Corriere della Sera 10/4/2012, 10 aprile 2012
Articoli su Miriam Mafai dal Corriere QUELLA SUA RISATA CHE ESORCIZZAVA IL PESO DEL PASSATO– Miriam Mafai è stata un pezzo della vita mia e della mia famiglia
Articoli su Miriam Mafai dal Corriere QUELLA SUA RISATA CHE ESORCIZZAVA IL PESO DEL PASSATO– Miriam Mafai è stata un pezzo della vita mia e della mia famiglia. I ricordi sono centomila. Ma la prima cosa che mi viene in mente, per me la più importante, è la risata, sempre la stessa da quando, ragazzo, la ho conosciuta: alta, vitalissima, incontenibile, la risata di chi ha attraversato, e raccontato, grandezze e miserie, passioni brucianti e delusioni più brucianti ancora di un secolo, quasi senza smarrire un’ oncia della sua umanità, della sua ironia, del suo desiderio di capire. Un desiderio di capire e di conoscere che non l’ ha lasciata mai, nemmeno in questi ultimi mesi, perché, come le dicevo prendendola in giro, era curiosa come una scimmia. Voleva sapere tutto, per dire, dei ragazzi alle prese con il lavoro che non c’ è, ma pure dei retroscena e dei pettegolezzi di un potere che, nella sua fattispecie comunista e non solo, aveva frequentato e narrato da vicino: è stata fino all’ ultimo una giornalista e, come è giusto che sia, un po’ le mancavano. Mi mancherà terribilmente, la risata di Miriam. E mi mancheranno le nostre discussioni sulle cose di oggi e sulle cose di ieri, le nostre telefonate, le nostre interminabili chiacchiere toscane, un po’ sulle amicizie e le inimicizie comuni, un po’ sui giornali e sui giornalisti, molto sulla politica e su questo Paese. A due metri da dove ora sto scrivendo di lei, seduti su due seggiolette sotto un albero, per alcune ore, parecchi anni fa, discutemmo tra il serio e il faceto (insisto: Miriam era donna di grande ironia e autoironia, anche dei suoi tormenti parlava in modo quasi beffardo) di un passato prossimo con cui, in forme diverse, avevamo avuto parecchio a che a fare. Alla fine mi disse che la nostra conversazione le sarebbe stata molto utile per scrivere un libro. Nacque (anche) così il suo pamphlet politico forse più noto, Dimenticare Berlinguer (Donzelli). Proprio come il suo compagno Giancarlo Pajetta, Miriam Mafai, Berlinguer, soprattutto il Berlinguer degli ultimi anni, non lo aveva mai apprezzato troppo. Credo anche, però, che scrivere quel libro, e scriverlo negli anni Novanta, esponendosi coscientemente a tutte le reazioni polemiche che avrebbe provocato, non le sia stato davvero facile. Che l’ Italia e il mondo stessero cambiando profondamente non le dispiaceva affatto, a modo suo, facendomi arrabbiare, fu persino «nuovista», per inclinazione e perché lo aveva imparato da ragazza nel Pci, che bisogna star dentro ai cambiamenti che percorrono per «mille rivoli» la società. Ma sentiva anche la necessità di tirare qualche somma, di provarsi a restituire un senso alla storia di tante italiane (quella delle donne l’ ha narrata come nessun altra) e di tanti italiani. Pure in questo, anche se rifiutava di ammetterlo, ha fatto in tempo a disilludersi. Ma nel suo lavoro, come nei suoi affetti, è rimasta sin quando ha materialmente potuto sul pezzo. Alla fine se ne è andata come voleva, consapevolmente e (se è consentito) laicamente. Anche di questo, come della tua risata e di molto altro ancora, ti sono grato, Miriam. Franchi Paolo, Corriere della Sera 10/4/2012 *** MIRIAM MAFAI, MILITANTE LIBERA M iriam Mafai era una donna molto libera ed era una donna molto militante. Spesso le due cose non combaciano. Ma in Miriam Mafai coincidevano con una franchezza di stile ed una trascinante simpatia umana davvero rare. Il giornalismo politico dell’ Italia repubblicana perde con lei una figura centrale. E mancheranno le sue doti di ipercritica, sarcastica, pungente militante della sinistra italiana. Figlia di Mario Mafai e di Antonietta Raphaël, Miriam Mafai scelse la militanza comunista giovanissima. Per una giovane donna non era facile consacrarsi alla vita della politica. Non era facile in assoluto per le donne. Non era facile nei partiti italiani i quali, anche se orientato verso una visione progressista del mondo, erano intrisi di ritualità maschilista. Non era facile nell’ Italia degli anni Quaranta descritti da Mafai in un libro dal ritmo narrativo elettrizzante come Pane nero. Non era facile essere comunista e apprezzare le letture «borghesi». Respirata l’ aria della cultura artistica familiare, Miriam Mafai non permise mai che un’ aperta, orgogliosamente rivendicata faziosità politica diventasse rozzezza legnosa, dogmatismo funebre. Con il giornalismo (e anche con la direzione di «Noi donne») la curiosità verso le cose impedì che Miriam Mafai prendesse i tic del dirigente di partito. Era certo un autorevole dirigente di partito il Giancarlo Pajetta con cui la Mafai intrecciò dal 1962 una lunga storia d’ amore. Ma il Pajetta sempre pronto a sacrificarsi per la ragion di partito era anche un uomo dalla vitalità esplosiva, un uomo che non sapeva rinunciare alla battuta feroce, un ragazzo integralmente «rosso» che coltivava però per vie tortuose un gusto per la provocazione intellettuale tonificante. Miriam Mafai ne fu conquistata. Ma mai, anche negli anni in cui il femminismo storico non era nemmeno concepibile, Mafai avrebbe sacrificato, in nome della coppia e della «coniugalità», un briciolo della sua indipendenza di giornalista, di militante che voleva ostinatamente ragionare con la propria testa. Ciò che lei scriveva negli anni ruggenti per «Paese Sera» e poi per «la Repubblica» erano inchieste, commenti, reportages che dovevano esser letti per la chiarezza del linguaggio, l’ intelligenza dell’ analisi, l’ assenza di schematismo nelle conclusioni. Non erano scritti per il partito o i suoi militanti, ma per raggiungere una platea più vasta, più variegata, più curiosa. Miriam Mafai, donna curiosissima, sapeva come stuzzicare la curiosità del lettore. Quando finì il Partito comunista e quando, fatale coincidenza cronologica, se ne andò Pajetta, cominciò per Miriam Mafai una vita in cui la scelta politica non richiedesse vincoli di disciplina o argini ad un’ intelligenza esuberante. Per lei Botteghe Oscure, addio non era solo il titolo di un libro molto fortunato, ma la testimonianza di una frattura, anche personale, con il «mondo di ieri» spazzato via dal crollo del Muro di Berlino e dalla bandiera rossa ammainata sul Cremlino. Divenne deputata «indipendente» dell’ Ulivo, o come diavolo si sarebbe chiamato il centrosinistra che per lei avrebbe dovuto diventare la sua nuova casa politica. Non era dogmatica, non era nostalgica. Era la prima ad ammettere che in passato la sinistra comunista di cui lei era stata fervente militante aveva troppo a lungo sottovalutato gli errori e anche gli orrori che ne avevano costellato la storia. Non divenne mai un’ ex, anzi, esibiva con fierezza i segni culturali del suo passato e della generazione battagliera di cui aveva fatto parte, ma non esitò a scrivere un Dimenticare Berlinguer che era una disamina spietata della sinistra attuale, incapace di liberarsi degli spettri del passato. Miriam Mafai era una donna colta e spiritosa. Anche quando raccontava episodi tragici della sua storia e della sua militanza, prima o poi l’ arguzia di un’ osservazione, lo spirito di una battuta avrebbero scatenato quella risata contagiosa che resta un tratto indimenticabile della personalità di Miriam Mafai. In un’ intervista recentissima a Stefano Di Michele aveva detto: «Io sento la mancanza di una sinistra, ma non c’ è un partito di sinistra in cui mi riconosca». Lo diceva con malinconia, ma senza la cupezza disperata che spesso afferra i militanti delusi. Lo diceva con lo spirito critico di cui Miriam Mafai abbondava. E che oggi, scomparsa lei, scarseggia ancor di più. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Dall’ impegno alla saggistica La biografia È scomparsa ieri a Roma all’ età di 86 anni Maria Mafai, nota come Miriam Mafai. Partigiana e poi militante del Partito comunista, era stata a lungo la compagna di Giancarlo Pajetta. Giornalista e scrittrice, era stata tra i fondatori de «la Repubblica» nel 1976. A partire dagli anni Ottanta aveva scritto diversi saggi, tra cui: L’ uomo che sognava la lotta armata (Rizzoli, 1984), Il lungo freddo (Mondadori, 1992) Botteghe oscure, addio (Mondadori, 1996) Battista Pierluigi, Corriere della Sera 10/4/2012