Gianni Mura, la Repubblica 12/10/2012, 12 ottobre 2012
Il campione chimico – Il texano dagli occhi di ghiaccio. Sembra il titolo di un film, magari con Clint Eastwood protagonista, invece è il modo in cui i giornali, non solo francesi, hanno chiamato Armstrong dal 1999 in qua
Il campione chimico – Il texano dagli occhi di ghiaccio. Sembra il titolo di un film, magari con Clint Eastwood protagonista, invece è il modo in cui i giornali, non solo francesi, hanno chiamato Armstrong dal 1999 in qua. Ora la sua storia somiglia a quella del dottor Jekyll e di mister Hyde: lo scampato al cancro che corre per vincere ma anche per dare speranza ai malati, il campione che raccoglie milioni di dollari con Livestrong, l’associazione che ha fondato, il benefattore dai modi un po’ bruschi, giustificati dalla vita che ha avuto, e l’imbroglione che, parole dell’Usada, ha creato il sistema di doping più forte che mai si sia visto nello sport. Già a fine agosto l’Usada aveva messo in piazza i segreti di Armstrong-Hyde. Che, per inciso, Stevenson non può aver scelto un cognome a caso, suona come il verbo “to hide” (nascondere). La vita e la carriera ciclistica di Armstrong sono un geniale (finché ha retto) castello di realtà anche scomode messe in piazza (e sul suo sito) e di realtà taciute. Che gli sono tornate addosso, come il più efficiente dei boomerang. Si poteva pensare che la faccenda fosse chiusa nello scorso febbraio, quando Jeff Novitzky alzò le braccia in segno di resa, dopo lunghe indagini su Armstrong e la sua squadra, l’Us Postal. Novitzky non è un frillo qualunque, è l’agente federale del caso-Balco, quello che smascherò Tim Montgomery e Marion Jones. L’Usada ha raccolto le testimonianze di numerosi compagni di squadra di Armstrong e tutti portano il loro mattone, pesante. Sembra che non si facesse mancare nulla, il boss: epo, ormone della crescita, testosterone, cortisone, autoemotrasfusioni. Anche il più fedele dei gregari di Armstrong, George Hincapie (che vinse un tappone pirenaico) ha inchiodato il capitano. Se tutte queste confessioni in blocco sembrano sospette, bisogna sapere che, se avessero mentito, i ciclisti avrebbero rischiato la galera. La tesi dei legali di Armstrong è che siano stati minacciati, spaventati e indotti a confessare episodi di doping mai esistiti. Ma, di fronte al numero e alla precisione delle testimonianze, è una tesi che non sta in piedi. Credo quia absurdum. All’inizio mi sono riconosciuto in questa frase attribuita a Tertulliano, secondo altri , invece, di sant’Agostino. Avrei forse dovuto credere a Millar, ciclista dopato e pentito: “Alle imprese incredibili non si deve credere”. E’ una cosa strana, lo sport. Doping a parte, porta a pensare che il limite si sposti sempre più in là, come l’orizzonte nella parabola di Galeano, e che non esistano strumenti per misurare la volontà dell’uomo e la sua capacità di soffrire, di faticare per inseguire un traguardo. Così il texano dagli occhi di ghiaccio passa da fenomeno a mostro, che nell’etimologia classica può anche indicare un prodigio ma in quella corrente no. E la mostruosità di Armstrong non sta solo nell’essersi dopato per anni, ma di avere convinto a farlo molti suoi compagni (tutti made in Usa, a quanto pare). Un doping di squadra molto più perfezionato di quello della Festina, dal capitano Virenque in giù tutti rispediti a casa da Brive-la-Gaillarde, Tour 1998. Nel ’99 arriva Armstrong, anzi torna. Al Tour c’era già venuto , era stato il più giovane vincitore di tappa a Verdun sotto un temporale (22 anni da compiere). E sempre nel ’93 sotto un temporale ancora più violento aveva vinto i mondiali di Oslo, litigando con gli addetti al cerimoniale. Sua madre non poteva entrare nel recinto della premiazione. Non m’importa se ci sono il re e la regina, disse lui, o mia madre entra o io su quel podio non ci vado. Linda, sua madre, l’aveva cresciuto. Il padre se n’era andato di casa che Lance aveva tre anni. Il patrigno (“un vero stronzo”) lo picchiava spesso e volentieri con un remo. Lance non gioca a football, Lance non ha un padre, gli altri bambini lo prendono in giro. Lui, crescendo, si avvia verso lo sport più duro, il triathlon. In una delle prime gare ha una maglietta con su scritto “I love my mum”. Diventa campione nazionale nell’89 e 90. Poi, solo ciclismo. E’ quattrordicesimo nell’Olimpiade che Casartelli vince a Barcellona. Lo vorrà in squadra con lui e nel ’95, dopo la morte dell’amico nella discesa del Portet d’Aspet, vincerà in solitudine a Limoges, indicando con le due mani il cielo. La foto è notissima, ed è la stessa foto, ingrandita, che Armstrong tiene nel soggiorno della casa di Austin. Vive in Italia, lo chiamano cow boy per l’irruenza e la spacconeria. Se sapesse correre con la testa, vincerebbe di più, ha la forza di un toro, dicono gli esperti. E’ un corridore da corse in linea, quando al Tour cominciano le salite si ritira. Gli piacciono le Harley Davidson e le birre e naturalmente le ragazze, purché non sia una cosa impegnativa. Nell’ottobre del ’96 gli viene diagnosticato un cancro ai testicoli. “Hai il 50% di possibilità di cavartela”, gli dice l’oncologo. “Basterà”, dice lui. Ha da poco compiuto 25 anni, la Cofidis straccia un contratto da poco sottoscritto mentre Lance è in chemioterapia. Ha annunciato la malattia in conferenza-stampa. Non nasconderà nemmeno gli episodi più avvilenti: prima dell’intervento per l’ablazione di un testicolo si masturba con l’aiuto di una rivista porno, fornita da una clinica specializzata nella conservazione dello sperma. Le lastre indicano macchioline preoccupanti nella zona cerebrale. Altro intervento chirurgico. “Palla, spillo, passo carraio. Ricordati queste tre parole, le dovrai dire quando ti riprendi dall’anestesia e capiremo che non hai subito danni” gli dice l’infermiera. “Palla, spillo, passo carraio” dice lui. E il cancro lo chiama “il bastardo”. Passano 518 giorni dal giorno del primo intervento. E Lance si mette in testa non solo di tornare a correre, ma di vincere il Tour. Il “come back” avviene al Giro del Lussemburgo del ’98 (vinto). Ai campionati del mondo si piazza quarto sia a cronomentro sia in linea, e quarto anche alla Vuelta. E’ alla corsa spagnola che Johan Bruyneel, ex ciclista belga poi diventato ds, si convince che la sfida del Tour la si può giocare. Perché proprio il Tour? Perché è la corsa più famosa e più dura, perché Armstrong ha bisogno di grandi sfide, non s’accontenta, come farebbero in tanti, di aver salvato la pelle. Tour 1999. Armstrong lo vince e la sua storia fa il giro del mondo, coinvolge milioni di persone. Armstrong dimostra (barando, si può dire oggi ma già molti lo dicevano ieri) che non solo dal cancro si può guarire (non sempre, non tutti, lui sì) ma si può tornare, sportivamente parlando, in cima alla piramide. “E’ il giorno più bello della tua vita?”, gli chiedono sui Campi Elisi, appena giù dal podio. “Naturalmente no”, dice lui. Ma dice anche un’altra cosa: “Il cancro è la cosa più bella che mi potesse capitare: ha fatto di me un uomo migliore, più riflessivo”. Col seme congelato ha tre figli dalla bionda Kristine, e prima di sposarla s’azzuffa a un party con un altro pretendente che aveva detto alla ragazza: ti conviene sposare me, che di palle ne ho due. Poi si lascerà in modo civile con la moglie, avrà una storia abbastanza lunga con la cantante Sheryl Crow. Anche questa storia finisce, sposa Anna Hansen e avrà altri due figli. Totale cinque. Mentre i Tour sono sette. I Tour sono sette uno in fila all’altro, dal ’99 al 2005, quand’era già chiacchieratissimo per le relazioni col dottor Ferrari e s’era comportato odiosamente con Filippo Simeoni, primo e unico ciclista italiano ad aver fatto nomi e cognomi di medici bombardieri. Simeoni entra in una fuga, in una tappa insignificante. Armstrong esce in tromba dal gruppo, da solo, e dice. Finché c’è lui in fuga, non vi lasceremo mai partire. Lui e Simeoni, che tira i freni e con Armstrong si fa riassorbire dal gruppo. Sette Tour non li aveva mai vinto nessuno dei sani, e cinque consecutivi solo Indurain. Anquetil, Merckx e Hinault, anche loro fermi a cinque. E Armstrong, come ha fatto? La risposta oggi è scontata, anche se tra il ’90 e il 2005, e forse oltre, non è stato certamente l’unico a fare ricorso alla farmacia del diavolo, come direbbe quel maestro di narrazioni ciclistiche che è Mario Fossati. La malattia aveva tolto molti chili a Lance e lo aveva trasformato in un corridore diverso. Prima non sopportava le salite, poi dava la paga a tutti. E a cronometro, pure. Le medie orarie s’impennavano, la sua frequenza di pedalate in salita e a cronometro erano sospette. D’altra parte (parole sue): “sì, ho preso epo quand’ero malato, poi basta. Ho visto la morte in faccia, volete che mi metta a truccare il mio sangue?”. A quanto pare sì. La bella storia diventa una brutta storia, ma anche le storie più brutte si possono raccontare.