore iperattive», secondo la definizione di un recensore d’eccezione, il collega americano John Updike. «Riuscire a stare all’interno di un sistema e insieme essere in grado di criticare è, a mio avviso, uno degli esercizi più difficili e intelligenti», dice al «Corriere» la sua traduttrice Patrizia Liberati, avvezza a confrontarsi con una lingua mutevole a seconda dei contesti, «complessa, piena di espressioni locali più che dialettali, capace di aprirsi in un canto a più voci, come nel Supplizio del legno di sandalo, a formule estremamente ricercate».
Il legame con la sua terra attraversa tutta l’opera di Mo Yan, non ancora interamente tradotta in italiano. Il respiro epico prevale in Sorgo rosso, tre generazioni di Cina negli anni Trenta dell’invasione giapponese, un romanzo che Zhang Yimou ha trasformato nell’unico film di cui Mo Yan si sia dichiarato soddisfatto. Grande seno, fianchi larghi è un carnale, affabulatorio omaggio alla madre e alle più intime radici, intralciato dalla censura, e debitore degli anni delle Guardie Rosse in cui il piccolo Mo Yan venne strappato alla scuola e finì col cibarsi di cortecce. Il supplizio del legno di sandalo, dopo memorabili assaggi di teatro rurale, culmina con pagine feroci: una lunga, minuziosa descrizione di torture seguite in ogni spasmo, con un’accuratezza che si trasforma quasi in puro sadismo, come poche denunce della violenza del potere sanno fare.
Tutto fornisce materia da romanzo, anche i molti anni trascorsi nell’esercito, come scrittore «arruolato»; un’occupazione lasciata da Mo Yan nel 1997, che non ha impedito le capriole oniriche e zoomorfe condensate nelle Sei reincarnazioni di Ximen Nao, dove la lingua di Mo Yan si offre agli animali. E anche le memorie di Cambiamenti hanno guizzi in contropiede (come nel finale autodenigratorio, con le banconote che passano di mano) che abbattono i confini tra ciò che è stato davvero e ciò che si scrive.
Mo Yan lo promette: anche adesso che è davvero scrittore laureato, non smetterà di inventare storie. In qualche modo ha sdoganato la Cina. I colleghi scrittori glielo riconoscono. Basta ascoltare quello che dice al «Corriere» Yan Lianke, l’autore di Servire il popolo e Il sogno del villaggio dei Ding: «Che Mo Yan abbia vinto il Nobel non è così importante per gli scrittori cinesi. Lo è per la letteratura cinese. Si deve festeggiare. Mo Yan ha influenzato gli sviluppi della letteratura cinese negli ultimi venti, trent’anni. È un riconoscimento anche alla letteratura asiatica. Adesso assisteremo a un’attenzione maggiore da parte dei lettori di tutto il mondo verso la Cina. E comunque: gli scrittori non lavorano pensando di vincere il Nobel, come credono i media e i lettori. Gli scrittori cinesi scrivono per amore della scrittura, fino ad annullare sé stessi».
Marco Del Corona