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 2012  ottobre 12 Venerdì calendario

LA PUBBLICITA’ (INVISIBILE) IN RETE

Il trucco c’è ma non si vede. Già, perché non sempre la pubblicità è visibile agli utenti dei social network. Ma tra un messaggio e l’altro il rischio che qualcuno ci induca a comprare qualcosa o tenti di capire cosa stiamo per acquistare è sempre più grande. L’esempio più eclatante è Twitter. Nessun banner disturba la grafica pulita del sito di microblogging gratuito e minimal. All’apparenza sono le opinioni degli utenti a dominare. Tutti dicono quel che pensano sul tal programma televisivo, sull’ultima partita di calcio o sull’ennesima uscita del politico di turno. Si ha l’illusione che la lista degli argomenti discussi sia determinata dal basso. E tutto questo è vero. Ma basta poco per scoprire l’altra faccia della medaglia.
«Abbiamo fatto una scelta fin dall’inizio: la pubblicità su Twitter non deve disturbare i nostri utenti. Ma è inutile negarlo: c’è», spiega Tony Wang, general manager di Twitter Uk, che ha presentato i successi degli uccellini cinguettanti in Europa allo Iab Forum, appuntamento milanese di comunicazione digitale. Il primo sistema per monetizzare è «passare» alle aziende le statistiche e i feedback su determinati argomenti. Con l’utente che diventa così parte inconsapevole di un’enorme ricerca di mercato condotta su larga scala.
Nel caso di Twitter si tratta per lo più di informazioni reperibili con una semplice ricerca sul social network poiché le discussioni sono pubbliche. Però la compagnia di Jack Dorsey ha già dato mandato ad aziende di archiviazione dati come la DataSift Inc. di analizzare il contenuto dei tweet e di archiviarli in base al Paese di provenienza. Un database e una miniera d’oro che di sicuro Twitter non terrà chiusi in cassaforte.
Spiega ancora Wang: «In Italia hanno particolarmente valore i messaggi sulla moda o sul design, utili ai brand per capire le tendenze. Ma non vanno dimenticati i grandi eventi televisivi (il 37% dei tweet). Le nozze di William e Kate hanno fatto registrare 3.600 tweet al secondo. Con gli ultimi Giochi olimpici siamo saliti a 15.358». Morale, prima di decidere i palinsesti i broadcaster dovrebbero farsi un giro su Twitter spianando così la strada ad altre inserzioni pubblicitarie.
Stesso discorso vale per il social network di Zuckerberg. Pochi mesi fa il New York Times in un articolo intitolato «Facebook ti sta usando» spiegava come le informazioni ricavate al momento dell’iscrizione (sesso, età, preferenze di ogni tipo) venissero usate già da tempo per creare pubblicità mirata sui singoli profili. E se la direzione intrapresa da Facebook è quella di diventare un grande portale di e-commerce con cui fare acquisti, anche Twitter ha scelto di introdurre tweet a pagamento, da inserire eventualmente nella classifica degli argomenti più discussi. Caso ancora diverso è Google+, il social network di Mountain View. Qui la pubblicità non c’è. Ma Google ricava cifre da capogiro — si stima 36,5 miliardi di dollari — con gli annunci (gli AdWords) sul motore di ricerca.
Attenzione, però. Non sempre la réclame fa bene ai social network. Per molto tempo Zuckerberg ha tentennato prima di aprirle le porte. Poi ha capitolato. E se il capo operativo di Menlo Park, Sheryl Sandberg, ha portato Fb in borsa, è stato anche grazie ai 3,8 miliardi di dollari raccolti nel 2011. Un successo che oggi rischia però di lasciare l’amaro in bocca, come dimostrano le oscillazioni in borsa. Ma non solo. Secondo una recente analisi condotta da Mimesi e dal Politecnico, «i consumatori realmente "attenti" all’advertising sui siti social rappresentano solo l’11%».
Tutto risolto, dunque, nessuno si fa prendere per il naso? «La nostra indagine non suggerisce che la pubblicità sui social network sia inefficace — risponde Giuliano Noci, ordinario di Marketing del Politecnico di Milano —, ma indica come gli utenti non apprezzino più di tanto la pubblicità statica sui canali social. Meglio allora coinvolgerli attraverso un approccio relazionale». Che, tradotto, significa: se vuoi vendere attraverso i social network devi farti amico il cliente. E non cercare mai di manipolarlo. O, almeno, non troppo.
Marta Serafini