il Fatto Quotidiano 26/10/2012, 26 ottobre 2012
NON MI PENTO DI QUEL CHE HO SCRITTO E NON HO PAURA
Per oltre dieci anni Salman Rushdie ha dovuto vivere nascondendosi dagli estremisti islamici dopo la fatwa dell’Iran successiva alla pubblicazione del libro “I versi satanici”.
Signor Rushdie, ha dato al suo libro di memorie lo stesso titolo, “Joseph Anton”, del nome utilizzato negli anni della clandestinità. Come lo ha scelto?
Joseph Conrad e Anton Cechov sono i miei due scrittori preferiti. Purtroppo gli agenti della scorta mi chiamavano Joe. Insopportabile. Per fortuna Joe è morto nel 1999 quando mi hanno tolto la scorta. L’ho riportato in vita con il mio libro. L’ho fatto perché la gente capisca come può essere strano e doloroso essere costretti a cambiare il proprio nome.
Lei ha detto più volte che questo periodo è stato per lei tremendo sotto il profilo emotivo e psicologico. L’ha aiutata scriverne?
Per tanti anni ho voluto solo dimenticare. Ma ho sempre saputo che prima o poi ne avrei scritto , tanto è vero che ha tenuto un diario, che va dal 1988, anno della pubblicazione de “I versi satanici”, al 2003. Ho scritto per ricordare. In quei giorni tristi e solitari mi era rimasta una sola cosa: scrivere.
Come iniziò quel periodo?
La fatwa fu resa pubblica il 14 febbraio 1989. Quel giorno uscii di casa a Londra come tutti gli altri giorni senza sapere che non ci sarei tornato per anni. Il giorno dopo scattò l’“Operazione Malachite”, così la polizia inglese aveva battezzato il sistema per la mia sicurezza. Nei primi mesi non facevano che spostarmi: da un hotel a una stazione di polizia a un appartamento di amici. Per anni ho vissuto con due agenti al mio fianco, due autisti e due auto blindate.
In quegli anni si è battuto pubblicamente cercando di convincere l’Iran a togliere la fatwa. Col senno di poi, fu la scelta giusta?
Lo feci perché mi rifiutavo di accettare come normale una realtà nella quale non ero più libero di vivere la mia vita. Ringrazio chi mi ha protetto, ma il mio scopo è sempre stato quello di riprendermi la libertà perduta.
Ha mai avuto la percezione esatta di quanto la sua vita fosse in pericolo?
Il giorno dopo la fatwa, la scorta che mi disse che sarei stato protetto in un albergo per qualche giorno in attesa che le acque si calmassero. Evidentemente non si calmarono. Negli anni che seguirono ebbi più volte la prova che i miei nemici non scherzavano. A esempio un uomo si fece saltare in aria per sbaglio in un albergo di Paddington mentre tentava di fabbricare un bomba destinata a me. Poi ci furono gli attentati contro due miei traduttori (uno italiano, Ettore Capriolo, ndr) e contro l’editore norvegese. Non si trattava di dilettanti, ma di assassini professionisti, presumibilmente ingaggiati dal regime iraniano.
A un certo punto le arrivarono critiche non solo dai musulmani e da ambienti della polizia che ritenevano la sua protezione tempo e denaro buttati, ma anche da colleghi e intellettuali. Il più duro è stato John Le Carré.
Penso si sia pentito di quello che ha detto perché in un certo senso muovendo quelle critiche nei miei confronti accusava tutti gli intellettuali che nel corso della storia si sono battuti contro la tirannia. Certo che sapevo a cosa andavo incontro. Garcia Lorca sapeva benissimo chi era Franco. Osip Mandelstam sapeva benissimo chi era Stalin. Avrebbero dovuto tenere la bocca chiusa?
Forse attaccare la religione è una cosa un po’ diversa.
Rivendico la libertà d’espressione anche quando si tratta di religione.
Ha avuto momenti di vera depressione?
Sì. Ho passato momenti tremendi. Durante i primi due anni e mezzo di isolamento mi sono sentito completamente privo del mio equilibrio psicologico, proiettato in una realtà incomprensibile e inaccettabile. E anche dopo ho sofferto di crisi depressive. Mi hanno chiesto perché ho scritto le memorie in terza persona. Non certo per prendere le distanze da me stesso. Non sono matto: quando ho cominciato a scrivere in prima persona ho temuto di essere giudicato narcisista e inoltre non volevo dare l’impressione di piangermi addosso.
La sua vita è ancora in pericolo?
No, assolutamente. Non mi pento di quel che ho scritto, ma mi rifiuto di vivere nella paura.
La settimana scorsa ci sono stati episodi di violenza in Libia e in molti altri paesi arabi a causa di un film che mette in ridicolo Maometto. Le ricorda qualcosa?
Non sappiamo con esattezza cosa è accaduto in Libia. La stessa amministrazione Usa ha dichiarato di non poter affermare con certezza che esiste un rapporto causa effetto tra il film e l’attentato di Bengasi nel quale ha perso la vita l’ambasciatore Stevens. Non è da escludere che l’attentato fosse stato preparato già prima dai jihadisti per ricordare quella che loro considerano una data storica e gloriosa per il mondo arabo: l’11 settembre 2001.
© 2012 Der Spiegel – Distribuito da
The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto