Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 11 Giovedì calendario

AVORIO SACRO

In Camerun, nel gennaio del 2012, un centinaio di uomini a cavallo provenienti dal Ciad ha fatto irruzione nel parco nazionale di Bouba Ndjida e ha ucciso centinaia di elefanti.
È stata una delle stragi più efferate da quando, nel 1989, è entrato in vigore il trattato internazionale che vieta il commercio dell’avorio. Armati di kalashnikov e lanciarazzi, i bracconieri hanno sterminato intere famiglie di elefanti con precisione militare. Poi alcuni di loro si sono fermati per la preghiera ad Allah. Vista dal basso, ogni carcassa di elefante è un monumento all’avidità umana. I dati sulla caccia di frodo e sui sequestri di avorio indicano che negli ultimi anni la situazione è molto peggiorata. Anche a osservarli dall’alto, quei corpi sparsi qua e là compongono una scena insensata nella sua crudeltà: si capisce che alcuni animali stavano fuggendo, che le madri hanno tentato di proteggere i loro piccoli e che in un punto è stato abbattuto un branco di 50 animali. Sono gli ultimi, in ordine di tempo, delle decine di migliaia di elefanti uccisi ogni anno in tutta l’Africa.


FILIPPINE CONNECTION
In una chiesa sovraffollata, monsignor Cristobal Garcia, uno dei più noti collezionisti d’avorio delle Filippine, celebra un insolito rito in onore della più importante icona religiosa del paese, il Santo Nino de Cebu (Santo Bambino di Cebu). La cerimonia, che si tiene a Cebu ogni anno, viene chiamata Hubo, da un termine della lingua locale che significa “spogliare”. Alcuni chierichetti, infatti, svestono una piccola statua di legno che raffigura il Bambino Gesù in abiti regali, riproduzione di quella che secondo i fedeli fu portata nell’isola da Ferdinando Magellano nel 1521.I ragazzi tolgono la piccola corona, il manto rosso e le scarpino, poi rimuovono la biancheria strato dopo strato. A quel punto il monsignore prende la statua, coperta da un drappo bianco, e la immerge in diversi barili d’acqua, ottenendo l’acqua santa che nel corso dell’anno sarà venduta fuori dalla chiesa.
Monsignor Garcia è conosciuto anche al di fuori dell’isola di Cebu. Negli anni Ottanta era assegnato alla parrocchia di St. Dominic, a Los Angeles; stando a un articolo pubblicato nel 2005 dal Dallas Morning News, e alla causa legale che ne è scaturita, fu mandato via per abusi sessuali ai danni di un chierichetto appena adolescente. Tornato nelle Filippine, fu promosso a monsignore e nominato presidente della Commissione per il culto dell’Arcidiocesi di Cebu, la più grande (quattro milioni di fedeli) in un paese che è il terzo al mondo per popolazione cattolica (75 milioni). Nel 1990 portò la statua del Santo Nino in visita a Castel Gandolfo, dove il papa la benedisse. A Cebu Garcia è talmente conosciuto che per trovare la sua chiesa mi basta abbassare il finestrino dell’auto e chiedere: «Monsignor Cris?».
Oggi conservata in una teca di vetro antiproiettile nella basilica minore del Santo Nino, la statuetta lignea fu proclamata miracolosa dagli spagnoli nel Cinquecento, e usata per convenire la nazione appena conquistata. È la radice da cui si è sviluppato l’intero cattolicesimo filippino. All’inizio di quest’anno un sacerdote locale sarebbe stato costretto alle dimissioni per aver invitato i fedeli a considerare il Santo Nino e le altre immagini della Madonna e dei santi solo come statue fatte di legno o altro materiale.
«Chi non è devoto al Santo Nino non è un vero filippino», afferma padre Vicente Lina Jr., che tutti chiamano padre Jay, direttore del Museo diocesano di Malolos. «Tutti i filippini hanno un’immagine del Santo Nino, persino quelli che vivono sotto i ponti». Ogni anno a gennaio circa due milioni di fedeli si radunano a Cebu e camminano per ore dietro la processione del Santo Nino. La maggior parte tiene in mano una riproduzione in miniatura della statua, fatta di legno o di fibra di vetro. Ma molti filippini credono che le grazie ricevute siano direttamente proporzionali alla somma che si spende in segno di devozione. Così, legno e fibra di vetro non bastano: d vuole l’avorio.
Durante la Messa mi faccio largo tra la folla fino a Garcia, e invece di restare in piedi mi inginocchio davanti a lui per ricevere la Comunione.
«Il corpo di Cristo», recita il monsignore.
«Amen», rispondo, e apro la bocca.
Dopo la funzione spiego a Garcia che lavoro per National Geographic e fissiamo un appuntamento per parlare del Santo Nino. La sua anticamera è una specie di piccolo museo dominato da grandi teche di vetro che contengono sculture sacre dalla testa e le mani d’avorio. Anche nel suo ufficio c’è un crocefisso con il Cristo in avorio. Sono i due tipi di santos diffusi nelle Filippine: quelli interamente intagliati nell’avorio e quelli, spesso a grandezza naturale, in cui sono d’avorio solo mani e testa, mentre il corpo è di legno e di solito ornato da mantelli e abiti sontuosi. Garcia è a capo di un gruppo di importanti collezionisti che raccoglie immagini del Santo Nino e, durante la festa annuale, le espone nei migliori centri commerciali e alberghi di Cebu.
Dico al monsignore che vorrei acquistare un Santo Nino dormiente. «Così», aggiungo toccandomi il labbro inferiore con un dito, una posizione caratteristica di alcune statue del Bambino. «Un Dormido», annuisce lui. In realtà ho chiesto questo incontro per avere notizie sul traffico d’avorio nel paese, e magari scoprire qualche indizio su chi avesse ordinato le enormi quantità del materiale sequestrate negli ultimi anni: 5,4 tonnellate nel 2009,7,7 nel 2005,6 nel 2006. Calcolando una media di dieci chili di avorio per elefante, si trattava della quantità prodotta da circa 1.745 animali. Secondo gli organismi che si occupano dell’applicazione della CITES, la Convenzione sul commercio internazionale delle specie in pericolo, le Filippine non sarebbero che un punto di transito per l’avorio diretto in Cina. Ma la CITES ha risorse limitate: secondo una dichiarazione di Jose Yuchongo, capo della polizia doganale filippina, riportata da un giornale nel 2009, “le Filippine sono una meta importante del traffico illegale di zanne d’elefante, forse perché tra i cattolici del nostro paese è molto diffuso il culto delle immagini sacre d’avorio”. Sull’isola di Cebu il legame tra avorio e religione è così stretto che la parola garing, “avorio”, significa anche “statua sacra”.
LA RETE CATTOLICO-MUSULMANA
«Avorio, avorio, avorio», dice la commessa della Galleria Savelli, un negozio affacciato su piazza San Pietro a Roma, indicando alcuni oggetti sacri in vendita. «Non se ne aspettava tanti, lo vedo dalla sua faccia». Il Vaticano ha di recente dimostrato di volersi impegnare nella lotta contro l’illegalità internazionale sottoscrivendo accordi sul traffico di droga, il terrorismo e la criminalità organizzata. Ma non ha mai firmato la CITES, e dunque non è tenuto a rispettare il bando al commercio dell’avorio. Se compro un crocifisso d’avorio, mi spiega la commessa, il negozio si incaricherà di farlo benedire da un sacerdote e di spedirmelo a casa.
Benché il mondo abbia trovato il modo di sostituirlo in tutti i suoi usi pratici palle da biliardo, tasti del pianoforte, manici delle spazzole l’avorio resta un componente essenziale degli oggetti sacri, e ha una forte valenza simbolica anche in politica. L’anno scorso il presidente del Libano Michel Suleiman ha regalato a papa Benedetto XVI un turibolo d’oro e d’avorio. Nel 2007 la presidente delle Filippine Gloria Macapagal Arroyo gli aveva donato un Santo Nino d’avorio. A Natale del 1987 il presidente Ronald Reagan e sua moglie Nancy acquistarono la Madonna d’avorio che avevano ricevuto come dono di Stato da Giovanni Paolo II. Tutti questi regali hanno fatto notizia sui media internazionali. Persino Daniel arap Moi, il presidente del Kenya considerato il padre dell’accordo sul divieto del commercio di avorio, una volta regalò a Papa Giovanni Paolo II una zanna di elefante, anche se in seguito compì uno degli atti più importanti dal punto di vista simbolico nella storia della conservazione ambientale: diede fuoco pubblicamente a 12 tonnellate di avorio keniano.
Padre Jay è il curatore della mostra del Santo Nino organizzata ogni anno dalla sua arcidiocesi. Duecento tra i pezzi migliori tratti dalle collezioni dei fedeli sono esposti in un edificio di due piani nei dintorni di Manila. Guardando quei pallidi corpicini vestiti come piccoli sovrani, circondati da mazzi di fiori freschi e avvolti da una soave Ave Maria che suona in sottofondo, non so fare a meno di pensare a un funerale. I santi Bambini d’avorio sono impreziositi da corone dorate, gioielli e collane di cristallo Swarovsky. Gli occhi sono di vetro dipinto a mano, importato dalla Germania. Le ciglia sono fatte di peli di capra. I mantelli sono intessuti con fili d’oro vero, provenienti dall’India.
Queste opere così riccamente decorate spesso appartengono a famiglie dalle risorse sorprendentemente modeste. Ci sono fedeli che intestano conti bancari alle loro statue o che le nominano nel testamento. «Non la definirei una stravaganza», sostiene padre Jay. «La vedo piuttosto come un’offerta a Dio. La devozione al Santo Nino non è mai troppa. Io stesso, da sacerdote, ho pregato Dio: “Padre, se tutto questo è stupido, allora fallo finire”».
Padre Jay indica un Santo Nino che tiene in mano una colomba. «La maggior parte delle statue d’avorio antiche sono cimeli di famiglia», spiega. «Quelle nuove sono realizzate con materiale africano, entrato nel paese di nascosto»: in altre parole, contrabbandato. «È come raddrizzare una linea storta: si compra l’avorio di provenienza incerta e lo si trasforma in un oggetto religioso. Capisce?», aggiunge con una risatina. Poi abassa la voce e sussurra: «È come comprare un oggetto rubato».
Secondo padre Jav, bisogna acquistare statue di avorio nuovo per evitare le truffe di chi usa il tè o addirittura la Coca Cola per farlo sembrare antico. «Consiglio sempre di comprare statue nuove, così la storia di un’immagine comincia da tè». Quando gli chiedo in che modo l’avorio nuovo arriva nelle Filippine, mi risponde che a contrabbandarlo sono i musulmani dell’isola meridionale di Mindanao. Poi mi mette due dita nel taschino della camicia, a simboleggiare una tangente. «Per i guardacoste, per esempio», spiega. «Dall’Africa all’Europa e poi fino alle Filippine, pensi quanto è lungo il viaggio via mare». Rimette le dita nella mia tasca. «Continui a pagare per far arrivare la merce nel tuo paese».
Fa tutto parte del sacrificio al Santo Nino: il contrabbando come atto di devozione.
COME CONTRABBANDARE L’AVORIO
Non pensavo certo di poter collegare monsignor Garcia a una qualche attività illecita, ma quando gli dico che voglio comprare un Santo Nino d’avorio la sua risposta mi coglie di sorpresa. «Dovrà farlo entrare di nascosto negli Stati Uniti».
«Come?», chiedo io.
«Lo avvolga in un paio di vecchie mutande sporche e ci versi su anche del ketchup. Sembreranno macchiate di merda e di sangue. Si fa così».
Garcia mi da i nomi dei suoi artigiani preferiti, tutti di Manila, spiegandomi in dettaglio chi può gestire grosse ordinazioni, chi ha la moglie che carica sul prezzo, chi non è puntuale nella consegna. Mi fornisce indirizzi e numeri di telefono. Se volessi una statua troppo grande per nasconderla in valigia, potrei ottenere un certificato dal Museo nazionale delle Filippine che ne attesta l’antichità, o trovare un artigiano disposto a dichiarare che si tratta di un’imitazione, o ancora contraffare la data in modo che risulti precedente alla messa al bando dell’avorio. Qualsiasi cosa io scelga di fare, Garcia mi promette che benedirà la statua. «Non sono mica uno di quei preti fissati con gli animali che si rifiutano di benedire l’avorio», conclude.
A Manila la lavorazione dell’avorio è in mano a un pugno di famiglie che si aggirano come termiti tra massicce quantità di zanne d’elefante. Nei miei cinque viaggi nelle Filippine visito tutte le botteghe raccomandate da Garcia, e altre ancora, chiedendo a tutti come fare a comprare avorio. Più di una volta mi domandano se sono un prete. Quasi tutti
gli artigiani suggeriscono metodi per contrabbandare l’avorio negli USA: uno propone di ricoprirlo con una vernice lavabile marrone, così da farlo sembrare legno; un altro si offre di fabbricare tante statuine identiche di resina dipinte a mano, tra cui nascondere il mio Bambino d’avorio. Nel caso mi scoprissero, alla dogana americana dovrò dichiarare che è tutta resina. Una volta una commerciante mi dice che monsignor Garcia l’ha appena chiamata.
Poiché gli avevo detto che la mia famiglia gestisce un’agenzia di pompe funebri, lui mi suggeriva di comprare il Santo Nino di nove chili che le era arrivato e nasconderlo nel fondo di una bara. Dico alla commerciante che probabilmente il monsignore scherzava, ma lei pensa di no.
Secondo il più importante mercante d’avorio di Manila, i principali clienti sono i preti, i balikbayans (filippini che vivono all’estero) e i gay filippini. A compiere viaggi regolari per rastrellare crocifissi, Madonne e Gesù Bambini d’avorio da portare in patria nascosti in valigia sono, per esempio, un antiquario di New York e un mercante di Città del Messico. Spesso mi viene ricordato che ovunque ci sia un filippino c’è un altare.
E sembra proprio che padre Jay abbia ragione quando parla di una rete musulmana del contrabbando. Diversi commercianti di Manila mi dicono che i loro principali fornitori sono filippini musulmani che hanno legami con l’Africa, o musulmani malesi. «A volte l’avorio arriva ancora ricoperto di sangue, e puzza», racconta una Commerciante turandosi il naso con le dita.
Il moderno traffico d’avorio segue rotte antiche, rese più veloci da aerei, telefoni cellulari e Internet. Adesso inquadro meglio certe foto in cui si vedono croci copte e rosari islamici entrambi fatti d’avorio in vendita fianco a fianco sui banconi di un mercato del Cairo. E mi appaiono in una luce particolarmente sinistra le notizie recenti sui grossi sequestri eseguiti a Zanzibar, l’isola al largo della Tanzania, abitata da musulmani, che per secoli fu uno dei centri del traffico di schiavi e d’avorio. Sembra proprio che in nome dell’avorio si continueranno a commettere delitti su vasta scala. Almeno una delle spedizioni bloccate a Zanzibar era diretta in Malesia, dove Fanno scorso sono state confiscate diverse tonnellate.
Il mercato dell’avorio delle Filippine è piccolo se paragonato, per esempio, a quello cinese; ma è antico, e tutt’altro che clandestino. Collezionisti e commercianti postano le foto dei loro oggetti su Facebook e Flickr. Vigilando sul divieto del commercio d’avorio, la CITES è l’unica organizzazione internazionale che possa scongiurare l’estinzione della specie, evitando che si ripetano stragi come quelle degli anni Ottanta, quando si calcola che l’Africa abbia perso metà dei suoi elefanti, oltre 600 mila in soli dieci anni. Ma se la CITES ha trascurato il mercato filippino, non le sarà sfuggito anche qualcos’altro?
IL MONACO ELEFANTE
Gli intagliatori di avorio di Phayuha Khiri e Surin sono i più famosi della Thailandia, e i più bersagliati dalle inchieste sul traffico illegale. A Phayuha Khiri l’avorio è così importante che al centro della città, anziché una fontana, ci sono quattro imponenti zanne bianche disposte in cerchio. Tutti i negozi sulla strada principale sono rivendite all’ingrosso di articoli religiosi buddhisti: immagini a grandezza naturale di monaci famosi, immaginette di Buddha avvolte nella plastica, bustoni di bracciali e altri oggetti. Gli unici che vedo fare acquisti sono gruppetti di monaci buddhisti.
Rintraccio il principale mercante d’avorio della cittadina, il signor Thi, che indossa una collana d’avorio con un amuleto e una cintura con la fibbia d’avorio. Visito i suoi negozi, i laboratori dei suoi artigiani, la sua casa grande e pretenziosa. Lui mi spiega che a fondare l’industria della lavorazione dell’avorio a Phayuha Khiri fu proprio un monaco. Vengo a sapere che i monaci regalano gli amuleti in cambio delle offerte: più è sostanziosa l’offerta, più prezioso è l’amuleto.
A Surin incontro Kruba Dharmamuni, detto il Monaco Elefante, che vuole accompagnarmi a comprare avorio. Tanto tempo fa Surin era la patria dei cacciatori di elefanti del re del Siam; oggi però i guardiani di elefanti, i mahout, per vivere devono contare su un sussidio statale e sull’abilità dei loro animali di intrattenere i turisti dando calci a un pallone o dipingendo un “autoritratto” al cavalletto. L’entrata del parco turistico di Surin è affollata di venditori di anelli, braccialetti e amuleti d’avorio.
«L’avorio allontana gli spiriti maligni», proclama il Monaco Elefante. Lui indossa un rosario con grani d’avorio, che rappresentano le 108 passioni umane, a cui è appeso un pendaglio anch’esso d’avorio a forma di testa d’elefante.
Venerato dai buddhisti, l’elefante è uno dei simboli della Thailandia. Secondo una leggenda, la regina Maya fu trafitta da un elefante bianco con sei zanne la notte in cui concepì Siddharta Gautama, il futuro Buddha. Il Monaco Elefante sostiene di essere stato un elefante in una vita passata e di avere 100 mila seguaci in tutto il mondo, anche se quando visito il suo tempio se ne presentano pochi, che gli si inginocchiano davanti porgendogli offerte e ricevendo in cambio un amuleto benedetto.
Molti thailandesi portano amuleti, a volte anche decine, per attirare la buona sorte e proteggersi dal male e dalla magia nera. Il mercato degli amuleti di Bangkok è enorme, con un’infinità di ambulanti che vendono decine di migliaia di piccoli talismani di metallo, polveri compresse, osso e, naturalmente, avorio. Gli amuleti più pregiati possono costare anche più di 80 mila euro. Ci sono riviste, fiere, libri e siti web espressamente dedicati ai collezionisti di amuleti. L’ex primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra, oggi in esilio, pensa che un amuleto buddhista abbia sventato vari tentativi di assassinarlo, e l’esercito thailandese ha distribuito talismani ai soldati di stanza al coniine per proteggerli dalla magia nera dei cambogiani.
Gli amuleti sono la principale fonte di reddito del Monaco Elefante, e lui ne vende un bizzarro assortimento: immagini di se stesso e del Buddha, frammenti del cranio di donne incinte morte, olio puro di cadavere, terriccio di sette cimiteri, peli di tigre, pelle d’elefante e, infine, avo rio intagliato. Gli affari gli vanno bene, tanto che sta costruendo un nuovo tempio. Di recente una rete televisiva lo ha accusato di aver fatto morire di fame un elefante per usarne la pelle e le zanne, ma lui ribatte che l’animale è morto di cause naturali. Per di più, mi spiega, le pelli e l’avorio di cui ha bisogno può comprarli facilmente a Surin. Prima dello scandalo, il negozio di regali, le vendite su Internet e i viaggi all’estero gli fruttavano tino a un milione di baht al mese (oltre 25 mila euro). Adesso ne mette insieme solo 300 mila ma, prosegue, gli basterebbero tre giorni in Malaysia o a Singapore per guadagnarne un milione o più vendendo amuleti ai suoi seguaci.
La Thailandia ha una piccola popolazione autoctona di elefanti asiatici, una specie in pericolo il cui commercio internazionale è vietato da tempo. All’interno del paese, tuttavia, le leggi sono meno rigide: si possono vendere le punte delle zanne di animali vivi addomesticati e zanne intere di quelli morti per cause naturali. Da anni i trafficanti internazionali sfruttano questa situazione, contrabbandando avorio africano da mescolare con quello asiatico. Gli ambientalisti parlano di “scappatoia thailandese”, ma ne esiste una molto più semplice cui si può ricorrere ovunque. L’avorio africano introdotto in un paese prima del 1989 può essere comprato e venduto entro i confini nazionali. Così chiunque sia sorpreso a commerciare avorio può intonare un ritornello ormai consueto; «Risale a prima del divieto». Poiché non esistono inventari delle riserve d’avorio mondiali, e visto che l’avorio dura più o meno in eterno, la scusa può restare valida per sempre.
Il mercato dell’avorio in Thailandia è in evoluzione. «I trafficanti stanno facendo scorte», spiega Steve Galster, direttore della Freeland Foundation, un’organizzazione non governativa con sede a Bangkok. «In passato la CITES ha più volte allentato i divieti, quindi per loro è un rischio calcolato». In Thailandia, come nelle Filippine, i trafficanti hanno poi un’altra freccia al loro arco: la corruzione. Di recente una tonnellata di avorio africano sequestrata è sparita da un deposito della dogana thailandese, molto probabilmente trafugata dagli agenti. Nelle Filippine il ministero per la protezione della fauna ha dovuto tare causa ad alcuni alti funzionari della dogana che avevano “smarrito” diverse tonnellate di avorio sequestrato.
In occasione del sequestro successivo, l’ufficio delle dogane ha consegnato il materiale direttamente al ministero, che però ha presto scoperto che anche il suo deposito era stato saccheggiato: montagne di zanne d’elefante erano state sostituite con copie di plastica.
Jom, l’intagliatore preferito del Monaco Elefante, vive in una strada sterrata fuori mano. Davanti casa ha una serie di teche di vetro piene di statuine d’avorio del Buddha. Quasi tutto l’avorio è thailandese. «Questo è africano», precisa il Monaco Elefante indicando un pezzo particolarmente bianco.
«Se riesco a farle avere dell’avorio africano», chiedo a Jom, «potrebbe lavorarlo per me?».
«Dai», mi risponde.
«Nessun problema», gli fa eco la moglie.
Subito il monaco comincia a parlare di contrabbando. Mi raccomanda di tagliare l’avorio in pezzi abbastanza piccoli da poter entrare in valigia: i suoi seguaci fanno così. All’arrivo all’aeroporto di Bangkok troverò un suo assistente che mi accompagnerà da lui. Il monaco ha seguaci anche all’ufficio immigrazione, ma se qualcosa dovesse andare storto potrò dire che sto portando l’avorio al suo tempio. A quanto pare l’avorio commerciato a fini religiosi non è oggetto del controllo aggressivo che verrebbe riservato, per esempio, ai pezzi di una scacchiera. Per l’avorio di Dio c’è una scappatoia a parte.
LE FABBRICHE D’AVORIO CINESI
Odori e rumori della Beijing Ivory Carving Factory somigliano a quelli percepibili in uno studio da dentista; cosa che in fondo questa fabbrica è. Nell’aria si sente il ronzio dei trapani elettrici che lavorano le zanne; la polvere d’avorio ricopre porte e finestre e mi si posa persino sui denti mentre mi faccio strada tra uomini e donne chini sulle riproduzioni dei soggetti religiosi e mitologici che si vedono in tutta la Cina: Fu, Lu e Shou, gli dei della fortuna, del denaro e della longevità; il Buddha sorridente; e Guanyin, la dea buddhista della pietà e della fertilità, molto venerata nella Cina della politica del figlio unico perché “porta figli maschi”. Dovunque trovi l’avorio, c’è sempre di mezzo la religione. «I cinesi credono nei concetti simboleggiati da queste figure», mi spiega il direttore della Daxin Ivory Carving Factory, un’altra fabbrica che ha sede a Canton.
Quando è entrato in vigore il bando internazionale, l’80 per cento dell’avorio lavorato nel mondo era consumato da americani, europei e giapponesi. Oggi, al centro di Pechino, tra le concessionarie della Ferrari e le boutique di Gucci e Prada c’è il Beijing Arts and Crafts Emporium, un centro commerciale di oggetti pregiati che ha all’interno persino un bancomat da cui si possono prelevare lingotti d’oro a 24 carati. AI primo piano, la vetrina del principale negozio di oggetti d’avorio scintilla come quella di Tiffany imbiancata dalla neve. Tra gli articoli in vendita spicca una statua di Guanyin, con tanti zeri sull’etichetta del prezzo che devo chiedere aiuto per raccapezzarmi: 1.360.000,00 yuan (circa 175 mila euro).
Quando si parla di traffico illegale di avorio, la Cina finisce sempre in testa alla lista dei cattivi. Negli ultimi anni è stata implicata in un numero di sequestri maggiore di qualsiasi altro paese non africano. Per la prima volta da diverse generazioni molti cinesi possono immaginare per sé un futuro di benessere, e possono anche permettersi di riappropriarsi delle tradizioni del loro glorioso passato, in primo luogo la religione.
«Non pensiamo tutti soltanto ai soldi», dice Xue Ping mentre beviamo un tè nella sua galleria d’arte buddhista, all’interno del Grand Hotel di Pechino. Xue è un pubblicitario, ma nel 2007, mentre partecipava a un pellegrinaggio dal Nepal all’India sulle orme della vita del Buddha, ha avuto una visione: il Buddha in persona lo sfidava a fare del bene. Due anni dopo ha fondato un’azienda che ha chiamato Da Cheng Bai Yi (“trasmettere il grande patrimonio”) per sovvenzionare i grandi maestri delle arti tradizionali cinesi: lacche, porcellana, thangka (rotoli dipinti) e lavorazione dell’avorio. Xue ha scovato Li Chunke, 62 anni, uno dei 12 maestri intagliatori rimasti in tutta la Cina; gli ha procurato un atelier nel quartiere degli artisti di Pechino, gli ha affittato un appartamento e ha aperto questa splendida galleria. Nessuna delle opere esposte è in vendita: Xue è l’unico cliente di Li.
«L’elefante è un buon amico dell’uomo», sostiene Li. «Quando muore vuole lasciargli qualcosa: è una buona azione affinchè la sua prossima vita sia migliore». Li intaglia l’avorio per onorare il dono dell’elefante. In quanto buddhisti. Li e Xue aborriscono l’uccisione degli animali: spiegano che l’avorio viene loro fornito dal governo, e dunque si suppone provenga da elefanti morti per cause naturali.
«L’avorio è molto prezioso», mi spiega Xue. «Per onorare il Buddha bisogna usare materiali preziosi: se non l’avorio almeno l’oro. L’avorio però vale di più». È un’altra versione del messaggio che ho sentito dai cattolici filippini: l’avorio onora Dio.
Gli articoli religiosi sono parte sostanziale del campionario di tutti i negozi e le fabbriche cinesi che ho visitato. A comprare gli oggetti più preziosi sono spesso ufficiali delle Forze Armate in Cina sono sorprendentemente ben pagati che li regalano ai loro superiori, o imprese che li offrono in dono a uomini d’affari o a funzionari statali, per ingraziarseli.
In un centro commerciale di Canton, Gary Zeng, 42 anni, mi mostra sul suo iPhone la foto di una “palla del diavolo”, una sfera d’avorio intagliato a 26 strati concentrici. Ne ha comprate due alla Daxin Ivory Carving Factory, la meno costosa per sé e l’altra per conto di un amico imprenditore. È venuto in questo negozio al dettaglio per capire se ha speso bene il suo denaro. Con la sua Mercedes nuova andiamo a casa sua, in un esclusivo complesso residenziale, e lì Zeng porge la sfera meno cara al suo bambino di tre anni a beneficio dell’obiettivo di Brent Stirton, il fotografo di National Geographic. Per un attimo quella palla da oltre 40 mila euro, che serve a «proteggere la casa dai diavoli», diventa un prezioso giocattolo per bambini. Chiedo a Zeng perché i giovani imprenditori come lui acquistano oggetti d’avorio.
«Sono un investimento», risponde. «E sono opere d’arte». «Non pensa agli elefanti?», insisto. «Per niente». A Canton, all’angolo di una delle strade più famose di tutta la Cina per la vendita di oggetti d’avorio (legali e no), un tabellone elettronico alto come un palazzo di quattro piani annuncia ai passanti una nuova, promettente torma d’investimento: il fatturato annuo della vendita di gioielli buddhisti e altri articoli religiosi ha raggiunto i 12,8 miliardi di euro e cresce del 50 per cento all’anno. “In Cina ci sono quasi 200 milioni di buddhisti”, precisa l’annuncio.
Tutto fa pensare che in Cina l’industria dell’avorio sia destinata a crescere. Il governo ha autorizzato l‘apertura di almeno 35 fabbriche e 130 rivendite d’avorio, e finanzia corsi universitari per intagliatori, per esempio alla Beijing Universityof Technology. E i maestri come Li continuano a tramandare il mestiere ai figli: investono nel sangue del loro sangue.
L’ESPERIMENTO GIAPPONESE
Nel 1989, al termine di un decennio in cui gli elefanti morivano al ritmo di almeno uno ogni dieci minuti, il presidente George H.W. Bush vietò unilateralmente l’importazione dell’avorio, il Kenya bruciò le sue 12 tonnellate di scorte e la CITES proclamò il suo bando internazionale, entrato in vigore Fanno dopo. Non tutti i paesi lo sottoscrissero. Zimbabwe, Botswana, Namibia, Zambia e Malawi avanzarono “riserve” per esserne esentati, poiché a loro dire le loro popolazioni di elefanti, in ottima salute, non sarebbero state minacciate dal commercio dell’avorio.
Nel 1997 l’assemblea generale della CITES si tenne ad Harare, nello Zimbabwe, e fu li che il presidente Robert Mugabe dichiarò che gli elefanti occupano troppo spazio e bevono troppa acqua, e che quindi dovevano pagare vitto e alloggio in avorio. Zimbabwe, Botswana e Namibia avanzarono una proposta: avrebbero rispettato il divieto in cambio dell’autorizzazione a vendere l’avorio prelevato da animali abbattuti per ridurre i branchi o morti per cause naturali.
Si giunse a un compromesso: la CITES autorizzò i tre paesi a effettuare una “vendita sperimentale”, una tannini, a un unico acquirente, il Giappone, che nel 1999 comprò 50 tonnellate d’avorio al prezzo di 5 milioni di dollari. Poco dopo i giapponesi ne chiesero di più, e presto anche la Cina avanzò la sua richiesta di avorio legale. Prima di rinnovare l’autorizzazione, la CITES pretese di conoscere i risultati dell’esperimento giapponese: la vendita aveva causato un incremento dei reati collegati? In particolare, la caccia di frodo e il contrabbando erano aumentati? Per scoprirlo, l’organizzazione varò un programma per accertare il numero degli elefanti uccisi illegalmente e un altro per misurare il volume del traffico d’avorio.
Uccidere un elefante è facile (i bracconieri di Kenya e Tanzania hanno cominciato a usare le angurie avvelenate), ma è difficile localizzarne i resti: per avviare il censimento voluto dalla CITES sono occorsi anni, tanto che l’organizzazione si rifiuta di comunicare una stima ufficiale delle uccisioni, per paura che l’opinione pubblica interpreti “come verità assoluta” quelle che sono cifre ancora incomplete. Nonostante tutte queste cautele, Kenneth Bumham, capo dell’équipe statistica che si occupa del censimento, sostiene che è «altamente probabile» che nel 2011 i bracconieri abbiano ucciso almeno 25 mila elefanti africani. Ma la cifra effettiva potrebbe essere persino doppia.
L’anno scorso sono state sequestrate circa 31,5 tonnellate di avorio in tutto il mondo. Visto che le zanne di un elefante pesano intorno ai dieci chili, e che, secondo un calcolo approssimativo dell’Interpol, viene sequestrato solo il 10 per cento di tutte le merci contrabbandate, si può calcolare che ogni anno venga commerciato illegalmente l’avorio tratto da circa 31.500 animali morti. «In ogni caso», riassume lain Douglas-Hamilton di Save the Elephants, «il numero degli elefanti uccisi l’anno scorso è nell’ordine delle decine di migliaia, ed è destinato ad aumentare».
Quantificare il volume del traffico illegale non è comunque semplice. Ci si può basare sulla merce confiscata, ma è un criterio ingannevole: un aumento dei sequestri può significare sia che il contrabbando è aumentato sia che la repressione è più efficace, o magari entrambe le cose. Ugualmente, una diminuzione dei sequestri potrebbe essere un segnale positivo, ma anche un sintomo di corruzione. I trafficanti più potenti hanno agganci nei corpi forestali, negli uffici doganali e nelle aziende di trasporti che permettono loro di spostare da un paese all’altro carichi di varie tonnellate. Soprattutto, un sistema basato sui sequestri premia i paesi che confiscano l’avorio, mentre sarebbe più utile seguire il percorso della mercé per risalire ai grossi trafficanti. E infatti per i buoni investigatori i sequestri sono un modo sbagliato di combattere il crimine.
Per monitorare i sequestri d’avorio la CITES si è affidata a Trame, una ONG che si occupa del traffico di animali selvatici. Ma Trame è una sussidiaria del WWF e dell’IucN, due organizzazioni che, come altre, hanno uffici e progetti di ricerca nei paesi coinvolti nel traffico d’avorio: la sua capacità di emettere giudizi indipendenti potrebbe risultarne pregiudicata. Tra l’altro, come sede del suo programma ETIS (Elephant Trade Information System) Trame ha scelto lo Zimbabwe, il paese africano più a favore del commercio dell’avorio. Sin dall’inizio Traffic sostiene di aver raccolto, nel database di ETIS, i dati su tutti i sequestri avvenuti dopo la messa al bando del 1989; ma in realtà solo nel 1998 è stato chiesto ai paesi firmatari di fornire notizia di tutte le confische. Per un decennio, quindi, ETIS ha potuto contare solo su dati molto limitati, ottenuti da monitoraggi occasionali. Anche in seguito, molti governi non si sono certo sforzati di fornire informazioni, per cui, quando è arrivato il momento di valutare l’esperimento giapponese, il database di Trame era pieno di casi di sequestro registrati in Africa e nell’Unione Europea (oltre il 60 per cento) e carente sulla regione più coinvolta nel traffico, l’Asia (meno del 10 per cento). ETIS dunque non disponeva di una buona base di partenza per valutare gli effetti della vendita al Giappone.
A quel punto la CITES avrebbe potuto prendere in considerazione anche altri dati, come quelli raccolti da varie ONG che, infiltrandosi tra i trafficanti, avevano scoperto un aumento del commercio illegale di avorio dopo la vendita al Giappone. Avrebbe potuto combinarli con le statistiche di ETIS, che non mostravano una correlazione diretta tra la vendita autori/Aita e i sequestri. Avrebbe inoltre potuto riconoscere un limite di fondo di ETIS: il suo sistema di valutazione si basa sul numero di sequestri, una misura controllabile proprio da quegli Stati che l’organizzazione dovrebbe giudicare. A tutto questo andrebbero aggiunte le difficoltà nel misurare la portata del bracconaggio: ce n’era abbastanza perché la CITES dichiarasse che l’esperimento giapponese non aveva dato conclusioni definitive, o addirittura che era stato fallimentare.
Questa, per esempio, era la posizione della Cina, che in un rapporto del 2002 attribuiva all’esperimento giapponese la responsabilità dell’aumento del contrabbando: “Molti cinesi hanno equivocato la decisione e credono che il commercio internazionale dell’avorio sia stato ripristinato”. In pratica, i consumatori cinesi pensavano che non ci fosse nulla di male a comprare avorio.
La CITES ha deciso di ignorare l’avvertimento della Cina e di continuare a prestare fede soltanto alle statistiche di ETIS. “I dati in nostro possesso non mostrano alcuna correlazione tra le decisioni assunte dalla CITES e il commercio illegale”, ha dichiarato Willem Wijnstekers, all’epoca segretario generale dell’organizzazione. Tom Milliken, direttore di ETIS, si è spinto fino ad affermare che la vendita al Giappone era stata utile: «È incoraggiante notare che il commercio illegale d’avorio è diminuito progressivamente nei cinque anni successivi alla decisione». Ma Milliken non sapeva nulla di come andava il traffico: conosceva solo le statistiche sui sequestri. Così, pur non avendo dati sufficienti per valutare l’impatto della prima vendita, la CITES ha ritenuto di poterne autorizzare un’altra, segnando forse in maniera irreparabile la sorte dell’elefante africano.
Nel 2004 la Cina, dimenticando le sue preoccupazioni, ha chiesto l’autorizzazione all’acquisto di avorio. Nel marzo del 2005 la CITES ha inviato nel paese un team di cinque persone, tra cui Milliken, per ispezionare il sistema di controlli sull’avorio. Al termine della missione, gli ispettori si sono detti «più che soddisfatti». Intanto però due rapporti di ETIS attribuivano alla Cina la maggiore responsabilità dell’aumento del traffico illegale, e dunque il segretariato CITES ha respinto la sua richiesta.
Ma i dati ETIS erano manipolabili: tenevano conto non solo delle quantità di avorio sequestrato ma anche del numero di casi registrati. Per falsare le statistiche bastava dichiarare un gran numero di sequestri di piccole entità, come la confisca degli orecchini trovati addosso a una turista. «Tom Milliken mi ha suggerito di fare irruzione a Chatuchak [un mercato di Banykok] per far aumentare il numero dei casi”, mi ha raccontato un funzionario thailandese frustrato. Nel 1999 la Cina ha comunicato alla CITES solo sette sequestri di avorio; dopo aver chiesto l’autorizzazione all’acquisto ha cominciato a dichiararne decine, e poi centinaia, quasi sempre ai danni dei turisti. Lo scorso febbraio la Cina ha reso pubblici i dati su una delle più grosse operazioni anti contrabbando del 2011: erano stati coinvolti 4.497 agenti e 1.094 veicoli, e aveva portato alla scoperta di 19 casi, per un totale sequestrato di 28,8 chili d’avorio, il peso di un cane di media taglia.
Nel luglio del 2008 il segretariato della CITES ha autorizzato la Cina ad acquistare avorio, con il benestare di Traffic e del WWF e l’accordo degli Stati membri. Nell’autunno successivo Botswana, Namibia, Sudafrica e Zimbabwe hanno venduto all’asta più di 104 tonnellate d’avorio ai mercanti cinesi e giapponesi.
L’esperimento giapponese era problematico, ma in fondo limitato.
Il Giappone è una nazione insulare dove l’avorio viene usato quasi esclusivamente per realizzare i timbri tradizionali detti hanko. La Cina confina con altri 14 paesi, ha una lunga linea costiera, un’economia in pieno boom, una popolazione dieci volte più numerosa; controlla Hong Kong, dove vige un sistema economico diverso e l’avorio è molto richiesto; vanta importanti investimenti in Africa. In Cina l’avorio è usato per ogni tipo di prodotto, dalle sculture alle custodie dei cellulari. Dopo la vendita al Giappone, i cinesi avevano denunciato l’aumento del contrabbando. Adesso entravano a pieno titolo nel business dell’avorio. Secondo la CITES non c’era di che preoccuparsi.
IL DIAVOLO SI NASCONDE NEI DETTAGLI
Meng Xianlin è il direttore generale dell’ente cinese che si occupa dell’applicazione della CITES; è dunque la massima autorità del paese in materia di commercio delle specie in pericolo. Nel 2008, in Africa meridionale, ha presenziato alle aste per la vendita dell’avorio. Seduti in un locale vicino al suo ufficio di Pechino, davanti a un piatto di noodles e trippa di pecora, Xianlin mi confida un segreto sorprendente: in quelle aste non c’è stata concorrenza. Prima di partire per l’Africa, una rappresentanza degli acquirenti giapponesi è venuta in Cina per proporre un accordo strategico. Poiché i giapponesi, per i loro hanko, usano soprattutto zanne di alta qualità e di medie dimensioni, mentre i cinesi preferiscono quelle grandi, intere, per le sculture e i pezzi più piccoli per le decorazioni, i due paesi potevano presentare offerte diversificate e mantenere basso il prezzo. Alla fine, racconta, sono riusciti a strappare prezzi così bassi che una funzionaria della Namibia dove si era svolta la prima asta ha seguito le delegazioni asiatiche in tutti gli altri paesi africani per capire se era stata truffata.
Eppure secondo il segretariato della CITES le aste erano state un successo. Avevano fruttato 15,5 milioni di dollari, in gran parte destinati a progetti di tutela ambientale in Africa. Certo, la media dei prezzi pagati era bassa (circa 120 euro al chilo), e questo aveva penalizzato i venditori africani. Ma era anche un vantaggio, perché la Cina avrebbe potuto inondare il suo mercato interno con avorio legale e poco costoso, eliminando i contrabbandieri, che sempre secondo la CITES pagavano anche più di 650 euro al chilo. I prezzi bassi, dichiarava Willem Wijnstekers alla Reuters, avrebbero contribuito a frenare il bracconaggio.
Il governo cinese, invece, ha fatto una mossa a sorpresa: ha aumentato il prezzo dell’avorio. Attraverso un’affiliata della sua confederazione degli artigiani, la CACA, ha chiesto all’imprenditore Xue Ping 890 euro al chilo, un aumento del 650 per cento. A causa delle tasse, la Beijing Ivory Carving Factory si ritrova a pagare quasi 950 euro per ogni chilo di materiale di alta qualità. È stato varato un piano decennale di controllo dell’offerta: ogni anno vengono messe sul mercato non più di cinque tonnellate. Insomma, il governo di Pechino, che controlla le vendite dell’avorio, non sta puntando a sgominare il mercato nero, sta sfruttando il suo monopolio per ottenere profitti più alti degli stessi trafficanti.
Secondo il segretariato della CITES, i prezzi bassi e l’aumento dell’offerta avrebbero dovuto mettere fuori mercato i contrabbandieri. In base alla stessa logica, quindi, l’aumento dei prezzi e la restrizione delle vendite dovrebbero invece favorirli. E infatti, come confermano le organizzazioni non governative e i mercanti che ho incontrato in Cina e a Hong Kong, il commercio illegale è aumentato.
Intanto i prezzi continuano a salire. Secondo Feng You Min, direttore delle vendite della Daxin Ivory Carving Factory, rispetto al prezzo pagato in Africa oggi l’avorio grezzo costa 20 volte di più. Impossibile rimettere il latte versato nella bottiglia: l’avorio legale del 2008 continuerà a fare da incentivo per i traffici illeciti.
Infine, l’ultima beffa. Per ottenere l’approvazione della CITES, la Cina ha istituito una serie di misure di protezione, stabilendo tra l’altro che ogni oggetto d’avorio più grande di un ciondolo debba essere dotato di un documento di identificazione completo di fotografia. I trafficanti hanno rivoltato il sistema a proprio vantaggio. Nelle piccole fotografie allegate a queste “carte d’identità”, gli oggetti d’avorio decorati con motivi religiosi o tradizionali sembrano tutti uguali. Cosi, secondo un recente rapporto dell’International Fund for Animal, Welfare, i mercanti cinesi vendono le sculture ma si tengono le carte d’identità, applicandole poi ad altri oggetti realizzati con materiale di contrabbando. Esiste anche un mercato parallelo in cui i documenti vengono comprati e venduti. Insomma, l’unico risultato ottenuto da questo sistema è dare una patina di legittimità a oggetti illegali.
Poco prima che, nell’agosto del 2011, si svolgesse un meeting della CITES dedicato alla questione degli elefanti, la Cina ha ottenuto l’espulsione di tutte le ONG che avrebbero dovuto partecipare: un atto senza precedenti. Tra gli espulsi c’erano i rappresentanti della Born Free Foundation, della Humane Society International, della Federazione giapponese delle Arti e dell’Artigianato, del Pew Charitable Trust, del Safari Club International; e il sottoscritto, che era li per conto della National Geographic Society. A Tom Milliken di Trame è stato consentito di restare solo per esporre gli ultimi risultati dell’ETIS.
Meng, il funzionario cinese, mi spiega i motivi del clamoroso provvedimento ottenuto dal suo governo. La Environmental Investigation Agency (EIA), una piccola ma influente ONG londinese, aveva utilizzato suoi collaboratori cinesi in incognito per compilare un rapporto sul traffico d’avorio in Cina. Il rapporto sosteneva che Finterò sistema di controlli era fallimentare, che fino al 90 per cento dell’avorio presente sul mercato era illegale e che le aste del 2008 avevano resuscitato il contrabbando. Meng era indignato. Sì, ammetteva, il rapporto dell’EiA era vero all’80 per cento, «ma avrebbero dovuto consegnarlo prima a noi».
L’anno scorso la CITES ha rilasciato una dichiarazione sbalorditiva: “Il segretariato continua a impegnarsi per capire i molteplici aspetti del commercio illegale di avorio”. Lo scorso aprile, in un’intervista alla BBC, Tom Milliken ha fatto un’ammissione che ricalcava, quasi alla lettera, gli allarmi lanciati all’indomani dell’esperimento giapponese. «Permettere che in Cina arrivasse l’avorio legale ha esasperato la situazione? Oggi, con il senno di poi, si potrebbe probabilmente affermare di si. Forse nella mente di molti consumatori cinesi si è creata l’impressione che non ci fosse nulla di male a comprare avorio».
Meng ridacchia mentre gli verso un’altra bottiglia di birra. Mi racconta che quando l’avorio africano è arrivato in Cina, da uno dei carichi proveniva uno strano rumore. Ci è voluto del tempo per scoprirne l’origine. Le zanne di avorio sudafricano quello che durante le aste era sembrato il migliore, il più bianco si stavano spaccando. «Era il suono delle crepe che si aprivano», dice il funzionario. Per strappare un prezzo migliore, ipotizza, i sudafricani avevano sbisncato l’avorio: la rottura delle zanne era dovuta alla disidratazione.
Ancora più prezioso dell’avorio bianco dell’elefante africano comune è quello giallo del più piccolo elefante delle foreste. «È il migliore», mi spiega Feng della Daxin Ivory Carving Factory mostrandomi un pezzo di zanna. Gli oggetti intagliati in questo tipo di avorio sono richiestissimi: i clienti li ordinano espressamente. L’unico articolo rimasto in fabbrica che può mostrarmi è una statuina di Mao, vecchia e crepata. Il guaio è che l’elefante delle foreste non vive in nessuno dei paesi da cui la Cina ha acquistato l’avorio legalmente. Vive nell’Africa centrale e occidentale: anche in Camerini, il paese dove, nel gennaio scorso, i bracconieri hanno fatto strage di elefanti.
A marzo la CITES si riunirà di nuovo per discutere del futuro dell’elefante africano.