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 2012  luglio 08 Domenica calendario

IRENE, SNOB FUORI DAL TEMPO

In uno smilzo articolo scritto poco prima del Natale del 1929 Walter Benjamin affrontava con la consueta tagliente precisione un argomento non del tutto filosofico: cosa regalare a uno snob. «Fare un regalo a uno snob significa impegnarsi in una partita a poker. L’anima dello snobismo è infatti il bluff. E come nel poker anche qui non è facile distinguere se il bluff venga dall’audacia o dalla paura». Dunque: «Gli snob vanno provocati. Quanto più grande è il disprezzo col quale usano ispezionare i doni natalizi, tanto più superfluo dovrà essere il dono prescelto». Ai veri snob e ai loro provocatori non restava però ancora molto tempo per arricciare il naso davanti ai doni incauti, la fine era già nell’aria e con la Seconda guerra mondiale una lunga stagione si sarebbe definitivamente conclusa: la lunga stagione che comincia dai Mémoires, cui il duca di Saint-Simon lavorò dalla fine del 1600 alla metà del Diciottesimo secolo, e si conclude all’inizio del Ventesimo con la Ricerca del tempo perduto scritta dal suo grande ammiratore Proust. Se negli anni Trenta lo snobismo poteva ancora essere una residua religione credibile, dal Secondo dopoguerra in poi avrebbe cambiato definitivamente aspetto, e anche il bluff che secondo Benjamin ne era l’anima avrebbe preso nuove caratteristiche.
Una trasformazione che balza agli occhi leggendo la storia della celebre giornalista di costume Irene Brin, che una densa biografia, Mille Mariù di Claudia Fusani (Castelvecchi, con una prefazione di Concita De Gregorio), e un suo libro di racconti Olga a Belgrado (Elliott, pagg. 186, € 16,50) hanno riportato nuovamente nel mainstream editoriale nel quale si era compulsivamente prodotta per quasi quarant’anni. Da quando cioè, nel 1932, aveva inventato delle brillanti soft news per il pesante «Lavoro» di Genova fino ai fasti della Contessa Clara e della sofisticata collaborazione – importante per la moda italiana – a «Harper’s Bazar», lungo tutti i Cinquanta e i Sessanta passando per una molteplicità di testate, di pseudonimi, di imprese giornalistiche e pubblicistiche, dal «Galateo» a «I segreti del successo».
Ha ragione Claudia Fusani a identificare Mariù cioè Maria Vittoria Rossi, questo il suo vero nome, con la invenzione stessa di un nuovo giornalismo di costume in Italia. Persino la storia familiare di Irene Brin (elegante e squillante pseudonimo che le trovò l’astuto Longanesi quando la ingaggiò per «Omnibus») aveva contribuito a formare quella fisionomia di donna di mondo ma anche di rigore, consapevole delle regole del poker snobistico, che occorreva per cogliere l’aspetto interessante nell’irrilevante quotidiano e sociale e poi per analizzarlo con sapiente distacco.
Era nata alla vigilia della Prima guerra mondiale dal connubio tra un generale dell’esercito italiano e una signora ebrea austriaca appassionata d’arte e letteratura. Autodidatta come erano molte ragazze in gamba del suo tempo, che non venivano mandate a scuola ma non volevano restare ignoranti, imparò molte lingue e lesse molti libri, che le servirono anche a trovare un marito faticoso (perché omosessuale) ma intelligente e colto come Gaspero Del Corso, futuro gallerista d’avanguardia a Roma, con il quale l’amore era sbocciato parlando per ore di Proust a una serata danzante. La biografa è meno convincente però quando suggerisce che la giornalista Brin, o Oriane o Marlene, come si firmava prima, o Contessa Clara, come si sarebbe firmata dopo, brilla oggi per l’attualità del suo lavoro e del suo sguardo e del suo stile.
La signora Rossi maritata Del Corso appare interessante proprio per il contrario. La «fustigatrice dei costumi», così Longanesi, da lei incarnata ha il suo posto nella mitologia postmoderna perché è una figura del tempo passato non meno che le dame di corte di cui scriveva il perfido duca di Saint-Simon (che forse era più caro al cuore di Irene di quanto non lo fosse, come sostiene Fusani, l’omonimo filosofo utopista) o la duchessa di Guermantes. Lo spiegano le parole del suo direttore e sponsor alla «Settimana Incom Illustrata», che insieme a lei aveva inventato la figura della nobildonna austroungarica che dispensava consigli d’amore e di bon ton.
Scriveva infatti Luigi Barzini jr per raccontare il debutto della rubrica di corrispondenza della Contessa, nel 1950: «Dirigevo un rotocalco, nel 1948, sapevo che la società italiana era sull’orlo di una vasta trasformazione, che la più gran parte dei lettori e delle lettrici occupava o avrebbe occupato posti e avrebbe avuto mezzi superiori alle loro abitudini e tradizioni , che la mancanza di sicurezza stava dominando tutti. Ci voleva una guida che insegnasse le arti del vivere». Perché in quegli anni – e Irene Brin lo capisce al volo – lo snobismo non è più una religione o una vocazione ma un materiale da utilizzare e da spendere nel mercato del lavoro, o meglio una merce di consumo tra tante altre.
Quegli snob di cui parla Benjamin che ispezionano con disprezzo i regali natalizi non esistono quasi più. È nato un pubblico che fa tutt’altri bluff e che soprattutto ha le nuove paure e la nuova audacia della società del Dopoguerra, fatta in larga misura di quei parvenus che rubriche come quelle della Contessa Clara provocano, disprezzano e affascinano, e di quel gusto di massa che sempre viene stigmatizzato e sedotto.
Ma questa società di transizione, divisa tra gli eletti che conoscono le regole del gioco mondano e i reietti che ne sono esclusi, finisce presto. È già scomparsa quando Maria Del Corso muore nel 1969, mentre declina quel suo giornalismo di costume legato alle buone maniere e al pettegolezzo sapiente, tramortito prima dal moralismo ideologico, dal piombo, dall’impegno obbligatorio, travolto poi dalla confusione e velocità di internet e dalla esuberante democrazia comunicativa dei social network.
Il giornalismo di costume certo non è morto e anzi ha poi invaso ambiti un tempo riservati, dalla politica allo sport, ma da allora ha dovuto cambiare aspetto e soprattutto rimboccarsi le maniche come Irene Brin non aveva mai avuto ragione di fare. Ha dovuto vedersela non con le regole del bon ton ma con quelle della sfrontatezza, con i talk show piuttosto che con Proust, con una società stregata e stranita dal mito della visibilità e del tutto incurante del galateo. Costantemente minacciato, per giunta, dal fratello degenere: il gossip nudo e crudo, che diffonde con tracotante e trionfante spensieratezza l’uso e il consumo dell’indiscrezione, la più temibile delle cattive maniere.