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 2012  aprile 18 Mercoledì calendario

Un secolo di storia delle agenzie di rating da quando il signor Moody diede il voto alle obbligazioni ferroviarie

Un secolo di storia delle agenzie di rating da quando il signor Moody diede il voto alle obbligazioni ferroviarie. E un potere spaventoso usato male. Con conflitti d’interesse solari. Quasi nessuno si fida più di loro, ma hanno ancora molte armi per difendersi. Tanto che quasi tutte le inchieste che le riguardano, anche se promosse dalla Casa Bianca, si sono miseramente arenate NEW YORK - Che fine ha fatto l’inchiesta sul "falso downgrading" della Francia, una notizia errata, misteriosamente uscita dalla Standard & Poor’s, suscitando oscillazioni isteriche sui mercati? Chi ha guadagnato e chi ha perso dalle agitazioni speculative che nel novembre 2011 seguirono quell’infortunio - o presunto tale - della più grande agenzia di rating mondiale? Perché S&P non ha dovuto pagare indennizzi e risarcimenti? E quale spiegazione per un "errore" che dovrebbe essere impossibile? Qualche volta sono le "non notizie", quelle che dovrebbero interessarci di più, forse allarmarci. Le tempeste in corso sono ben visibili, monopolizzano la nostra attenzione. Dovremmo preoccuparci per i problemi irrisolti che sono diventati invisibili, scomparsi dagli schermi radar. Uno di questi riguarda l’immenso potere delle agenzie di rating, la loro responsabilità cruciale nello scatenare la crisi del 2008, il ruolo nefasto svolto in tempi assai più recenti nelle vicende dei debiti sovrani, e il coacervo di conflitti d’interessi in cui si muovono queste superpotenze della finanza. Sulle agenzie di rating si sta svolgendo una battaglia spesso nascosta, di cui i cittadini sono all’oscuro, nonostante che dall’esito di questa battaglia possa dipendere la stabilità dei loro risparmi, e perfino il "segno" sociale della politica economica di tanti governi. Riaccendere un faro su S&P, Moody’s e Fitch è essenziale anche quando i Padroni dei rating non fanno notizia. Anzi, soprattutto quando non fanno notizia: perché è in questo momenti di bonaccia che si fanno e si disfano giochi decisivi, sulle regole del futuro. Storia e cause di un potere. La loro storia accompagna fin dalla nascita lo sviluppo del capitalismo moderno. E’ nel 1909 che il signor John Moody divenne il primo analista finanziario ad assegnare voti alle obbligazioni emesse da una categoria di imprese, le compagnie ferroviarie degli Stati Uniti. Nei decenni successivi la pratica si diffuse, allargandosi a dismisura in parallelo con la crescita e la complessità dei mercati finanziari. Crac finanziari, scandali, insolvenze, consigliarono di rendere addirittura obbligatorio il rating per alcune categorie di investitori. Fino alla situazione odierna in cui il "triopolio" S&P, Moody’s e Fitch dà i voti ad ogni sorta di emittenti dei titoli che vengono collocati sui mercati finanziari: buoni del Tesoro, obbligazioni emesse da banche e aziende industriali. Incollando delle sigle fatte di combinazioni di lettere (A, B, Aaa, ecc.) e di segni aritmetici (più, meno) ai debitori che emettono titoli, le agenzie pubblicano pagelle il cui impatto è cruciale. Tutti gli investitori del mondo si fanno in qualche modo guidare da quei voti, prima di decidere se comprare titoli e quale rendimento pretendere in cambio del rischio che si assumono. Certi investitori istituzionali americani - come i fondi pensione e le compagnie assicurative che emettono polizze sulla vita - hanno per legge o per statuto sociale il divieto di acquistare titoli al di sotto di un certo "voto". Questo dà la misura dell’influenza delle pagelle. Quando di volta in volta i declassamenti hanno colpito Grecia, Portogallo, quegli Stati hanno subito la fuga di grandi investitori del mondo intero, rifinanziare il loro debito pubblico è diventato di colpo ancora più costoso, fino al default nel caso greco. Il megaconflitto d’interessi. Per il loro ruolo nefasto nella crisi dei mutui subprime le agenzie di rating sono finite nel mirino: inaffidabili, talvolta perfino disoneste. Fino al 2006 - l’ultimo anno dell’Età dell’Oro o presunta tale - S&P e le sorelle Moody’s e Fitch regalavano la "tripla A" con generosità. Il voto di massima solvibilità ce l’avevano perfino certi prodotti "strutturati", i famigerati titoli della "finanza tossica", con dentro crediti legati ai mutui subprime che si sarebbero rivelati inesigibili. Bastava pagare. Nel settore privato, le agenzie non lavorano gratis, il rating se lo fanno remunerare dalle stesse società emittenti di titoli. Questo non vale per la maggioranza dei debiti sovrani, dove non si verifica il conflitto d’interessi: forse, se Roma e Parigi pagassero per le loro pagelle finanziarie, avrebbero più voce in capitolo sui voti... Ma quando Mario Draghi cerca di sdrammatizzare i declassamenti, affermando che "non bisogna sovrastimare i cambiamenti dei rating", lo fa perché le parole di un banchiere centrale devono sempre scongiurare il panico. Nella realtà, la Bce si comporta diversamente. Basta consultare il suo manuale sull’"Attuazione della politica monetaria nell’eurozona", pagina 72 e successive, dove si spiega come la Bce valuta i titoli che le banche di deposito possono darle in garanzia, come "collaterale", per beneficiare degli aiuti di Francoforte. In quelle tabelle è scritto che il valore dei titoli è legato al rating. Indagini che scompaiono. Tornando alla crisi dei mutui subprime, che fine ha fatto l’indagine del Department of Justice sui rating di Standard & Poor’s, che doveva far luce su una serie di "rating impropri" assegnati ai bond legati a mutui immobiliari? L’ultima volta che questo "mostro di Loch Ness" apparve alla superficie fu nel Ferragosto dell’anno scorso. Poi: silenzio. Eppure si tratta di un’inchiesta importante, che ha avuto l’avallo della Casa Bianca: il Department of Justice agisce come pubblico ministero, ma dietro preciso mandato dell’esecutivo. La scelta dell’Amministrazione Obama è stata di perseguire un’inchiesta solo civile, non penale. Ma questa di per sé non è una debolezza. Altri procedimenti civili legati agli scandali dei mutui subprime sono già arrivati al termine, con patteggiamenti e multe di migliaia di dollari: tutte le grandi banche americane hanno pagato, perfino la potente Goldman Sachs oltre a JP Morgan, Citigroup, Bank of America. Le agenzie di rating? Niente. Eppure i procuratori federali hanno avanzato accuse pesanti: per esempio, quella secondo cui in passato certi analisti di S&P volevano assegnare dei voti bassi ad alcuni titoli della finanza tossica, ma i loro pareri furono ignorati per l’intervento di dirigenti superiori: nell’interesse del business. E chi ha visto l’altra indagine, sempre su S&P, che avrebbe dovuto spiegarci il misterioso e incredibile "incidente" sul "falso declassamento" della Francia? Era l’inizio di novembre 2011 quando dal quartier generale della più grande agenzia di rating americana partì una email che annunciava l’imminente downgrading del debito pubblico francese. I mercati reagirono, il nervosismo salì alle stelle, finché si scoprì che era tutto falso. Oops, scusateci, dissero quelli della S&P: come non detto. Tutto qua? Vi risulta che qualcuno abbia pagato per quell’errore macroscopico? L’avvio dell’inchiesta occupò l’attenzione dei media americani ed europei per qualche giorno fino a metà novembre, poi la creatura del Loch Ness è scomparsa negli abissi e non è stata più avvistata da allora. La requisitoria della Sec. A settembre qui negli Stati Uniti la Securities and Exchange Commission (Sec) aveva pubblicato un rapporto duro con le agenzie di rating. L’organo di vigilanza sulla Borsa, che in base alla nuova legge Dodd-Frank ha competenza anche sulle agenzie di rating, è tenuto per legge a relazionare il Congresso di Washington una volta all’anno sul funzionamento dei rating. Il quadro fornito nell’ultimo rapporto è terribile. Ecco alcune delle "piacevolezze" elencate nella relazione annua della Sec. In una delle maggiori agenzie di rating, a dare le pagelle sulla solvibilità di una società era un analista che era al tempo stesso azionista della società stessa: alla faccia del conflitto d’interessi. Un’altra agenzia di rating diede in anteprima ad "amici intimi" le anticipazioni su un imminente cambio dei suoi voti: insider trading. Una terza è stata colta in fallo perché i suoi rating venivano assegnati senza seguire le regole che lei stessa si era data. Accuse pesanti, ma con quali conseguenze? Nessuna, almeno finora. La stessa Sec aveva "depotenziato" in anticipo il suo rapporto al Congresso, decidendo di "secretare" nomi e cognomi. C’era il peccato ma non il peccatore: anonimato assoluto, i fattacci raccontati in quel rapporto non venivano legati esplicitamente a Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch o qualche altra agenzia (le tre che ho nominato sono le più grandi, insieme controllano il 95% del mercato). La giustificazione addotta dal capo della vigilanza Sec, l’italo-americano Carlo di Florio, è la seguente: "Non facciamo nomi perché pensiamo sia più efficace lavorare con ciascuna delle agenzie di rating affinché diano un seguito alle nostre scoperte e alle nostre raccomandazioni". Curiosa giustificazione, che usa un riguardo insolito nei confronti dei colpevoli, e nessun riguardo verso le vittime: forse i clienti delle agenzie di rating avrebbero il diritto di sapere qualcosa sugli errori madornali commessi. Nel frattempo, anche in Europa i buoni propositi per regolare i Signori dei Rating stanno arretrando paurosamente. Il commissario europeo al mercato interno Michel Barnier, responsabile di questa direttiva, incassa una sconfitta dopo l’altra: da ultimo ha dovuto rinunciare a imporre una rotazione fra agenzie, una regola che avrebbe dovuto aumentare un po’ la concorrenza. Non è chiaro se nella versione finale della direttiva europea resterà il principio di responsabilità, importantissimo per poter far pagare multe e risarcimenti ai Padroni dei rating in caso di errore. Tutte insieme queste notizie lasciano una sgradevole impressione. Retromarcia di Obama? Nella legge Dodd-Frank, così chiamata per il nome dei due principali firmatari ma fortissimamente voluta dallo stesso Barack Obama, all’inizio doveva esserci anche un giro di vite sulle agenzie di rating, ma al termine dell’iter legislativo quella parte era sparita come per incanto. E tuttavia era solo un rinvio, nel regolamento dei conti. Che l’influenza delle agenzie di rating fosse in declino, non era evidente perché l’esplodere della crisi dei debiti sovrani sembrava regalare al "triopolio" una visibilità e un potere perfino maggiore. Ricordiamo cos’è accaduto nella notte fra il 5 e il 6 agosto 2011, quando è stato annunciato il clamoroso downgrading degli Stati Uniti d’America. In apparenza, l’apogeo del potere dei Signori del rating. L’America umiliata e offesa. Il mondo che s’interroga sulle conseguenze. La Cina che chiede garanzie con toni minacciosi. Uno shock globale, uno schiaffo senza precedenti per la più grande economia mondiale. Le ripercussioni politiche: la destra americana che parla di "declassamento di Barack Obama", interpreta la perdita della "tripla A" sui titoli di Stato come un verdetto sul presidente e sul bilancio del suo governo. "Va licenziato subito il segretario al Tesoro Tim Geithner": all’unisono questa richiesta è lanciata dai maggiori candidati repubblicani alla nomination per le presidenziali del 2012. Dal Tesoro Usa esce una reazione ufficiale molto stizzita. Tim Geithner accusa S&P di macroscopiche inesattezze nei suoi conti: "Un giudizio fondato su errori di calcolo dell’ordine di 2.000 miliardi di dollari si commenta da solo". Tuttavia una lettura attenta del documento di S&P che motiva il downgrading rivela singolari analogie con quanto poi la stessa agenzia scriverà a proposito di altre nazioni. Frasi sulla "inefficienza della risposta istituzionale al deficit pubblico", che compaiono nel rapporto S&P, lasciano capire che non è in discussione la capacità dell’America di ripagare i suoi debiti. Il giudizio è politico, Obama e l’agenzia di rating sono d’accordo che qualcosa si è rotto nel dialogo bipartisan. In passato, dalle situazioni di stallo fra un presidente e un Congresso di opposte tendenze, l’America usciva con compromessi e convergenze di segno moderato. Nello psicodramma dell’agosto 2011 sul debito invece si è verificata una situazione inedita: un pezzo del partito repubblicano, legato al movimento anti-Stato del Tea Party, avrebbe preferito senz’altro il default a qualsiasi concessione. Problema politico, dunque, non economico e neppure finanziario. Ma allora a che serve il rating, se è il riassunto di un’analisi politica su problemi di lungo termine, mentre non ci dà informazioni utili sulla reale solvibilità? Ecco, quel che accade nei mesi successivi è il vero inizio di un ridimensionamento nell’importanza dei rating. All’esplosione della crisi dell’eurozona nell’ultima parte del 2011, i Treasury bond Usa diventano il bene-rifugio per eccellenza, gli investitori ne fanno incetta, il loro valore sale. Alla faccia del downgrading! Chi si ricorda più quel clima da Apocalisse del 6 agosto? La punizione è solo rinviata? Nel frattempo una riforma almeno altrettanto punitiva sta passando negli Stati Uniti. Stavolta avviene alla chetichella, senza grandi dibattiti politici. Di fatto in sede di attuazione della legge Dodd-Frank, gli organi di vigilanza stanno "ripescando" alcuni dei progetti più audaci, che vengono reintrodotti all’interno dei regolamenti attuativi di quella legge. Così è accaduto che la Federal Deposit Insurance Corp., cioè l’ente pubblico che assicura i depositi e conti correnti (e come tale esercita anche alcuni dei poteri della vigilanza bancaria) ha stabilito che le banche maggiori devono smettere di usare i rating per valutare la rischiosità dei loro asset. Infilata dentro un regolamento attuativo, quasi di nascosto, questa è una regola rivoluzionaria. Cancella 70 anni di storia del capitalismo finanziario americano, durante i quali il ruolo dei rating si era allargato e consolidato a dismisura. L’uso dei rating era diventato obbligatorio per molti investitori istituzionali, per esempio i fondi pensione che spesso possono avere in portafoglio solo dei titoli con la tripla A. Ebbene, la Fdic adesso ha stabilito l’esatto contrario: i rating sono inaffidabili - dopo il disastro colposo o doloso dei mutui subprime - a tal punto che l’authority non vuole più siano usati: le grandi banche devono utilizzare metodi più seri e rigorosi per valutare la rischiosità dei loro asset. Questa nuova regola si applica alle 30 maggiori banche americane, quelle che hanno almeno un miliardo di dollari di attivi in bilancio. Fa parte delle norme varate per migliorare la difesa del sistema finanziario mondiale, contro il rischio sistemico. Per molti aspetti, l’editto della Fdic è l’equivalente di una condanna a morte per le agenzie di rating. Purché regga di qui al 6 novembre, data dell’elezione presidenziale, e non sia stravolto o svuotato in silenzio, sotto pressioni delle lobby in una fase in cui il loro potere è quello di staccare assegni per i candidati.