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 2012  ottobre 11 Giovedì calendario

AL QAEDA NEL MAGHREB LA MORTE CORRE SULLA SABBIA

Che cosa ha provocato un allargamento dell’instabilità e il pericolo di una escalation violenta dei movimenti alleati di Al Qaeda anche in Algeria e Marocco? Questi Paesi sinora sono sempre stati fuori da movimenti religiosi e intolleranze integraliste. C’è forse lo zampino di qualcuno che tenta di destabilizzare anche questa zona del Nordafrica?
Umberto Brusco
scobru49@gmail.com
Caro Brusco, non è vero che Algeria e Marocco abbiano vissuto, negli ultimi decenni, al riparo dalle minacce islamiste. In Algeria lo scontro fra lo Stato laico e l’integralismo musulmano scoppiò agli inizi del 1992, quando i militari annullarono il secondo turno delle elezioni per impedire al Fis (Fronte islamico della salvezza) la conquista del governo. Il colpo di Stato provocò uno scontro armato con l’ala militante dell’islamismo radicale (Gruppo islamico armato, Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento) che si protrasse sino alla fine degli anni Novanta lasciando nel Paese una lunga scia di sanguinosi attentati terroristici e dure repressioni militari.
L’esercito e i movimenti laici vinsero la partita, ma non poterono impedire che il Gruppo salafita, negli anni seguenti, generasse una nuova organizzazione, Al Qaeda nel Maghreb, destinata a diventare la principale milizia combattente della regione. Una delle prime e più sanguinose manifestazioni di questo gruppo fu una catena di attentati suicidi a Casablanca, in Marocco, il 16 maggio 2003, poche settimane dopo l’invasione americana dell’Iraq. Quel giorno l’azione di Al Qaeda nel Maghreb provocò la morte di 45 persone (12 terroristi e 33 civili) ed è proseguita da allora con altri sporadici attentati.
Algeria e Marocco sono riusciti a controllare il fenomeno e a combatterlo efficacemente sul proprio territorio. Ma non hanno potuto impedire che Al Qaeda approfittasse di tutte le crisi regionali — Somalia, Yemen, Darfur — per estendere la propria influenza nel Sahara e nel Sahel. Più recentemente la guerra civile, scoppiata nel Mali dopo il colpo di Stato del 21 marzo, ha offerto agli islamisti un’altra occasione. L’obiettivo, questa volta, è la creazione di uno Stato strettamente ortodosso nelle regioni settentrionali del Paese, oggi occupate da 6.000 militanti islamici che appartengono a quattro diverse organizzazioni. Una delle prime vittime di questa strategia è stata paradossalmente Timbuctu, la città dove sorgono alcuni fra i più interessanti esempi di un’antica architettura musulmana del deserto. Città di mercanti e tappa obbligata delle carovane che attraversavano la regione, Timbuctu è sempre stata centro di studi e di incontri, il luogo dove l’Islam poteva essere accogliente e tollerante. Contro questo modello di tolleranza si sono scagliate nello scorso luglio le milizie di Ansar Dine (contro l’Occidente), alleate di Al Qaeda nel Maghreb, distruggendo tre fra i principali edifici religiosi della città.
Dietro questa nuova aggressività islamista si intravedono gli avvenimenti libici degli scorsi mesi. Dopo il conflitto fra il regime di Gheddafi e i suoi oppositori, la Libia è letteralmente piena di armi che attraversano facilmente le frontiere meridionali del Paese. È permesso chiedersi d’altro canto se in una regione desertica le frontiere possano davvero considerarsi tali. Algeria e Marocco sanno che il pericolo, nel Maghreb, corre sulla sabbia.
Sergio Romano