Angela Vettese, Il Sole 24 Ore 8/7/2012, 8 luglio 2012
COM’È L’ARTE MOLTIPLICATA? IRRIPETIBILE - C’è
stato un tempo nel quale si è immaginato che l’arte, sulla scorta di quanto accadeva all’oggetto industriale, potesse essere moltiplicata e riprodotta. Qualcuno vide questa possibilità come la fine della sua aura e del suo stesso ruolo. Qualcun altro invece si entusiasmò per i risvolti utopici, antiborghesi e inclini al coinvolgimento del pubblico che recava in sé tale ipotesi. Citare Walter Benjamin è ovvio, ma anche Coco Chanel, con il suo abitino nero adatto a tutte, ha detto qualcosa di rilevante. Oggi sappiamo che il mercato e spesso anche la critica premiano nuovamente il pezzo unico, in quanto segno del lusso e marcatore di status sociale: i soldi contano troppo per non fare notare che li si ha e per non farne parte importante dell’arte stessa. Il regno della ripetizione è finito nelle catene di mobili e abiti per tutti. Dei vantaggi insiti nella riproducibilità continuano a godere il cinema, la fotografia e tutte le forme d’arte aiutate dagli sviluppi tecnologici, ma persino in questi ambiti si cerca di personalizzare l’esemplare: pensiamo all’esecuzione live nella musica elettronica, sovente col suo corredo di immagini uniche generate al computer.
Quella dell’arte moltiplicabile è una tra le vicende affascinanti e sfaccettate dell’arte sperimentale, fatta per generare quesiti e forse anche rimpianti, sicuramente adatta a leggere un secolo intero di forme e di proclami. È ciò che fa la mostra «The Small Utopia – Ars Multiplicata» curata da Germano Celant e aperta due giorni fa a Ca’ Corner della Regina, lo scrigno sul Canal Grande che ora ospita la sede veneziana della Fondazione Prada. Salito lo scalone, ci si trova di fronte a una serie di orinatoi riprodotti da Marcel Duchamp e in generale a quei suoi ready made, dalle ruote di bicicletta alle pale da neve, che in un simile contesto ci raccontano non solo quanto poco gli interessasse l’esecuzione, ma anche l’unicità del pezzo. Lo confermano le molte valigie in cui raccolse i modellini dei suoi lavori, quelle in cui riassumeva il suo catalogo come fosse una summa teologica del suo pensiero e, al contempo, la mercanzia di un commesso viaggiatore. Poco discoste stanno le Brillo Boxes di Andy Warhol, nipotine di questa stessa nonchalance. Entrambi gli autori, così come i numerosi passi intermedi che legarono i maestri del Dadaismo ai promotori della Pop Art, ci dicono però anche un’altra cosa. Qui vediamo delle opere concepite per la riproduzione, ma nessuno di loro pensò che l’epoca del pezzo unico fosse finita del tutto: il Grande Vetro di Duchamp ha i suoi piedi fissati nel cemento del Philadelphia Museum e una bandiera a encausto di Jasper Johns è uno degli oggetti più costosi e irripetibili del mondo. L’idea che l’esecuzione si sia rivelata completamente priva di rilievo può valere in alcuni casi ma non in tutti, con buona pace della troppa teoria che Arthur Danto ci ha fatto digerire sull’argomento.
E qui sta un punto saliente della mostra: non tutta l’arte moltiplicata parte dal medesimo presupposto. Se Dadaismo, pop, Fluxus e qualche genio maleducato come il nostro Piero Manzoni hanno giocato con il fuoco, oscillando tra il fatto a mano e il fatto a macchina, tra performance irripetibili come firmare gli amici e provocazioni in serie come le scatolette con dentro una linea arrotolata, ci sono state correnti più assertive in fatto di ripetizione. La vedevano come un modo ideale per togliere l’opera dal bozzolo dell’estetica idealistica, laddove era stata messa dall’Ottocento di Hegel e della borghesia industriale. È evidente, infatti, che fino a quando non esistette la possibilità di avere prodotti identici grazie a macchinari standard, fino a quando l’unica via del fare fu quella manuale, il problema affrontato da questa mostra non si pose né in pratica né in teoria. Né si presentò il tema dell’arte rivolta al masse, a quel proletariato urbano che è nato solo con l’industria.
Sulla sinistra degli orinatoi, dunque, vediamo i tentativi di Vassili Kandinskij, Vladimir Tatlin, Nikolai Suetin, Kasimir Malevic, Josef e Anni Albers, Sonia Delaunay, Fortunato Depero, Giacomo Balla e altri di realizzare abiti, tazze, stoffe in cui il progetto – cioè lo spartito che garantisce la riproducibilità – fosse il cuore dell’operazione artistica. Di qui, del resto, nacque uno spirito nuovo nell’arredare che fu soprattutto un frutto della scuola Bauhaus e della rivista «De Stijl», testimoniato qui da alcuni prototipi d’epoca. Una preoccupazione di sapore sociale, anche nei casi in cui non dichiaratamente socialista, corse lungo le nervature della cultura europea fino a impregnare l’arte cinetica, programmata e optical.
Proprio nell’atelier di moda più esclusivo di Milano, quello della fantasmagorica Germana Marucelli, nacque l’abito a righe bianconere di Getulio Alviani. Lo poterono indossare poche donne ma era fatto per tutte. La supremazia del progetto sul manufatto come programma al limite del dogma rende conto anche dei pattern optical di Victor Vasarely, delle sveglie giocose di Bruno Munari, dei giochi visivi di Jesus Raphael Soto. Forse questa parte della mostra avrebbe meritato di avere una maggiore autonomia: l’idea di opera ricorsiva e ripetibile si trova anche in un minimalista americano come Sol LeWitt o nelle slitte multiple, tutte con copertina e torcia di sopravvivenza, inventate da Joseph Beuys. Ma in essi non trova posto lo spirito di esattezza, paragonabile solo a quello del design industriale, che animò appunto una certa corrente costruttiva. E c’è da chiedersi perché sia fallita, al punto da non essere considerata un nucleo a sé neanche qui. Come si accennava, del resto, la parte più duratura di questa utopia si è tradotta nella registrazione del suono – sentiamo la Ursonate di Kurt Schwitters, i poemi lettristi di Isodore Isou, gli intonarumori di Luigi Russolo o la musica per radio di John Cage – così come nella registrazione dell’immagine: una selezione fatta da Antonio Somaini racconta fantasie astratte e forme che navigano nello schermo di Hans Richter, Làzlò Moholy-Nagy, Viking Eggeling e Oskar Fischinger, che in seguito collaborò con Walt Disney. E quest’ultimo episodio ci narra quanto quell’utopia perduta sia rimasta, in realtà, dentro alle cose che ci circondano ogni giorno, trasformata in incunabolo di invenzioni per il largo consumo. In fondo si proponeva proprio questo, arrivare a tutti. Anche se, forse, auspicandosi di non diventare un mezzo per la ricchezza di pochi e un sistema di seduzione del quale altrettanto pochi risultano consapevoli.