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 2012  luglio 07 Sabato calendario

ANCHE LA CINA SI SCOPRE VULNERABILE

Il secondo taglio del costo del denaro nel giro di un mese deciso giovedì sera dalla People’s Bank of China non è piaciuto ai mercati. Né a quelli asiatici, che ieri hanno chiuso l’ultima seduta della settimana generalmente in ribasso. E neppure a quelli europei e americani che, nel prosieguo della giornata, hanno risentito del malessere delle Borse d’Oriente.
Perché? «Perché una simile aggressività da parte della Banca centrale cinese autorizza gli investitori a pensare due cose: che i dati macroeconomici di giugno sono peggiori del previsto; e che la prima riduzione del costo del denaro decisa esattamente un mese fa non è servita a stimolare la congiuntura», risponde un operatore finanziario di Shanghai. Sono due scenari per niente confortanti.
Il primo. Tutti si aspettavano che, nel secondo trimestre 2012, la congiuntura cinese continuasse a battere in testa. In molti ipotizzavano addirittura che, tra aprile e giugno, l’economia del Dragone dovesse toccare il fondo per poi riprendersi leggermente nella seconda parte dell’anno.
Ma la mossa a sorpresa della Pboc ha cambiato improvvisamente la prospettiva. Se la Banca centrale ha deciso di ridurre nuovamente il costo del denaro, senza neanche tentare di giocarsi la carta della riserva obbligatoria, ciò potrebbe significare che a giugno l’economia cinese, anziché iniziare a stabilizzarsi, si è deteriorata ulteriormente. La settimana prossima, quando Pechino annuncerà i dati macroeconomici e il prodotto interno lordo del secondo trimestre 2012, il quadro sarà più chiaro (gli analisti prevedono una crescita trimestrale intorno al 7,6%).
Il secondo. La stretta sequenza dei due tagli del costo del denaro è la risposta di Pechino sul fronte monetario a due seri problemi emersi negli ultimi mesi: la scarsa espansione del credito e la stagnazione degli investimenti.
Secondo quanto riportato dalla stampa domestica, a giugno le quattro grandi banche cinesi hanno erogato prestiti per un totale di 188 miliardi di yuan, ben 60 miliardi in meno rispetto a maggio quando l’attività creditizia aveva già rallentato il passo.
Intanto, nonostante i nuovi progetti infrastrutturali approvati di recente dal Consiglio di Stato con l’obiettivo di stimolare la crescita, l’indice Pmi sembra indicare che, in questa fase di profonda incertezza pesantemente condizionata dalla crisi dell’Eurozona e dai suoi potenziali effetti sulle esportazioni di prodotti made in China, l’economia reale ha poca voglia di investire.
«La Cina è caduta in una sorta di trappola della liquidità, per cui anche ulteriori tagli dei tassi d’interesse farebbero fatica a stimolare l’attività economica - avverte Dong Tao, economista di Credit Suisse - Oggi le imprese private non investono non perché il costo del denaro sia troppo alto, ma perché ritengono che con queste condizioni di business non sia conveniente».
Le ragioni di questa minor propensione a spendere sono molteplici: l’aumento dei costi generali, la diminuzione dei ritorni sugli investimenti, la sovracapacità di molti settori manifatturieri, lo scoppio della bolla immobiliare, la paralisi della domanda mondiale. E ancora: la pesante eredità debitoria lasciata su banche, imprese, amministrazioni locali e pubblico erario dalla montagna d’investimenti sbagliati realizzati dal pubblico e dal privato negli ultimi due decenni.
Insomma, oggi la situazione sembra radicalmente diversa dal terribile biennio 2008-2009, quando Pechino con una classica doppia manovra di espansione fiscale e monetaria superò di slancio la crisi finanziaria globale. Per stimolare la crescita il Governo cinese dovrebbe osare di più, molto di più. Per esempio, varando una serie di riforme per rompere il monopolio delle grandi aziende di Stato, soprattutto nel settore dei servizi. Solo così si potrebbero liberare risorse fresche a favore dell’impresa privata.
Ma questa è una scelta politica di grande portata che oggi, a pochi mesi della grande transizione di potere del prossimo autunno, nessuno a Pechino è in grado di fare.