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 2012  settembre 04 Martedì calendario

3– EVOLUZIONE DEL MONDO BRITANNICO NELL’ETÀ MODERNA FUORI DELLE ISOLE BRITANNICHE Il secondo Impero britannico, come abbiamo già visto, era nella prima florida infanzia quando si conclusero le guerre napoleoniche

3– EVOLUZIONE DEL MONDO BRITANNICO NELL’ETÀ MODERNA FUORI DELLE ISOLE BRITANNICHE Il secondo Impero britannico, come abbiamo già visto, era nella prima florida infanzia quando si conclusero le guerre napoleoniche. (1) Nel secolo seguente, esso doveva estendere enormemente la sua area, la sua ricchezza e la sua popolazione ; a ciò cooperavano la fioritura del commercio, delle comunicazioni e dei trasporti (fioritura dovuta a sua volta all’avvento della macchina a vapore, dell’energia elettrica, della benzina) e il progresso nella lotta contro le malattie tropicali. La situazione interna britannica favoriva l’emigrazione. Fino agli ultimi decenni dell’Ottocento si fece pochissimo per controllare l’aumento della popolazione in Gran Bretagna ; e per lungo tempo il workhouse fu il solo mezzo usato per rimediare alla disoccupazione. Di conseguenza vi fu un esodo continuo dall’isola. Parte dell’emigrazione era diretta agli Stati Uniti dove era in corso il popolamento delle vaste pianure che si estendevano al di là dei Monti Allegani; ma buona parte andava nel Canada, nel Sudafrica, in Australia e negli altri possedimenti insulari dell’Estremo Oriente. Il Ministero delle Colonie (Colonial Office) ancora verso il 1840 svolgeva un’attività fra letargica e ottusa nel campo dell’emigrazione; furono Lord Durham e Gibbon Wakefield che aiutati dagli enti religiosi e da organizzazioni private impostarono il controllo razionale e la protezione dell’iniziativa britannica nelle colonie e, col tempo, svegliarono anche il governo e se ne fecero un alleato. Fino alla fine dell’età vittoriana una buona parte degli abitanti della Gran Bretagna era gente nata e cresciuta in campagna che non desiderava nulla di meglio che procurarsi della terra da lavorare oltre oceano. Solo in epoca più recente doveva nascere il timore che gli Inglesi, sia in Inghilterra sia nel resto del Commonwealth, potessero, per abito e per inclinazione, tendere a disertare la campagna per concentrarsi nelle città. CARATTERI DEL SECONDO IMPERO BRITANNICO Un tratto tipico del secondo Impero britannico è da riconoscere nello sviluppo economico-sociale di vaste regioni asiatiche ed africane sotto la spinta combinata dell’intensificarsi del commercio e del buon governo. Sia in Africa che nelle Indie Orientali e Occidentali il governo è venuto modellandosi in base agli ideali illuminati che sono prevalsi quasi costantemente al vertice dell’amministrazione britannica fin dai tempi di Wilberforce e fin dalla riorganizzazione del governo dell’India da parte di Pitt e dei suoi governatori generali. Una parte notevole dell’umanità ne ha derivato dei grandi benefici. In Africa sono scomparse la guerra fra le tribù e la tratta degli schiavi; in India, in Egitto e in altri territori la tecnica e l’organizzazione moderna sono state impiegate a creare un benessere crescente per tutti i settori della società locale, non ultimo quello dei contadini. Ma due difficoltà hanno intralciato il compito dei nostri amministratori in paesi abitati da popolazioni di sangue diverso dall’europeo: primo, le contro-richieste avanzate dai colonizzatori e dai mercanti di origine europea, specie là dove, come nel Sudafrica e come in passato nelle Indie Occidentali, essi sono abbastanza numerosi per potersi governare; secondo, quelle complicazioni che non possono non sorgere in paesi come l’India dove un lungo periodo di pace, di amministrazione sane e di contatti con la civiltà occidentale ha finito per ispirare alla popolazione indigena il desiderio dell’autonomia. Il problema del modo e del ritmo con cui queste aspirazioni possono venire appagate senza produrre dei disastri è forse il più spinoso di quanti se ne possano presentare ad un governo per colpa dei suoi meriti. La nuova situazione internazionale che veniva formandosi per effetto della rivoluzione industriale per lungo tempo operò a crescente vantaggio della Gran Bretagna che era diventata la stanza di compensazione del commercio e della finanza mondiali e il centro industriale a cui si rifornivano gli altri paesi non così avanzati nel loro sviluppo produttivo. Fu questa situazione a causare l’avvento del libero scambio, l’abolizione delle tariffe protettive e quella degli Atti di navigazione. Queste innovazioni diedero il colpo di grazia alla vecchia teoria « mercantile » per la quale gli interessi commerciali delle colonie erano sì connessi con quelli della Gran Bretagna ma le erano soprattutto subordinati. I commerci delle colonie smisero di essere trattati come un monopolio inglese. Caduto il vecchio sistema mercantilistico, era logico che in base agli stessi principi di parità e di libertà le colonie giunte all’autogoverno si vedessero riconosciuta la facoltà di instaurare, se lo credevano, delle tariffe per protezione dei loro prodotti : anche delle tariffe dirette contro la madrepatria. Ora questo principio è applicato perfino all’India. Ma a considerare la questione da un punto di vista generale, la politica britannica del libero scambio e la rinuncia a trattare i nostri commerci con le colonie e gli altri possedimenti come una nostra riserva di caccia, sono valse a rimuovere molte cause di attrito con altri paesi i quali non potevano rassegnarsi a rimanere tagliati fuori dal commercio con una parte notevole del mondo come quella che venne a far parte del secondo Impero britannico. Concedere l’autonomia alle comunità imperiali di oltremare non è stato che un estendere al resto dell’Impero il principio di governo prevalso un tempo nelle Tredici Colonie perdute e che Pitt aveva instaurato nei due Canada. (2) Però l’applicazione tempestiva completa e coerente ai Dominions del principio del governo parlamentare responsabile, è merito soprattutto della saggezza e dell’energia di Lord Durham. Il suo grande merito fu di vedere per primo nella libertà il mezzo per preservare i legami tra membri dell’Impero anziché vedervi come tanti uomini politici Whig e conservatori del suo tempo un passo che avrebbe portato inevitabilmente verso lo smembramento dell’Impero. Verso la fine del secolo, negli anni di Joseph Chamberlain, l’Inghilterra e i suoi Dominions furono pervasi da un senso pieno del valore dell’Impero britannico. Ma la speranza concepita nell’ultimo tratto dell’età vittoriana che questa più intensa consapevolezza trovasse espressione in un sistema federale sotto una costituzione unitaria, era destinata ad essere delusa. In luogo di ciò oggi le colonie già tramutate in Dominions si stanno trasformando in enti nazionali separati. Il secondo Impero britannico si sta evolvendo verso la forma di una Lega delle nazioni di lingua inglese, unite dal vincolo formale della Corona. Che questi impalpabili legami imperiali potevano essere molto forti lo dimostrò la Grande Guerra. Essa fu una prova a cui una costituzione puramente scritta sulla carta non era certo in grado di sopravvivere. SVILUPPO DEL CANADA L’attività degli uomini di Stato inglesi nell’Ottocento trovò da applicarsi in due settori dell’ambito nord-americano: quello canadese e quello dei nostri rapporti con gli Stati Uniti. Due campi, gli avvenimenti in ciascuno dei quali si ripercossero sempre nell’altro. Per merito di Lord Durham e, dopo di lui, di Lord Elgin i problemi del Canada furono oggetto di studio e di azione oculata fin dai primi tempi. Invece nè gli uomini politici del partito Whig, nè i conservatori, nè l’opinione pubblica britannica nel suo complesso, seppero ravvisare il senso dei rapporti tra Gran Bretagna e Stati Uniti se non dopo la guerra civile americana (1861-65). Nel 1837 vi furono due rivolte nel Canada, tutt’e due facilmente represse: una fra gli abitanti di origine francese del Basso Canada, l’altra fra i colonizzatori di lingua inglese dell’Alto Canada. Per fortuna si trattava di due gruppi antagonisti e nessuno dei due desiderava l’annessione agli Stati Uniti. Ma tutt’e due avevano dei motivi per dolersi dell’incomprensione degli organi di governo. Le due Assemblee provinciali create da Pitt avevano il potere di rendere la vita difficile all’esecutivo ma non avevano quelli di nominarlo nè di controllarlo. (3) Ormai i tempi erano maturi perché il Canada ottenesse il pieno autogoverno. Ma non erano maturi i governanti inglesi nella metropoli a rendersi conto che questa era la cura adatta ai mali del Canada, e tanto meno a convincersi che una tale misura si poteva prendere senza conseguenze pericolose all’indomani di una rivolta. A Londra l’ignoranza delle reali condizioni di vita nelle colonie era grande; un vero sentimento democratico era raro tra gli uomini che avevano sostenuto e fatto adottare il primo Reform Bill quanto tra quelli che lo avevano osteggiato. Fu una fortuna che in seno al governo Whig di Lord Melbourne nascesse l’idea di inviare in Canada uno dei suoi membri, l’abile ma collerico e impulsivo Lord Durham. Durham era un imperialista e un convinto democratico, in un’età in cui molto difficilmente un uomo di governo era l’una o l’altra cosa. Lord Durham e il suo segretario Charles Buller seppero rendersi conto che il momento di dare l’autogoverno al Canada era giunto, e seppero anche dare a questa loro conclusione una stesura efficace nel celebre « Durham Report » del 1839. Il problema canadese era, tuttavia, molto più complicato che non sospettassero in Inghilterra e che lo stesso Lord Durham avesse mai immaginato prima di giungere sul posto. Si trovò di fronte a due gruppi etnici, quello francese e quello inglese, fortemente ostili l’uno all’altro e tutt’e due fortemente ostili al governo. L’immigrazione e la colonizzazione inglese nell’Ovest aveva ridotto la parte francese della popolazione a una minoranza, sull’insieme del territorio canadese; ma nel Basso Canada, i contadini francesi erano in forte maggioranza rispetto ai mercanti e uomini d’affari inglesi. La differenza di religione e di cultura rendeva più profondo il dissidio. Dare un governo autonomo e responsabile al Basso Canada avrebbe voluto dire, entro non molti anni, il crollo del sistema di governo e probabilmente la guerra fra le due comunità. Durham propose una soluzione ardita: fare delle due province una provincia unica e crearvi un’unica assemblea elettiva con potere di pieno controllo sull’esecutivo: il che voleva dire il controllo dell’esecutivo da parte degli Inglesi che erano in maggioranza. Questo piano venne realizzato col Canada Act del 1840. I Francesi protestarono ma non fecero resistenza. La nuova costituzione canadese potè funzionare anche grazie alla guida accorta e longanime di Lord Elgin (1847-54), fino alla grande crisi sopravvenuta nella vita canadese nel 1867. (4) RAPPORTI CON GLI STATI UNITI Ma per intendere le circostanze che produssero nel 1867 la Federazione Canadese occorre riprendere il filo dei rapporti tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Castlereagh come ministro degli Esteri si assicurò molti titoli per la gratitudine dei posteri ma nessuno più grande della parte che egli ebbe nell’intesa fra i due paesi per il disarmo dalle due parti della frontiera canadese e, in particolare, per l’abolizione delle unità da guerra nei Grandi Laghi che dividono il territorio britannico dagli Stati Uniti. L’anno dopo, nello stesso spirito, Lord Castlereagh inaugurò il lavoro collegiale per determinare il tratto occidentale del confine. Questa delicatissima operazione, che fu fatica congiunta di statisti inglesi e americani per lo spazio di una generazione, non sarebbe mai pervenuta a una conclusione pacifica se ai due lati del confine ancora malcerto si fossero installate delle forze militari. Durante l’amministrazione di Castlereagh nel 1818, la linea di demarcazione fu portata innanzi, in pieno accordo, dal Lake of the Woods allo spartiacque delle Montagne Rocciose lungo il 49° parallelo. Saviamente si decise di lasciare indeterminato per allora il seguito del confine fino al Pacifico. La vasta regione da spartire, che allora era conosciuta col nome di Oregon rimasto poi alla sola parte americana, era abitata solo da cacciatori delle due nazionalità, che comunicavano col resto del mondo attraverso alcune posizioni costiere del Pacifico. L’« occupazione comune dell’Oregon » ad opera degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, permise di mantenere la pace in quella regione pochissimo abitata finché durante « gli anni tumultuosi fra il ’40 e il ’50 » la marea della giovane popolazione americana incanalata sulla « pista dell’Oregon » raggiunse e scavalcò le Montagne Rocciose. La nazione americana viveva un periodo di rapida espansione. L’uomo stava domando la natura e la popolazione di un continente cresceva a un ritmo senza precedenti nella storia. Era l’epoca della guerra col Messico, e gli americani cominciavano ad esprimersi con una certa superbia grezza che traduceva il loro franco sollievo, lo stato d’animo di una nazione in pieno sviluppo che comincia a decifrare il suo destino. Una campagna presidenziale nel 1844 fu vinta con lo slogan : « fifty-four forty or fight » il che significava una pretesa territoriale sino a 54° 40´ di latitudine nord, il che voleva dire in pratica chiudere agli Inglesi lo sbocco sul Pacifico. Ma anche il Canada aveva il diritto a preparare la sua espansione verso occidente. Peel, uno dei ministri più saviamente pacifici che abbia avuto l’Inghilterra, si comportò da uomo fermo, conciliativo e ragionevole. Proprio al momento di lasciare il suo posto di governo egli compì un atto non meno importante, forse, dell’abolizione delle Corn Laws: riuscì ad accordarsi con gli Stati Uniti su una linea di confine che continuava fino alla costa del Pacifico la linea decisa da Castlereagh, sul 49° parallelo. Oggi la frontiera invisibile che va dall’Atlantico al Pacifico non è vigilata da sentinelle nè protetta da armi rivali, ma solo dal buon senso e dal buon animo di due grandi comunità. Dopo questo trionfo della ragione e della buona volontà pareva che l’intesa tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti potesse solo continuare a fiorire, lontano ormai da quell’ignoranza delle rispettive ragioni, da quelle prevenzioni, che un tempo erano state seminate dalla guerra e dalle differenze di natura sociale e religiosa. Le istituzioni britanniche non erano più quelle di un’aristocrazia e si avvicinavano a prendere una figura democratica; gli Americani stavano superando il loro provincialismo e cominciavano a pensare ad altro che le dispute ormai superate con la madrepatria da cui si erano staccati. Era ricominciato il flusso migratorio dall’Inghilterra agli Stati Uniti; era anzi più intenso che non fosse mai stato dal Seicento in poi, e stava creando dei vincoli di sangue e di sentimento fra la gente delle due sponde. A tener vivi questi legami contribuiva anche il progresso nelle comunicazioni postali. Ma purtroppo questi legami privati fra America e Inghilterra si intessevano tra gente di quel modesto livello sociale che in Gran Bretagna era ancora privo del diritto di voto. Nella aristocrazia e nell’alta borghesia non c’era ancora il costume di fare dei matrimoni americani nè di viaggiare negli Stati Uniti a scopo turistico; ed erano queste due categorie che controllavano ancora la politica estera, la stampa e il Parlamento quando sopravvenne la guerra di secessione (1861-65) a creare di riflesso una nuova situazione critica nei rapporti della Gran Bretagna con l’estero. Durante quella guerra civile il governo di Palmerston e di Russell (1861-62) si comportò correttamente. I ministri, sotto l’influenza moderatrice del principe Alberto morente, cooperarono a una soluzione pacifica del pericoloso incidente nato col governo nordista di Lincoln per il vapore Trent; e, dopo inopportune esitazioni, decisero di non affiancarsi a Napoleone III nel suo tentativo di fare da paciere a sostanziale favore degli schiavisti del Sud. Tuttavia le simpatie dei ceti superiori inglesi andavano soprattutto ai Sudisti; ed erano espresse in modo piuttosto crudo dal Times, dal Punch e da alcuni altri giornali inglesi alle cui espressioni la Nuova Inghilterra era particolarmente sensibile. Non che in Inghilterra ci fosse della simpatia per gli schiavisti; ma iniziando le operazioni di guerra il presidente Lincoln aveva detto che la controversia era sull’unità nazionale e non sulla schiavitù, e gran parte degli Inglesi era troppo poco informata della situazione americana per sapere fino a che punto quell’affermazione era da accettare per buona. È comprensibile che in Inghilterra ci si chiedesse se proprio il Sud era tenuto a rimanere in una unione nazionale da cui preferiva restar fuori. Quando Lincoln proclamò la liberazione degli schiavi nella Confederazione ribelle degli Stati meridionali, l’opinione pubblica inglese cominciò a evolvere a suo favore. Del resto fin da principio la classe operaia e la piccola borghesia, bene informate da John Bright, da W. E. Forster e da alcuni altri, si erano schierate con la democrazia del Nord e a sfavore della creazione di una repubblica schiavista. Dopo la vittoria dei Nordisti e l’assassinio di Lincoln anche il resto del paese passò dalla parte dell’Unione. Tuttavia finché durò la guerra le simpatie britanniche restarono divise a seconda di coloro che avversavano o desideravano un’estensione del diritto di voto in Gran Bretagna. Di là dell’Atlantico, finché durò la guerra, i Nordisti continuarono a risentirsi aspramente di quella che credevano fosse l’opinione di tutti gli Inglesi; i Sudisti, che in base alla stessa illusione si erano attesi un aiuto concreto, erano su per giù dello stesso umore. L’avversione degli Americani per l’Inghilterra doveva accentuarsi ancora a un certo punto, proprio quando le circostanze della vita pubblica di qua e di là dell’Atlantico si erano fatte favorevoli a una maggiore intesa fra i due popoli. L’incomprensione, sorta dal caso della guerra, non era destinata a durare in eterno; ma dato il momento in cui sopravvenne, fu di parecchio danno ai rapporti futuri tra la Gran Bretagna e l’America. L’emigrazione degli Irlandesi ostili all’Inghilterra e di europei di vari paesi dove la tradizione e la cultura erano profondamente diverse da quelle britanniche, stava prendendo delle proporzioni tali da cancellare quasi, entro il secolo, quella prevalenza dell’elemento anglosassone che era stata fino allora il tratto essenziale della nazione americana. Dalla guerra di secessione rimase alle diplomazie dei due paesi una spiacevole eredità: la questione dell’Alabama. Russell quando era ministro degli Esteri aveva sventatamente permesso che quella nave sfortunata abbandonasse il cantiere di Laird a Birkenhead. La nave si era data a predare i mercantili del Nord battendo bandiera sudista. Finita la guerra, il risentimento del Nord contro l’Inghilterra si manifestò tra l’altro nella richiesta di un’indennità enorme per quegli atti di pirateria. La vertenza durò, con tratti spiacevoli, per alcuni anni; finché si concluse con una transazione onorevole raggiunta a Ginevra nel 1872. Gladstone, che in quel momento era Primo Ministro, fece onorevole ammenda delle espressioni sventate di simpatia per il Sud che aveva avute durante la guerra accettando di rimettere a una terza parte la decisione della cifra da pagare; e con ciò stabilì un prezioso precedente nel campo dell’arbitrato mondiale e della pace. Verso la fine del secolo un arbitrato doveva risolvere un’altra seria vertenza anglo-americana, quella sorta fra il presidente Cleveland e Lord Salisbury per i confini del Venezuela. Poco dopo, scoppiato il conflitto fra la Spagna e l’America per Cuba, l’opinione pubblica inglese fu molto più favorevole all’America di quella dei paesi dell’Europa continentale. Entrambi questi incidenti testimoniano che l’Inghilterra ufficiale e l’opinione pubblica inglese erano ormai diventate definitivamente favorevoli all’America. Ma fin che durò la guerra di secessione e nel primo tratto di tempo dopo la vittoria, negli Stati del Nord era rimasto vivo il risentimento antibritannico; e questo fatto e l’attività terroristica dei feniani irlandesi lungo il confine canadese avevano rivelato al Canada che la sua indipendenza poteva essere in pericolo. Per fortuna l’autogoverno che durava già da una generazione aveva agito in senso utile sulla coscienza canadese. Le colonie britanniche dell’America settentrionale, con la sola eccezione della Terranova, si legarono spontaneamente in una federazione di modello fortemente unitario con lo scopo di sventare nelle singole province ogni eventuale velleità di annessione agli Stati Uniti. L’uomo di Stato canadese a cui risale per la maggior parte il merito di aver creato la Federazione è Sir John Macdonald. Un effetto della Federazione fu di restituire al Basso Canada francese l’autonomia, limitata soltanto dai legami col potere centrale. Nel frattempo le comunità francesi e britanniche avevano imparato a vivere le une accanto alle altre con un minimo di attrito ; e i Franco-canadesi si erano venuti conformando al tipo e alla mentalità parlamentare britannici. Per merito della sua costituzione federale il Dominion del Canada fu presto in grado di trattare con gli Stati Uniti senza il tramite obbligato della diplomazia inglese. La coscienza dell’unità canadese nel decennio successivo alla nascita della Federazione rese possibile la costruzione della grande arteria ferroviaria nazionale, la Canadian-Pacific Railway. Questa a sua volta aprì le vaste regioni dell’estremo Ovest (v. carta a p. 753) alla colonizzazione britannica sotto la bandiera britannica. La Canadian-Pacific è tuttora la colonna vertebrale del Canada. AUSTRALASIA L’Australia procedette attraverso il secolo XIX rimanendo chiusa in un universo tutto suo. Non aveva ereditato dai suoi antecedenti storici alcun problema come quello dei Franco-canadesi. Non aveva da fare i conti con dei vicini come gli Stati Uniti. Ma la sua storia come quella canadese è la storia di un certo numero di colonie nate separatamente, divise da vaste zone desertiche, le quali sulla metà del secolo raggiungono la completa autonomia e verso la fine del secolo giungono all’unità economica in seguito alla costruzione di lunghe linee ferroviarie. Come per il Canada nel 1867, per l’Australia nel 1901 i tempi si rivelarono maturi per l’unione federale. Però il sistema federale australiano non è stretto come quello canadese. Un carattere proprio della vita politica australiana è quello che le è stato impresso dalla forza raggiunta precocemente dal partito laburista e dalla lotta impegnata dalla democrazia contro gli squatters (5) per una distribuzione equa delle terre e il frazionamento dei latifondi. La politica australiana di non ammettere immigranti di colore, e la consapevolezza di ciò che tale politica può comportare nei rapporti col Giappone, hanno fatto sorgere recentemente sul ceppo del nazionalismo australiano un senso particolarmente vigile dell’importanza della condotta diplomatica della Federazione, e hanno mantenuto nella nazione un sentimento speciale dell’importanza dei nessi con la Gran Bretagna. L’ideale che l’Australia mira a realizzare anche a costo di un ritardo nello sviluppo economico del paese, è quello di una società ugualitaria di bianchi fisicamente forti, con un alto tenore di vita. Fu Gibbon Wakefield a convincere gli Inglesi che la Nuova Zelanda poteva ospitare altra gente oltre agli indigeni Maori. La sua New Zealand Association fondata nel 1837 creò sull’isola la prima colonia inglese, giusto in tempo per prevenire l’annessione alla Francia. Oggi la Nuova Zelanda, con un milione e mezzo di abitanti, è uno dei più piccoli ma non dei meno felici e meno preziosi tra i Dominions indipendenti della Corona britannica. SUDAFRICA Nella storia del Sudafrica ci sono dei tratti affini e ce ne sono altri in contrasto con quelli degli altri Dominions. Come in Australia e come nel Canada, nel Sudafrica la formazione di numerose comunità importanti e isolate fra loro da vaste regioni desertiche, precedette l’età delle ferrovie e l’instaurazione di un sistema federale. Qui come nel Canada i problemi della colonizzazione e poi quello dell’autonomia vennero complicati dalla presenza di altri coloni di origine europea, giunti prima degli Inglesi. Come nel Canada al tempo di Wolfe e di Montcalm, nel Sudafrica dovette essere versato del sangue al tempo di Kitchener e di Botha prima che si venisse a un assestamento pacifico. Ma nel Sudafrica la popolazione bianca è in forte minoranza rispetto ai negri (la proporzione nell’Unione Sudafricana senza i protettorati indigeni è di uno a quattro circa). Il Canada è doppiamente un paese di bianchi, perché è abitato solo da bianchi e perché il suo clima è adatto solo ai bianchi. L’Australia avrebbe posto per gente di colore, ma per legge ammette solo degli immigranti di razza bianca. Invece nel Sudafrica, nel clima salubre degli altipiani dell’interno, i bianchi e i negri prosperano affiancati. I colonizzatori bianchi del Sudafrica si sono trovati in un numero sufficiente per poter reclamare e ottenere l’autonomia e per farne buon uso; ma questo fatto ha avuto dei riflessi continui e complicati sul problema della popolazione negra. In seguito alla creazione di una base marittima inglese al Capo di Buona Speranza durante le guerre napoleoniche, una piccola comunità boera insediata vicino al Table Mountain venne a trovarsi alle dipendenze di amministratori inglesi; e questo fu il primo capitolo della storia degli Inglesi nel Sudafrica. Dapprima non vi furono difficoltà sensibili: i Boeri sotto la bandiera olandese non avevano conosciuto nessun grado di autonomia, e i coloni inglesi erano pochi. Ma durante il terzo e il quarto decennio dell’Ottocento, gli Inglesi cominciarono ad affluire in buon numero e sorsero le prime difficoltà causate dalla differenza di lingua, di leggi e di usanze. In quello stesso periodo vennero emancipati gli schiavi in tutti i territori dell’Impero britannico. I Boeri non si rifiutavano di liberare i loro schiavi ma, non senza fondamento, trovarono da protestare perchè il compenso promesso non era stato loro pagato che in parte. Inoltre le autorità non davano loro una protezione adeguata dalle incursioni di certe tribù dell’interno nelle loro aziende più isolate. Purtroppo il ministro delle Colonie nel governo di Lord Melbourne era l’incompetente Lord Glenelg. Apparteneva a quel tipo di funzionario inglese allora non raro, che nelle questioni riguardanti gli indigeni delle colonie di oltremare tendeva a dare retta esclusivamente a un certo tipo di missionari. La situazione in cui vennero lasciati molti coloni di frontiera, e forse in aggiunta uno spirito di avventura che i Boeri avevano nel sangue, diedero il via al Grande Trek : i Boeri caricarono le donne, i bambini e le masserizie sui loro carri trainati da buoi e partirono attraverso il veld, verso lontane regioni dell’interno (1836). E qui essi vissero alla loro maniera patriarcale leggendo assiduamente le loro Bibbie voluminose, moltiplicando i loro armenti, cacciando la selvaggina grossa che abbondava dappertutto, e tenendo a bada le bellicose tribù indigene coi loro moschetti e i loro fucili e la loro mira infallibile. Ma nell’Africa del secolo XIX quel loro isolamento non poteva durare. Prima nel Natal, poi ai due lati del fiume Vaal, l’esodo dei Boeri fu seguito da immigrati inglesi e continentali di ogni tipo e origine: missionari, cacciatori, agricoltori, cercatori d’oro e di diamanti, capitalisti in cerca di grossi affari. Nel corso del secolo l’urto tra i primi immigrati bianchi e quelli del nuovo tipo avvenne ripetutamente nel Sudafrica, assumendo varie forme. Dapprima, per un tempo abbastanza lungo, il pericolo costituito dalle tribù guerriere indigene trattenne i Boeri e gli Inglesi dal venire ai ferri corti. Ma una volta che i soldati e gli amministratori inglesi ebbero in parte sterminato in parte pacificato la bellicosa nazione Zulù, i Boeri si rinfrancarono un poco. In questo momento critico le esitazioni del governo britannico e particolarmente l’incertezza di Gladstone, rinviando gli accordi che era il caso di concludere coi Boeri del Transvaal, portarono all’episodio di Majuba. (6) Per paura che gli Olandesi della Colonia del Capo si schierassero coi loro fratelli di oltre il Vaal, Gladstone si rassegnò a quello scacco; e il Transvaal diventò la Repubblica del Sudafrica. Se la « politica di Majuba » aveva una qualche possibilità di fruttare, glielo impedì la scoperta di nuovi ricchissimi giacimenti di oro e di diamanti nel Transvaal. Vi fu una corsa all’arrembaggio che esasperò il conflitto già in corso fra gli speculatori cosmopoliti e i rozzi ma astuti contadini olandesi risoluti ad avvantaggiarsi dell’altrui intraprendenza mineraria senza però lasciarsi portar via dai nuovi venuti le redini della repubblica. Intanto Cecil Rhodes e la sua Chartered Company (7) stavano sviluppando sotto il segno dell’espansione inglese dei nuovi territori situati ad ovest e a nord del Transvaal: stava nascendo la Rhodesia. Questa penetrazione dinamica verso l’interno era in parte l’effetto della paura nutrita da Rhodes che i Tedeschi si preparassero ad estendere i loro territori, attraverso il continente, dall’Africa sud-occidentale tedesca al territorio portoghese. Se ciò avveniva, l’avanzata dei colonizzatori inglesi verso nord era interrotta definitivamente. A Rhodes premeva collegarsi al più presto con le regioni di là dello Zambesi visitate una generazione prima da Livingstone e da altri missionari inglesi i quali avevano accertato che di lì si poteva accedere al cuore del continente e che le popolazioni indigene potevano essere controllate. Più a nord, molto lontano da quelle regioni, allora gli Inglesi occupavano l’Egitto. Allo spirito entusiasta di Rhodes la costruzione di una linea ferroviaria che congiungesse il Capo di Buona Speranza al Cairo sembrava tutto fuorché un miraggio. Insieme sognatore e uomo pratico, Rhodes doveva lasciare una grande impronta nella geografia e nella storia africane. Ma non tutti i frutti delle sue iniziative vennero a corrispondere alle finalità che avevano mosso le sue iniziative. Mentre era suo grande desiderio mettere in armonia i colonizzatori inglesi e olandesi, egli agì in modo da renderli tragicamente nemici per molti anni. Quando era il Premier della Colonia del Capo, cedendo alla sua inimicizia per Paul Kruger, presidente della Repubblica Sudafricana, il vero tipo del conservatore boero di vecchio stampo, tramò un colpo di mano sul Transvaal. Il frutto della « spedizione di Jameson » (8) (Natale 1895) fu di riunire tutti gli Olandesi in Africa nell’odio e nella paura degli Inglesi, e così di permettere a Kruger di affrontare la seconda guerra con gli Inglesi armato fino ai denti. Per Joseph Chamberlain nel Ministero delle Colonie a Londra, e per Sir Alfred Milner nel Sudafrica, non restava altra via che far precipitare al più presto la situazione verso il conflitto aperto. La seconda guerra boera (1899-1902), con i rovesci inattesi che vi dovevano subire le forze britanniche, con l’appendice della lunga guerriglia che i coloni boeri seppero ancora condurre dopo essere stati battuti sul campo, ebbe delle conseguenze profonde sull’Impero inglese. Essa mise fine a quell’imperialismo gradasso che era venuto prevalendo verso la fine dell’Ottocento: uno spirito di cui si giovò forse l’idea dell’Impero per far presa nella nazione, ma che nei tempi più gravi a cui si stava avvicinando doveva essere soprattutto dannoso. Le difficoltà a cui la guerra boera assoggettò la nazione, indussero gli Inglesi di tutti i partiti a farsi un concetto più equilibrato e positivo delle responsabilità e dei destini imperiali. Causò un rapido progresso nella nostra efficienza militare; produsse quella riforma del sistema militare inglese che una dozzina d’anni più tardi doveva far sentire i suoi preziosi effetti. Se gli Inglesi avessero vinto la guerra boera con troppa facilità, forse non avrebbero potuto vincere la Germania nel ’18. Un altro effetto della guerra sudafricana fu di svegliare l’immediata, calorosa solidarietà dei Canadesi, degli Australiani e dei Neozelandesi: i quali non tardarono a sbarcare nel Sudafrica per battersi in difesa dell’Impero in pericolo. La vittoria ottenuta sul campo di battaglia da Lord Roberts e da Lord Kitchener causò l’annessione del Transvaal e dello Stato Libero dell’Orange. Il trattato di pace firmato a Vereeniging (maggio, 1902) concedeva delle condizioni onorevoli per la resa di quei guerriglieri che ancora tenevano duro nel veld. La Gran Bretagna si impegnava a ricostruire subito tutte le fattorie distrutte o danneggiate. L’inglese e l’olandese dovevano diventare le due lingue ufficiali in piena parità. Col tempo il Sudafrica avrebbe ottenuto la piena autonomia sotto la Corona britannica. Tutte queste promesse vennero mantenute. L’autogoverno responsabile fu concesso nel 1906 da Sir Henry Campbell-Bannerman malgrado i clamori sollevati da Balfour, da Milner e dai conservatori che vi ravvisavano il primo passo verso la catastrofe. Fu invece la misura che completò la pacificazione del Sudafrica. Quattro anni più tardi tutte le regioni sotto la Corona britannica nell’Africa meridionale, salvo le Rhodesie e alcuni protettorati indigeni, vennero riunite nella Confederazione Sudafricana (1910). Nella guerra del 1914-18 i generali Botha e Smuts, gli stessi capi dei Boeri che avevano tenuto duro fino all’ultimo contro gli Inglesi nel 1902, portarono l’Unione Sudafricana a fianco degli Inglesi contro la Germania. Nel momento di maggior pericolo, l’ingresso in guerra del Sudafrica volle dire per la Gran Bretagna un enorme sostegno materiale e forse un apporto morale ancora più prezioso. INDIA Il crollo dell’Impero del Gran Mogol nel secolo XVIII, e l’effetto che ne derivò per l’India ridotta a campo di battaglia tra gli innumerevoli principi, capitani e capibanda rivali, avevano costretto la Compagnia Inglese delle Indie Orientali ad accollarsi delle responsabilità politiche e ad intraprendere delle azioni militari in grande stile. A ciò l’avevano anche obbligata le manovre della Francia per estromettere dall’India i suoi rivali europei. Lord Wellesley (9) era stato il primo governatore generale dell’India (1798-1805) a decidere che era necessario proseguire su quella strada finché nell’ambito dei vari Stati indiani la pax britannica non fosse un principio uniformemente accettato. Le sue spedizioni contro i Maratti misero a freno gli attacchi fra vicini e l’anarchia interna degli Stati dell’India orientale e meridionale; ma l’area centrale che era la più turbolenta era ancora fuori del controllo britannico (v. carta a p. 677). Dopo il rientro di Wellesley in Inghilterra, si cercò di limitare il peso delle responsabilità prese dalla Gran Bretagna in India rinunciando a un’ulteriore espansione. (10) Ma subito gli avvenimenti dimostrarono l’impossibilità di lasciar maturare la confusione al di là di un lunghissimo confine sguarnito e contare che non si permettesse di varcarlo. Finché l’India centro-settentrionale era in subbuglio non aveva senso illudersi di mantenere la pace e l’ordine nel resto della penisola. Perciò Lord Hastings riadottò la politica intelligente di Lord Wellesley. Tra il 1814 e il ’16 vennero affrontati e sottomessi i Gurkha, una nazione montanara del Nepal; e da allora l’Inghilterra avrebbe potuto costantemente contare su di loro come su alleati fedeli, e reclutare fra loro degli ottimi soldati. Fra il ’16 e il ’18, sempre sotto il governatorato di Hastings, si svolsero la terza ed ultima guerra coi Maratti e le guerre coi Pindari, in cui si stroncò l’attività di quelle orde di predoni dell’India centrale. Di lì a circa sei anni un attacco contro l’India nord-orientale da parte dei Birmani che irruppero nell’Assam, diede origine alla prima guerra di Birmania (1824-26). Iniziata allora, la conquista della Birmania si completò nel 1853 nell’86. I Birmani, una nazione buddista di origine cino-tibetana, non si possono considerare parte del mosaico religioso ed etnico in cui consiste l’India, sicché il sistema messo a punto dagli Inglesi per il governo dell’India dovette subire varie modificazioni per diventare uno strumento efficace nel controllo della Birmania. Al periodo di governo di Lord Hastings e del suo immediato successore, un periodo di guerre e di ulteriore penetrazione, vi fu un periodo di stasi durato alcuni anni dopo il quale la situazione critica sulla frontiera nord-occidentale dell’India e in particolare i primi contatti coi Pathani dell’Afghanistan e coi Sikh del Punjab produssero una nuova serie di guerre e di annessioni. In quell’intermezzo pacifico, una serie di buoni amministratori — tra cui emerse la figura di Lord William Bentinck — riuscì ad accentuare i lati umani e illuminati della tutela inglese e a diffondere tra gli Indiani un sentimento di fiducia. Non che il senso di una responsabilità verso le popolazioni controllate mancasse in quegli amministratori e militari che l’Inghilterra aveva mandato in India negli anni di guerra e di ampliamenti territoriali: come Clive, Warren Hastings, Wellesley, Lord Hastings. Metcalfe e i fratelli Lawrencc. Ma la situazione che trovò Lord William Bentinck all’inizio dei suoi sette anni di governatorato (dal 1828 al ’35) era tutt’altra; i suoi interventi più duri nella vita indiana furono appena la lotta contro i Thug, (11) una casta di assassini ereditari che infestavano le strade della penisola; e quella, che incontrò del resto una resistenza fiacca, per abolire il suttee, l’uso di bruciare le vedove indù. Nel 1813 era stato abolito il monopolio dei commerci inglesi con l’India da parte della Compagnia delle Indie Orientali; nel 1833 finì anche quello dei commerci con la Cina. La Compagnia delle Indie cessò di essere un’impresa commerciale; fino al 1858 conservò un pallido ricordo della potenza politica passata ormai diversi anni prima ai ministri della Corona. Nello Statuto concesso dalla Corona all’India nel 1833, le idee di Bentinck trovarono, espressione in questi termini: «A nessun abitante dell’India, indiano o comunque suddito di Sua Maestà, può essere negata una posizione, un impiego, una carica a motivo della sua religione o della sua nazionalità originaria o dei suoi ascendenti o del suo colore. » Tuttavia non si era ancora messa mano ad allevare dei funzionari indiani per affiancarli agli inglesi in tutti i gradi dell’amministrazione. A questo compito si applicarono con zelo, convinzione e competenza Bentinck e altri uomini della sua generazione. In quegli anni l’attrito e l’antipatia fra gli Indiani e gli europei erano singolarmente minimi. Era ancora fresco il ricordo del disordine tragico che aveva imperversato sull’India prima che gli Inglesi vi stabilissero il loro potere, e sopravviveva negli Indiani un certo spirito di gratitudine. Gli Inglesi e gli Scozzesi in India erano pochissimi, e nella maggior parte erano elementi scelti: troppo pochi per far gruppo a sè. Dovevano fare sei mesi di mare per tornare in patria, e non pochi erano quelli che non vi tornavano più. L’India era la loro seconda patria. Di matrimoni se ne facevano pochissimi ma non erano tabù. Il sentimento della razza, di entrambe le parti, allora era un’inezia in confronto con quello che doveva diventare sulla fine del secolo. Gli Indiani ignoravano tutto dell’Inghilterra e degli altri paesi europei; e gli uomini venuti a governare il loro paese ai loro occhi apparivano esseri singolari, invulnerabili, piovuti dal cielo, molto più misericordiosi che gran parte dei loro dei e dei loro principi. Una simile disposizione psicologica naturalmente non poteva durare. Resta da chiederci: se il sistema educativo adottato dagli Inglesi in India fosse stato diverso, i rapporti fra Inglesi e Indiani si sarebbero impostati diversamente — meglio o peggio di come si impostarono? Durante il governatorato di Bentinck venne adottato l’inglese come lingua comune negli studi e nell’amministrazione. E a decidere nella vertenza fra l’inglese e le lingue locali furono più che altro gli argomenti forti senz’altro, ma forse ottimisti, addotti da Macaulay (che allora era a Calcutta, membro del Consiglio supremo per l’India). (12) Si stenta del resto a pensare che un’altra lingua all’infuori dell’inglese potesse diventare la lingua ufficiale in India. In un paese governato in maniera unitaria occorreva una lingua ufficiale comune. E chi avrebbe potuto costringere gli Inglesi e gli Indiani, nei loro rapporti educativi e di governo, a servirsi di una delle innumerevoli lingue orientali scelta arbitrariamente fra le altre? Ma l’adozione dell’inglese come comune strumento di cultura portava con sè dei pericoli che le generazioni successive non hanno saputo valutare e stornare. In un paese dell’Occidente, ricco di energia, abituato a governarsi con leggi sue da molti secoli e quindi a considerare l’autocontrollo individuale e l’ordine pubblico come fatti accertati e collaudati, è naturale che i poeti, i letterati, i filosofi vedano e descrivano la libertà del singolo come il bene supremo della vita. Un simile ideale può trovare delle strane risonanze se a raccoglierne le espressioni è un pubblico situato dall’altra parte del mondo, sia nella geografia sia nel costume; e non mancava di verità l’appunto fatto agli Inglesi di aver tentato in India di « allevare degli amministratori mediante una letteratura anarchica ». Insomma è indiscutibile che errori se ne fecero nell’impostare la pubblica istruzione in India; ma chi dice che le complicazioni degli ultimi lustri in India si potevano prevenire tenendo fuori delle scuole indiane le letterature e lingue dell’Occidente, dimentica come era viva la richiesta di veder adottato l’inglese nelle loro scuole, da parte degli Indiani stessi, intorno al 1835; dimentica quanto merito l’insegnamento delle lingue e della cultura occidentale ha avuto nella stessa rinascita delle loro letterature; che sarebbe stato, più che ingeneroso, impossibile intralciare a una parte dei sudditi della Corona l’accesso alla scienza e alla cultura dell’Occidente e che sarebbe stato pericoloso un tentativo fallito del governo di mantenerli nell’ignoranza ad onta del loro vivo e manifesto desiderio. Dopo il periodo di pacifico assestamento che coincise con l’amministrazione di Bentinck, il moto di espansione riprese. Le guerre e gli accordi intervenuti verso la metà del secolo crearono le premesse per la condotta politica degli Inglesi in India, e per il concretarsi della forma geografica dell’India, particolarmente al limite nord-occidentale. Una spedizione intesa a portare nella sfera anglo-indiana le tribù montanare dell’Afghanistan, fra il 1839 e il ’41, si concluse con la famosa ritirata da Kabul in cui perdemmo un intero esercito. Forse fu una Fortuna travestita da disastro: doveva riuscire chiaro ben presto che la pace e la sicurezza della penisola indiana dipendevano dall’amicizia con la nazione afgana che arroccata sui suoi monti difendeva la sua libertà dal mondo russo a nord-ovest e da quello britannico a sud. L’Impero britannico deve al libero Afghanistan di non essersi mai trovato in diretto conflitto armato con la Russia asiatica. Negli anni immediatamente successivi a quello scacco sui monti, l’annessione del Sind e del Punjab mise nelle mani degli Inglesi l’intero sistema fluviale delle pianure del Nord-ovest. I Sikh del Punjab erano una confraternita religiosa di tendenza democratica, di una sfumatura di Induismo che si potrebbe chiamare « protestante ». Da lungo tempo essi facevano da sentinella alle pianure dell’India contro le tribù maomettane dei monti e le orde di invasori che calavano dall’Asia centrale. Il loro grande capo, Ranjtt Singh, aveva addestrato i guerrieri Sikh secondo i concetti strategico-tattici europei, e la sua politica era una politica di amicizia con l’Inghilterra. Ma dopo la morte di Ranjit Singh i suoi splendidi guerrieri varcarono il Sutley per scagliarsi all’attacco dell’India britannica. La guerra che ne seguì, culminando in aspre battaglie come quelle di Moodkee, Sobraon e Chillianwallah, non fu meno dura e sanguinosa di ogni altra guerra combattuta dagli Inglesi in India. Dopo la vittoria fu opera dei fratelli Lawrence conquistare la fiducia e l’attaccamento dei Sikh mediante il buon governo del Punjab. E quando scoppiò l’ammutinamento nel Bengala John Lawrence si potè servire del Punjab recentemente acquistato come di una piazza d’armi per le forze che riconquistarono Oudh (1857). In quella crisi l’amicizia dell’Afghanistan permise agli Inglesi di sguarnire la frontiera nord-occidentale per adoperare contro gli insorti i contingenti militari che vi erano dislocati. L’ammutinamento fu, come dice il nome, una sollevazione di alcuni reggimenti di Sepoys (13) al soldo degli Inglesi, tra cui gran parte dell’artiglieria. La popolazione restò più che altro a far da spettatrice. Il malcontento che portò i Sepoys ad ammutinarsi era il malcontento di soldati, ed era dovuto a errori dei comandi e dell’amministrazione militare. Un tale errore fu quello di distribuire (senza intenzione provocatoria) delle munizioni lubrificate con grasso di vacca, cioè di un animale sacro, e di maiale cioè di un animale immondo. Il primo focolare dell’ammutinamento fu Meerut, e l’occasione ultima fu fornita dalla severità eccessiva di alcuni ufficiali incapaci — e che difatti si disorientarono subito di fronte al disordine che avevano provocato (maggio, 1857). Parte degli ammutinati si misero subito in marcia per Delhi, dove non si trovavano reggimenti inglesi. Delhi cadde immediatamente nelle loro mani; fu seguita da Cawnpore che cedette dopo tre settimane di difesa valorosa, e da Lucknow dove gli Inglesi conservarono solo la Residenza (nella cui difesa morì Sir Henry Lawrence). Fu in questa regione dell’alto Gange che la lotta si svolse e terminò nell’estate 1857 con la vittoria per opera dei soldati inglesi già presenti in India allo scoppio dell’ammutinamento e, non meno, di quelli indiani rimasti fedeli. Benché i rinforzi mandati dall’Inghilterra dovessero poi affrontare diversi mesi di lotta dura, era sostanzialmente giustificato il loro vanto : « Ci siamo riusciti ..da soli. » Le gesta di Nicholson, dei Lawrence, di Havelock, di Outram, di Colin Campbell e Hugh Rose e dei piccoli eserciti che questi uomini formarono e guidarono; la storia del Delhi Ridge — il sistema montano che costituisce la porta del Cashemir; l’episodio del soccorso alla Residenza di Lucknow e della riconquista della città: queste vicende e gesta riedificarono il prestigio britannico non solo in India ma anche in Europa dove la guerra di Crimea aveva rivelato che se le nostre truppe addestrate erano di primo ordine l’organizzazione del nostro esercito era disastrosa. Così fu possibile estinguere l’incendio nell’India centrale prima che si estendesse al resto della penisola. Gran parte del Bengala, le intere regioni di Madras e di Bombay e tutto il Nord-ovest erano rimasti fedeli; così i maggiori Stati indigeni come il Mysore e il Hyderabad. Un effetto dell’ammutinamento dei Sepoys fu di mettere un punto fermo al programma a cui si adoperava il troppo zelante governatore generale Lord Dalhousie, di assorbire nell’India amministrata dagli Inglesi anche i principati protetti dalla Corona. Lo scopo era di estendere anche a quei territori i benefici di un’amministrazione giusta; ma era stata l’annessione fatta da Dalhousie di Oudh, il punto di origine dell’ammutinamento, a provocarlo indirettamente. A partire dal 1857 quegli Stati retti da principi indigeni furono considerati i pilastri del dominio britannico; e che lo erano, è provato da molti fatti tra cui non ultime le complicazioni politiche nei primi lustri del Novecento, che nacquero tutte nella parte dell’India direttamente amministrata dagli Inglesi. Benché si trattasse di un ammutinamento di truppe e non di una rivolta civile, l’episodio del Bengala era effetto della oscura inquietudine della popolazione indiana allarmata dal passo a cui stava procedendo l’occidentalizzazione della penisola. I frutti visibili dello zelo con cui Dalhousie si applicava a modernizzare e disciplinare la vita indiana, cioè le ferrovie, il telegrafo, un sistema moderno nella pubblica amministrazione e in particolare nel campo sanitario, agli occhi di molti apparivano delle novità incomprensibili. Dopo l’ammutinamento il progresso continuò, naturalmente; e gli Indiani impararono ad accettarlo. A partire dal 1858, anno in cui la Corona britannica si sostituì completamente anche di nome come si era già sostituita di fatto alla Compagnia delle Indie, vi fu un lungo periodo di tranquillità e di buona amministrazione. Nel 1877 la regina Vittoria, per suggerimento di Disraeli; assunse il titolo di imperatrice dell’India. Restava nel fondo dell’animo sia dei dominatori sia dei loro soggetti il ricordo spettrale del sangue versato e dell’odio di razza che aveva momentaneamente imperversato. Ma per molti anni dopo l’ammutinamento l’amministrazione potè svolgere i suoi compiti senza venir disturbata. Ci si adoperò per combattere con mezzi razionali la carestia e le malattie. Non si era mai visto un così rapido progresso verso il benessere economico, nè un così rapido incremento demografico. Quella che venne compiuta in questo periodo fu un’opera notevolmente meritoria per il bene di milioni di individui inermi. Ma anche nel corso di questo felice periodo la burocrazia rivelò i difetti inevitabili sotto ogni governo autocratico. Conscia in modo troppo esclusivo dei buoni risultati già conseguiti, l’amministrazione trascurava di valutare i pericoli presenti nell’atmosfera politica. Forse il corso degli eventi sarebbe stato facilitato se dall’alto si fosse tesa una mano verso i movimenti nazionalisti che, in quel primo stadio, non erano antibritannici : come il Congresso nazionale indiano nel periodo fra il 1880 e il 1900. Invece, anche le critiche più moderate vennero spesso prese dagli Inglesi per tratti sediziosi, finché lo diventarono. Da tutt’e due le parti, negli ultimi decenni dell’Ottocento, si stava aggravando lo spirito razziale. Gli Inglesi in India ora costituivano una società più numerosa e più autonoma, e meno isolata dalla metropoli per effetto dei trasporti marittimi più rapidi. Per parte loro gli Indiani più evoluti cominciavano a prendere visione e coscienza del mondo geograficamente remoto da cui provenivano gli Inglesi e gli altri bianchi, e a capire che la supremazia dei bianchi era un fenomeno decifrabile in base a nozioni storiche e scientifiche, non un decreto celeste. Si familiarizzarono anche troppo con le idee politiche dell’Europa nazionalista e liberale, idee che nelle loro menti si mescolarono con la protesta, in nome della loro razza e della loro tradizione, contro le innovazioni portate dai loro padroni stranieri. Anche la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1904 venne ad influire sull’atteggiamento degli altri paesi asiatici di fronte al predominio dei bianchi. Nel secolo XIX gran parte degli Indiani istruiti assunsero un atteggiamento ostile e spesso sedizioso e disposto al delitto politico. E la propaganda antibritannica ad opera degli Indiani istruiti non mancò di raggiungere i suoi effetti sulla massa contadina incolta e naturalmente conservatrice. Così si aprì il periodo delle concessioni fatte dall’alto per prevenire o per moderare quelle correnti ostili. Nella questione della suddivisione del Bengala una decisione di ordine amministrativo presa da un grande viceré fu abbandonata pochi anni dopo per obbedire all’opinione pubblica. Nel 1909 l’India Councils Act, elaborato in collaborazione da Lord Minto a Calcutta e da John Morley a Londra, ampliò i Consigli legislativi inserendovi un numero considerevole di membri eletti con poteri di controllo sulle attività del governo. Nel 1911 Giorgio V re d’Inghilterra e imperatore dell’India tenne una grande durbar a Delhi, la nuova capitale. Era il primo sovrano regnante inglese a visitare l’India. La guerra del 1914-18, che affrettò enormemente l’evoluzione dei Dominions verso l’autogoverno, svegliò negli Indiani l’esigenza di vedere il loro paese allineato coi Dominions. Essi ritennero che la Gran Bretagna non poteva continuare a negar loro quel diritto di autodeterminazione per il quale professava di essere scesa in campo in Europa. Nel 1917 il governo britannico dichiarò che il suo proposito era di portare l’India per gradi all’autogoverno nel sistema generale dell’Impero (1919-39). A tale importante decisione si rifaceva quel Government of India Act del 1919 in cui vennero tradotti i principi già delineati nella relazione Montagu-Chelmsford sulle riforme alla costituzione indiana. Questo atto dava alla legislatura delle province una parte delle responsabilità dell’esecutivo; però il governo centrale restava unico responsabile di fronte al governo imperiale e al Parlamento, e ciò in parte perché non si riteneva di poter affidare dei settori come la Difesa e gli Affari esteri a una legislatura ancora inesperta e che rappresentava un elettorato in gran misura ancora analfabeta, in parte perché il governo centrale non aveva solo la responsabilità dell’India britannica vera e propria ma anche quella dei Principati, i Native States. In diverse province il nuovo sistema si smontò subito perché i nazionalisti non accettavano una soluzione che desse all’India meno della totale autonomia. Il malcontento si manifestò con scioperi di notevole estensione, episodi rivoluzionari, il boicottaggio delle merci inglesi e la campagna di « disobbedienza civile » proclamata da Ghandi. Nel 1930 il rapporto della Commissione Simon propose che si desse, non senza alcune salvaguardie, la piena responsabilità di governo alle province e definì inattuabile l’idea di darla anche al governo centrale. Ma quando un certo numero di principi indiani si dichiararono pronti a entrare a far parte di una Federazione panindiana purché questa avesse piena responsabilità di governo, nel 1931, il governo di Ramsay Macdonald si dichiarò disposto a sua volta ad attuare il principio di un esecutivo federale che fosse responsabile dei suoi atti di fronte a una legislatura federale. Dopo avere a lungo sondato l’opinione pubblica indigena si finì per emanare nel 1935 un nuovo Government of India Act che prevedeva la creazione di una federazione panindiana formata da undici province anglo-indiane e da quelli tra i principati che fossero disposti ad entrarvi. Sia il governo federale che i governi provinciali dovevano rispondere dei loro atti alle loro rispettive legislature, in tutti i settori salvo la Difesa e gli Esteri. Così, a partire dal 1937, le province indiane ebbero la loro autonomia. Ma non si era ancora istituito un governo centrale responsabile, e l’idea di una federazione panindiana non aveva ancora preso corpo, quando lo scoppio della guerra fra la Gran Bretagna e la Germania nel settembre 1939 arrestò temporaneamente quel processo. Il progetto della federazione indiana era avversato da tutti quei gruppi la cui cooperazione era indispensabile alla sua realizzazione. I principi, temendo di dover poi far fronte a una predominanza delle regioni angloindiane, erano restii ad impegnarsi; la Lega musulmana temeva che l’autogoverno volesse dire il passaggio del potere dagli Inglesi agli Indù. Tutti gli elementi e gli organi rappresentativi erano desiderosi di collaborare con l’Inghilterra nel suo sforzo bellico, ma il Congresso indiano esigeva dal governo britannico un preciso impegno a dare all’India la piena figura di Dominion a guerra finita. Tale impegno non poteva essere sottoscritto finché mancava il consenso dei principi, delle comunità musulmane e delle altre minoranze di cui bisognava pure salvaguardare gli interessi individuali. Il Congresso allora invitò gli otto ministri del Congresso nelle province a dimettersi; venuto meno quindi un governo responsabile, i governatori furono costretti a istituire delle amministrazioni di emergenza. I dissensi interni insomma minacciavano di ritardare il progresso dell’India verso l’indipendenza e, frattanto, di continuare ad avvelenare i rapporti fra Indù e Musulmani. Ma finalmente fra il 1947 e il 1950 l’India raggiunse il pieno autogoverno in due enti separati, la Repubblica Indiana degli Indù e il Dominion musulmano del Pakistan. Era finita la signoria britannica. Ma il trapasso si era compiuto in un tono di piena amicizia fra gli Inglesi e gli Indiani. L’India non è più comandata dagli Inglesi, ma gli Inglesi possono andare orgogliosi del modo in cui esercitarono il loro controllo su quella vasta porzione dell’Asia; di come seppero sostituire la Pax Britannica a una situazione di caos e di violenza; del secolo e mezzo in cui i governanti dell’India ebbero come prima preoccupazione il benessere dei governati; e del fatto che, appena i tempi sono stati maturi, gli Indiani proprio in virtù della lunga presenza britannica in India si sono rivelati capaci di tenere le redini del loro paese. NOTE 1 V. pp. 668-669. 2 V. pp. 502-503 e 673-674. 3 V. pp. 673-674. 4 Le proposte contenute nel Durham’s Report furono realizzate nel 1840 per merito di Lord John Russell; ma Durham era stato richiamato bruscamente l’anno prima da Lord Melbourne a causa degli intrighi di Brougham naturalmente favoriti dagli altri membri conservatori della Camera dei Pari. La versione data da Brougham alla missione canadese di Durham e la sua affermazione menzognera che Durham non aveva scritto una riga del rapporto che va sotto il suo nome, si leggono ancora nel Dictionary of National Biography, e spero che non vi resteranno in eterno. 5 V. nota 3 a p. 681. 6 I Boeri del Transvaal, che avevano subito passivamente l’annessione nel 1877, tre anni dopo mentre gli Inglesi erano impegnati nella guerra con gli Zulu si ribellarono sotto la guida di Paul Kruger, M. W. Pretorius e P. J. Joubert; e il 26 febbraio 1881 batterono duramente a Majuba i 600 Inglesi di Sir George Pomeroy Colley. In seguito a ciò il Transvaal riacquistò in buona misura la sua autonomia. (n.d.t.) 7 V. nota 6 a p. 405. 8 S. Jameson (poi Sir Leander Starr) nel 1895 preparò in collaborazione con Rhodes, di cui era un uomo fido, un colpo di mano che, accompagnato da un’insurrezione, doveva liquidare la Repubblica Sudafricana di Kruger. Il corpo di spedizione forte di 600 uomini, partito da Mafeking il 31 dicembre 1895, fallì subito l’azione; e Jameson, catturato e poi consegnato agli Inglesi, fu processato e condannato a Londra l’anno dopo. (n.d.t.) 9 Richard Colley Wesley 3° barone Wellesley, 2° conte di Mornington, marchese nel Peerage d’Irlanda (1760-1842), fratello maggiore di Arthur Wesley (o Wellesley) futuro Duca di Wellington, entrò a far parte della commissione di controllo sugli affari indiani nel 1793; nel ’97 diventò governatore generale dell’India; entrò in carica l’anno dopo e vi rimase fino al 1805. (n.d.t.) 10 V. pp. 676-678. 11 I Thug, una setta originariamente maomettana passata al culto della dea Kali, erano o pretendevano di essere tenuti dalla loro religione a strangolare ritualmente dei viandanti. Praticamente scomparsi alla metà dell’Ottocento, il loro nome è diventato un nome comune nel vocabolario inglese col significato di «malandrino», «teppista», (n.d.t.). 12 Thomas Babington Macaulay (1800-59) nominato nel Consiglio per l’India vi si recò nel 1834 e vi rimase quattro anni (nell’anno successivo al suo rientro in Inghilterra diventò ministro della Guerra nel Gabinetto Melbourne). Già approfondito nelle questioni indiane, durante quel quadriennio svolse un’attività notevole diretta soprattutto a dare un’impostazione liberale al governo della Corona che aveva appena ereditato l’India dalla Compagnia delle Indie Orientali. Difese il principio della parità dei diritti fra indigeni ed europei, e la libertà di stampa. Compose il primo progetto di codice penale per l’India. Tra le opere biografiche di questo grande storico, forse le più popolari sono le biografie (pubblicate sotto la forma o col pretesto della recensione di due studi, rispettivamente del Maggior Generale J. Malcolm e del Rev. G.R. Gleig) di Lord Clive e di Warren Hastings che insieme formano un disegno storico abbastanza completo della conquista inglese dell’India. M. era uno zio paterno della madre di G.M. Trevelyan. (n.d.t.) 13 Erano chiamati così i soldati indiani o delle regioni vicine impiegati in India (quelli di pelle bianca venivano chiamati gora). La parola derivata dal persiano sipahi, soldati, era già in uso prima dell’arrivo degli Inglesi e probabilmente era stata introdotta in India dai Portoghesi. (n.d.t.) BIBLIOGRAFIA EGERTON, Short History of British Colonial Policy; W. A. DUNNING, The British Empire and the United States; E. P. ADAMS, Great Britain and the American Civil War (2 voll.); STUART REID, Life of Lord Durham (2 voll.); W. H. MORELAND e ATUL CHANDRA CHATTERJEE, A Short History of India, 1936; LYALL, British Dominion in India; CHIROL, India; BASIL WILLIAMS, Cecil Rhodes; RAMSAY MUIR, Short History of the Commonwealth, vol. II; THEAL, South Africa (5 voll.); PEMBER REEVES, The Long White Cloud (Nuova Zelanda). Per LUCAS e WYATT TILBY v. bibliografia a p. 681.