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 2012  ottobre 26 Venerdì calendario

FINE DI BRANDO, FINE DI UNA TV

Il padre Igino nacque muratore, visse da padre della patria e morì in odore di santità. Brando, terzogenito al centro di una Rai prevalentemente democristiana, alla croce preferì lo scudo perché in televisione pregare è un lusso, le divinità sono terrene e si combatte ogni giorno. Cresciuto a due metri da Viale Mazzini e scomparso ieri a 81 anni, Brando Giordani aveva osservato il mondo dall’agitato angolo dell’avventura perenne. Prima in una Roma bombardata dagli alleati e dalla fame: “Con mio fratello mi lanciai nel saccheggio delle dispense militari abbandonate dai fascisti”, poi, avvertita una vocazione distante da quella paterna, nelle buche del dopoguerra. Da cronista sportivo per la radio.
E A SUD del sud, dove “l’aspirazione dei contadini era mangiare carne una volta l’anno”, “i braccianti dormivano con i maiali” e il sogno dell’emigrazione non era ancora un’automobile in rotta tra Scilla e Torino, ma il razzismo di ritorno (documentato da Zatterin e Giordani in Meridionali a Torino del ’61) che accoglieva nella nebbia straccioni dai volti pasoliniani in precaria discesa dal “treno del sole”. Brando aveva viaggiato. Nell’Asia ancora occupata da imperatori e cattivi maestri e nei corridoi dell’ex Eiar, dove i servizi del primo tg, quello del ’54, erano girati in pellicola e poi, sotto la lente di Vittorio Veltroni, in un federalismo inconsapevole, spediti a Milano per la messa in onda. Con il sorriso aperto, il ciuffo sulla fronte, le inquietudini represse e una nascosta malinconia di fondo, in anni in cui l’equilibrismo rappresentava un’eresia, Giordani seppe rimanere sul filo, evitando il reticolato dei pregiudizi. Con il concorso di colpa di Fabiano Fabiani, esplorò le nefandezze americane in Vietnam. Disegnò pagine di grande tv mettendo in conto destrutturazionidelmezzoidealieprosaiche (quando al Quirinale Saragat vide il servizio da Saigon in Tv7, distrusse il Brionvega con una bottiglia di vino). Si applicò con l’inventiva curiosa di chi ogni tanto riusciva a distrarre l’editore di riferimento, in un alveo in cui alla macchina del caffè poteva capitare di imbattersi in De Sica, Flaiano, Rossellini e Parise. In una Rai sideralmente distante dall’odierna, dove Barbato e Colombo convivevano con il diagramma Bernabei (alta qualità, rigore censo-reo, 20 raccomandazioni l’anno smistate da un apposito ufficio come raccontò l’ex dg a Giorgio Dell’Arti e proporzioni realiste: “Tre posti ai Dc, due al resto del mondo”), Giordani immaginò una vera tv di servizio.
Non solo informazione, ma intrattenimento. Non solo tetra eterodirezione da Piazza del Gesù, ma inchiesta sul campo capace di raccontare il Paese come in seguito non accadde più. Se omaggio celeste doveva essere, bisognava volare alti. Provarci. Con le vite di Gesù di Zeffirelli, con Marco Polo, con Uno Mattina (rivoluzione assoluta) o con le ballerine del CrazyHorse.InOdeon-tuttoquanto fa spettacolo, con la sigla di Keith Emerson, Giordani, da entomologo, ne analizzò all’esordio le movenze di gruppo, l’inquadramento marziale. Gli fecero la guerra. Provarono a farlo dimettere, gli imputarono l’abusato espediente della pubblicità occulta, già presente nel 70% dell’autarchica produzione cinefila dell’epoca in un’orgia di Marlboro e Vat 69 in primo piano. Ma Giordani era un uomo d’azienda. Traversò il cursus dal basso in alto. E l’idealismo andava applicato alle idee. Da capostruttura di Rai Uno, gli venne quella di mandare in video per la prima volta, sola, senza funzione di mero riempitivo , Raffaella Carrà nella tela domenicale degli italiani. Dal cambio di prospettiva, dal campo alla scrivania, scaturirono dipinti impressionisti.
QUALCHE RISSA (Giordani disse no a Volonté in rara escursione promozionale per Il caso Moro, si assunse la responsabilità: “Non era lo spazio adatto, è colpa mia, ma preferisco essere considerato sprovveduto che censore”). Non pochi momenti di tensione (l’apologo grillesco su Martelli e Craxi in Cina a Fantastico 7: “Ma qui c’è un milione di socialisti? Se son tutti socialisti, a chi rubano?”). Molti ricordi. Sul comico genovese Bettino esondò: “Da anni ormai, in Rai non si risparmia neanche il signore iddio”. Si riferiva a Mastelloni, a cui anni prima era scappato un “porco” di troppo davanti a Stella Pende e a Minà in Blitz. Brando si vide allo specchio. Sua sorella, scenografa, era il braccio destro di Leopoldo. Il cerchio dell’esistenza che si chiude, le pressioni di sempre, il controllo esterno sul prodotto “indipendente”, la forza che richiedono i nuovi inizi. I sacrifici. I sacrificati. In piena lotta tra Psi e Dc per evolvere dalla lottizzazione al dominio, pagò Grillo in un’atmosfera da eterno déjà-vu. Da ragazzo, Brando, confezionava servizi per il Tg. Una volta andò dal sottosegretario di Fanfani per una dichiarazione. Incassò un no. L’operatore non si intimidì: “Onore’, dica 4 fregnacce, tanto non l’ascolta nessuno”. Quello parlò. In seguito, ma Brando era già vecchio e guardava da lontano, il fronte del porto si spostò. Dal dialogo al comizio. Dall’appetito alla grande abbuffata. Fino a morire, con la fantasia in cantina.