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 2012  ottobre 12 Venerdì calendario

I DIRIGENTI DISTRATTI DEL NASCENTE NUOVO NORD

Per il direttore della Padania, Stefania Piazzo, la crisi al vertice delle istituzioni del Nord è un «furto di rappresentanza politica» ma forse la metafora più adeguata è quella del suicidio.
Se la classe dirigente amministrativa delle Regioni che rappresentano la parte più dinamica del Paese si dimostra inadeguata e corrotta, le colpe questa volta non possono essere scaricate su Francoforte o su Roma.
Il forzaleghismo, come è stato chiamato il combinato disposto tra il lungo ciclo politico di Silvio Berlusconi, l’insediamento del Carroccio nei territori e il governatorato di Roberto Formigoni, va in frantumi perché non riesce a selezionare i migliori, a costruire élite e deve ricorrere persino al voto di scambio con la criminalità organizzata per far eleggere i suoi homines novi. «Anche al Nord la politica pur di vincere è scesa troppo in basso e ne è rimasta contaminata» commenta l’economista Innocenzo Cipolletta. È chiaro che il forzaleghismo è stato al timone per un arco di tempo così lungo che ha visto maturare insieme all’egemonia politica del centrodestra anche profonde trasformazioni dell’economia.
Il Nord di oggi è sideralmente diverso dai tempi del mitico triangolo industriale. In più sia l’aristocrazia finanziaria simboleggiata da Enrico Cuccia sia i capitani d’industria tutti d’un pezzo al momento di cedere il passo non pensavano che di lì a poco ci sarebbe stata una forte discontinuità e comunque hanno disertato il territorio. Come ebbe a dire l’economista Giacomo Vaciago quando nei primi anni 2000 si era ventilata l’ipotesi di una sua candidatura, «non farei il sindaco di una metropoli la cui classe dirigente sparisce ogni week end». Un ricambio in un Paese ingessato come il nostro di per sé non avrebbe dovuto essere un evento negativo (anzi) ma è avvenuto in un momento estremamente delicato quando ci sarebbe voluta una visione che accompagnasse il processo di terziarizzazione. «È un po’ come adesso — sostiene Cipolletta —. Le aziende si stanno ristrutturando volontariamente senza un minimo di guida o di sponda. Lo stesso è accaduto allora e il risultato è che non conosco oggi un operatore privato che sia nato come spin off della domanda pubblica e che sia diventato internazionale». Con tutti i limiti che emergono oggi si è assistito a un capovolgimento del rapporto tra la città e il contado lombardo-veneto e la battaglia per la sostituzione delle vecchie élite è passata per l’accumulazione del consenso elettorale, non del capitale. «Diciamo che in un determinato momento la barriera d’ingresso per diventare classe dirigente si è abbassata. Non ci volevano né il blasone né grandi capitali. Mettendo su una cooperativa di servizi o gestendo le mense per le scuole ci si auto investiva di un ruolo da imprenditori e borghesi» commenta Franco Debenedetti.
Nella sua battuta, in fondo, c’è un po’ tutta la storia di Roberto Formigoni da Lecco e dell’efficientissima macchina politica rappresentata da Comunione e Liberazione. La leva da cui è partito tutto è quello che Giuseppe De Rita chiamerebbe «il terziario debole» ma il progetto era ambizioso. Un piccolo golpe. Rimodellare un capitalismo che stava cambiando e disegnare una nuova classe dirigente delle infrastrutture e dei servizi sanitari. Il consenso popolare e la capillarità di Cl sono state decisive per conquistare il controllo della Regione — o nella variante leghista — per condizionare la politica nazionale. Sono partiti così i grandi progetti della terziarizzazione settentrionale, dalla Malpensa alla Fiera di Rho fino al polo sanitario lombardo. Debenedetti mette in guardia dal fare di tutta l’erba un fascio, non tutti questi progetti hanno segnato il passo, a cominciare dalla sanità lombarda che comunque rappresenta un’esperienza di primordine. Ma si possono affidare progetti di quella caratura a una classe dirigente inesperta e per di più portata a non rispettare l’autonomia della sfera economica? Spiega il sociologo Paolo Feltrin: «Gli aeroporti e le grandi infrastrutture sono dei business contraddittori, sono mossi dalle esigenze della competizione globale ma sono gestiti localmente. Avrebbero bisogno di manager con profonda esperienza internazionale e invece di fatto a decidere sono assessori e sindaci di provincia. Non andrebbero lasciati soli davanti alle tentazioni. Perché alla fine tutti gli episodi di corruzione emersi nelle ultime settimane sono legati al ciclo dei lavori pubblici».
Se la Lombardia ha visto il suo processo di modernizzazione gestito da una nuova élite di estrazione politica, in Veneto era stato Giancarlo Galan a tentare un’operazione analoga. Il test è stato rappresentato dal Passante di Mestre ma nel cassetto dell’ex governatore e dei suoi uomini molti altri erano i progetti di grandi opere e grattacieli. Galan però è stato scalzato dalla Lega di Luca Zaia ferma a una visione più tradizionale del territorio dove agricoltura, kilometro zero, piccola impresa, salvaguardia dell’identità restano un tutt’uno. Sintomatico lo scetticismo leghista nei confronti della Tav che oggi va da Torino a Treviglio mentre in ottemperanza al mitico Corridoio 5 dovrebbe correre fino a Trieste. Gli industriali veneti si sono battuti fino all’ultimo ma la Lega non ci ha mai creduto. Se Galan voleva creare una borghesia del project financing, Zaia ha avuto in mente tutt’al più un establishment del Prosecco ridisegnando le zone di produzione.
Quando in tv e sui giornali si parla del forzaleghismo ci si concentra sulla figura del Cavaliere ma visti dal territorio due erano i progetti che gli hanno dato corpo in questi anni, il leghismo e Comunione e Liberazione. In ogni assemblea di artigiani varesotti il derby era assicurato, con le camicie verdi da una parte e l’assessore alle infrastrutture Raffaele Cattaneo dall’altra. L’antropologia leghista e ciellina presenta profonde differenze, i primi sono stati tutt’uno con il popolo del casannone (casa e capannone secondo la definizione del sociologo Aldo Bonomi) che chiede meno burocrazia e meno tasse e tutto sommato guarda con scetticismo alle infrastrutture, i secondi più propensi a puntare sui nuovi manager del terziario a leva pubblica. Entrambi hanno coltivato il collateralismo ma se la Compagnia delle Opere si è rivelato un progetto robusto, le varie associazioni padane non sono mai uscite dal cliché folkloristico.
La rappresentanza politica regionale del Nord, come sostiene Feltrin, alla fine si è trovata davanti a problemi più grandi della sua esperienza «e noi abbiamo sbagliato a pensare che non servissero più i controlli come i vecchi Coreco e a scaricare all’elettore la funzione di giudice popolare e sanzionatore». Il teorema del pago/vedo/voto non funziona, la prepotenza dei gruppi di pressione riesce a prevalere e la raccolta del consenso è a suo modo un business. Ma Milano con la sua forza di città globale non avrebbe dovuto progettare una sua terziarizzazione a maggiore alto valore aggiunto e per di più non affidata a élite improvvisate e anche voraci? Ad onor di cronaca va risposto che ci ha provato e Debenedetti ricorda stagioni nelle quale l’evento-clou cittadino era lo Smau, il salone di settembre dell’informatica e dell’innovazione. Era il tempo in cui Milano pensava di poter diventare una delle capitali europee della società dell’informazione mettendo a sistema la tradizione delle grandi casi editrici, la presenza sul suo territorio delle multinazionali dell’hardware e il mondo dell’alta consulenza d’impresa. Purtroppo così non è stato e ancora oggi, secondo una ricerca realizzata dalla Camera di Commercio e dall’associazione Globus et Locus, le imprese non hanno imparato a usare Internet per crescere e affermarsi nella competizione globale. Ancora oggi e nell’uso della Rete rispunta la troppa distanza tra città e contado.
Dario Di Vico