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 2012  luglio 08 Domenica calendario

POSSEDUTA DAI RUSSI

Se non ricordo male, il mio insegnante di matematica, alle superiori, una volta ci ha detto che la dimostrazione del fatto che due più due fa quattro era una cosa talmente complicata che nessuno di noi probabilmente sarebbe stato in grado di dimostrarla. Facevo ragioneria, e il mio insegnante non aveva (a ragione, per quanto mi riguarda) molta stima delle nostre capacità matematiche, ma quel fatto che ci son delle cose che tu sai, di sicuro, o che credi, di sicuro, di sapere, e non sei capace di dimostrarle, è una cosa che a me mi è restata anche dopo che ho finito le superiori e che potrei applicare alla maggior parte delle mie convinzioni.
Per esempio io sono convinto del fatto che quelli che studiano russo, in Occidente, sono un po’ strani, per non dir squilibrati (lo dico con affetto e includendomi nel novero degli squilibrati). E se mi chiedessero: «E perché, quelli che studiano russo sono un po’ strani, per non dir squilibrati?» non saprei bene cosa rispondere; cercherei probabilmente di far degli esempi, e l’ultimo esempio, in ordine di tempo, a dimostrazione di questo assioma, è un libro appena uscito per la collana «Frontiere» di Einaudi, I posseduti. Storie di grandi romanzieri russi e dei loro lettori, dell’americana Elif Batuman (traduzione di Eva Kampmann). Secondo Elif Batuman La montagna magica di Thomas Mann, nonostante sia un libro molto complesso, pone una domanda semplicissima: «come fa una persona che di fatto non è affetta da tubercolosi a trascorrere sette anni in sanatorio?
Da parte mia – scrive la Batuman –, mi pongo spesso una domanda simile: come fa una persona che in realtà non aspira a una carriera universitaria a passare sette anni in un sobborgo californiano a studiare la forma del romanzo russo?». I posseduti racconta questi sette anni ed è, in un certo senso, il racconto di un’inspiegabile ostinazione. «Alcuni russi si mostrano scettici – scrive la Batuman – o addirittura si offendono quando uno straniero afferma di interessarsi di letteratura russa.
Ricordo ancora l’agente addetto al controllo passaporti che timbrò il mio primo visto per motivi di studio. Mi suggerì che magari c’era qualche scrittore americano - Jack London, per esempio, - che avrei potuto studiare in America: "La lingua sarebbe più facile e lei non avrebbe bisogno di un visto"».
Si trovano, nel libro della Batuman, una serie successiva di ipotesi letterarie strampalate, come per esempio il fatto che lo scrittore che ha maggiormente influenzato Isaak Babel’ non sarebbe, come pensa Isaak Babel’, Maupassant, ma, come pensa Elif Batuman, Cervantes.
«Quello che mi fa paura quando ti sto a sentire – dice nel libro Matej, un amico della Batuman – è che mi ricordi un filosofo tedesco».
Questo tedesco, Leo Strauss, aveva scritto un commentario della filosofia occidentale, in cui sosteneva che tutti i maggiori filosofi avevano sentito la necessità di nascondere le loro vere idee. Nel commentario, Strauss si riproponeva di rivelare l’Altro Platone, l’Altro Hobbes, l’Altro Spinoza, i quali dicevano tutti cose che Platone, Hobbes e Spinoza avevano taciuto. «Molte delle idee che attribuisce a Spinoza sono interessanti – disse Matej – ma se Spinoza ha veramente pensato quelle cose, perché non le ha dette?». Viene in mente quel passo della lettera di Tolstoj a Strachov che dà il titolo all’ultimo libro di Šklovskij, L’enegia dell’errore. «Conosco bene questa sensazione – scrive Tolstoj – addirittura ora, in questi ultimi tempi, la sto provando: tutto parrebbe pronto per scrivere – per compiere il proprio dovere terreno, ma manca la spinta della fede in se stessi, nell’importanza della causa, manca l’energia dell’errore; quella spontanea energia terrena che è impossibile inventare».
Ecco, I posseduti a me è sembrato è pieno, di quella «spontanea energia terrena che è impossibile inventare»; a un certo momento, per ottenere di una borsa di studio, la Batuman si inventa l’ipotesi che Tolstoj sia stato assassinato, e la vediamo partire per Jasnaja Poljana apparentemente per partecipare a un convegno di tolstoiani, in realtà per cercare le tracce di un ipotetico omicidio che si sarebbe consumato nel 1910.
E qualche pagina dopo la vediamo che, per non dover rinunciare per sempre alle borse di studio che le permettono di continuare a studiare, parte per Samarcanda per imparare l’uzbeco, lingua che non la interessa particolarmente e che sa benissimo che non avrà poi nessuna occasione di praticare né di insegnare. E se l’esito dell’indagine a Jasnaja Poljana è il ritrovamento di una bicicletta («Tolstoj – scrive la Batuman – aveva superato la sessantina quando imparò ad andare in bicicletta.
La bicicletta e la lezione introduttiva erano un omaggio della Società moscovita degli appassionati al velocipede», e il capo dei tolstoiani,
Cvertkov, in quei giorni annota nel suo diario: «Tolstoj va in bicicletta. Non si mette così in contraddizione con il suo ideale cristiano?»), l’inutile corso di uzbeco ci regala alcune delle cose più belle del libro, per esempio le parti dell’opera nella quale il poeta Nava’i dimostra «matematicamente» la superiorità dell’uzbeco antico sul persiano («era una lingua talmente ricca che aveva termini per indicare settanta tipi diversi di anatre, mentre il persiano aveva solo anatra. I miseri scrittori persiani non avevano parole per distinguere tra una lappola e una spina, tra sorelle maggiori e minori, tra cinghiali femmina, maschio e piccoli, tra caccia e uccellagione, tra un neo di bellezza sul viso di una donna e uno da un’altra parte») o il racconto del rapporto della Batuman e del suo fidanzato con gli uzbechi («per tutto il periodo trascorso a Samarcanda non facevamo altro che cercare di non dare soldi a gente che li voleva prendere oppure di dare soldi a gente che non li voleva prendere»), o l’informazione (non essenziale, ma interessante) che «così come l’Inghilterra è punteggiata di località dove una volta ha dormito la regina Elisabetta, così l’Uzbekistan è punteggiata di località dove una volta Tamerlano avrebbe voluto essere seppellito».
Non avevo mai letto un libro come I posseduti di Elif Batuman, e quando l’ho finito ho pensato che, in un modo diverso, anch’io son degli anni che traffico con la letteratura russa senza per questo voler fare carriera universitaria e che, se mai mi succedesse di incontrare Elif Batuman, credo che sarebbe la persona più adatta alla quale rivolgermi citando l’opera numero 13 di quello stupefacente breviario della vita contemporanea che Daniele Benati ha messo insieme nel suo Opere complete di Learco Pignagnoli; cioè se l’incontrassi la guarderei, Elif Batuman, e le direi: «Opera numero 13. Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po’ strana».