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 2012  luglio 08 Domenica calendario

Il pazzo delle guerre e dei divi che inventò la Milano da bere - Parla di sé in terza perso­na: «Mario De Biasi ha fatto

Il pazzo delle guerre e dei divi che inventò la Milano da bere - Parla di sé in terza perso­na: «Mario De Biasi ha fatto... Mario De Bia­si ha visto... Su Ma­rio De Biasi sono sta­te scritte cinque tesi di laurea... A Mario De Biasi hanno attribuito l’Erich Salo­mon preis e il premio Saint-Vincent...». È il decano dei fotoreporter. Ha espugnato l’attico newyorchese dell’armatore greco Aristotele Onassis, ha documentato la ri­volta d’Ungheria nel 1956, ha seguito Pao­lo VI sulle rive del Giordano nel 1964, s’è aggirato fra le macerie dopo il terremoto del Belice nel 1968, è uscito vivo dalla for­nace del Vietnam, ha messo in posa Sophia Loren e Brigitte Bardot, ha conse­gnato ai posteri il posteriore di una giova­ne e formosa Moira Orfei vestita di bianco a spasso per Milano, «gli uomini che sosta­vano fuori dal bar Zucca, in piazza Duo­mo, se la mangiavano con gli occhi», forse la più celebre immagine del Belpaese ne­gli anni del boom, esposta al Guggenhe­im museum di New York col titolo Gli ita­liani si voltano e stimata 30.000 sterline come base di partenza dell’asta tenutasi meno di un mese fa da Christie’s a Lon­dra. Fu il primo assunto in pianta stabile da un rotocalco italiano, Epoca . Era il 1953 ed è rimasto lì fino alla chiusura, fa­cendo in tempo a ricevere dalle mani di Arnoldo Mondadori una lettera con alle­gate 100.000 lire, «un modesto segno che vuol essere non un premio ma una testi­monianza di simpatia e di ammirazione ». Per fissarmi un appuntamento l’ha tira­ta in lungo due giorni: «Tutti credono che un pensionato non abbia nulla da fare. Ma il De Biasi non riesce a stare inopero­so. Quando non fotografa, disegna, guar­di qua, 1.400 volti inventati, uno diverso dall’altro,e 2.000 teste di pesci,una diver­sa dall’altra, e centinaia di soli, alberi, gat­ti, farfalle, usando varie tecniche, olio, tempera, china, pennarelli, acrilici, gessi. Oppure spacca col martello i cocci di ve­tro che un amico raccoglie sul greto dei fiumi e crea queste composizioni, ne ver­rà fuori una mostra ». Ha pubblicato più li­bri, 92, che compiuto anni, 89 il 2 giugno. L’ultimoè Un mondo di baci ,una sessanti­na di scatti rubati in giro per i continenti, manca solo quello di Giuda. L’editore Umberto Allemandi aveva appena finito di stampar­glielo e l­ui era già tutto con­centrato sul prossimo volu­me: «S’intitolerà Mario De Biasi, Omaggi a... ». Perché alla fine è sempre lì che si torna, a Mario De Biasi. È come se avesse costrui­to il monumento di se stes­so per dimenticarsi da do­v’è venuto fuori, Sois, 700 anime fra i monti del Bellu­nese. C’è rimasto fino al 1938. Padre muratore emi­grato in Svizzera, madre sempre malata, «ma non ho mai saputo di che cosa, né so­prattutto fino a che punto, a quel tempo in ospedale i bambini non erano ammes­si; finché un giorno, avevo 10 anni, men­tre stavo giocando con i miei amichetti dentro una chiesa sconsacrata, è arrivato il becchino e ha affisso sulla porta un an­nuncio funebre: l’ho saputo così,dall’epi­grafe, che mia mamma era morta». L’orfanello fu affidato a una zia che ave­va un podere alla Veneggia. «Pascolavo le mucche lungo il Piave, a piedi scalzi, la corrente era così gelida che mi pareva di svenire. D’estate andavo a prendere l’ac­qua per i contadini che tagliavano il fieno sul monte Serva, 40 minuti per arrivare al­la sorgente e altri 40 per tornare, sempre senza scarpe, perché le dalmare , zoccoli di legno, si mettevano solo per andare a scuola. Un giorno la slitta su cui caricavo il raccolto, da far scivolare a valle lungo i sentieri, cominciò a prendere velocità. Cercai di frenare con le mani: quando si fermò, non avevo più i polpastrelli». Rina De Biasi, che viveva a Milano, nel 1938 decise di prendere con sé il fratello quindicenne.«Le bigotte del paese tenta­rono di dissuadere mio padre: “ Non man­darlo, è la città della perdizione,finirà ma­le”. Mia sorella abitava in via Vittor Pisa­ni, meno di 200 metri dalla stazione cen­trale. Percorrendo questo breve tratto a piedi, ricordo che pensai: ma qui come fa­ranno a trovare la strada di casa?». E poi? «Mi iscrissi a un corso per radiotecnico e trovai posto alla Magneti Marelli. Quando mi presentai al Distretto mi­litare per l’arruolamento, scoprii che il mio nome era Mario. Fino ai 18 anni tutti mi avevano chiamato Mar­co o Marcheto, non sapevo d’essere registrato all’ana­grafe in un altro modo. “ Ser­vi di più alla patria come ra­diotecnico della Magneti Marelli”, mi dissero, così evitai di partire per il fronte. Ma una sera fui catturato per strada dai nazisti in piaz­zale Loreto e deportato in un campo di concentramento a Norimber­ga. In tasca avevo una lampadina Sie­mens. La sera i miei compagni di prigionia si avvicinavano a quella luce per potersi spulciare. La liberazione coincise col bom­bardamento alleato del 30 marzo 1944, che fece 27.000 morti in una sola notte». E lei dove finì? «A casa dei signori Stahl, con un amico di Bergamo che aveva ospitato un soldato te­desco in Italia. Mi regalarono una Welta 6x6 a soffietto e senza telemetro. Non ave­vo mai scattato una foto. Norimberga ra­sa al suolo fu il mio primo reportage, stam­pato con un torchietto recuperato fra le macerie.Tornai in Italia all’inizio degli an­ni Cinquanta. Avevo la quinta elementa­re. Diedi gli esami di terza media frequen­tando le scuole serali. Mi sposai con Ida. È morta cinque anni fa, lasciandomi solo. Nel 1952 nacque Silvia, che oggi è biologa e insegna alla Statale di Milano. Nel 1953 fui assunto a Epoca ». In che modo? «Da autodidatta giravo le librerie fingen­domi interessato all’acquisto dei volumi di fotografia. Solo che, non avendo soldi, chiedevo sempre quelli stranieri appena recensiti da Camera , in modo da essere si­curo di non trovarli, altrimenti avrei dovu­to comprarli. Intanto sfogliavo gli altri e imparavo. Ezio Croci, che dirigeva Foto­grafia , un giornale di quattro pagine, mi segnalò al figlio dell’editore Ulrico Hoe­pli, il quale, dopo aver visto alcuni dei miei scatti, mi scrisse una lettera di pre­sentazione per Alberto Mondadori, diret­tore di Epoca . Andai. Mi ricevette Sergio Polillo, il segretario di Arnoldo. Acquistò subito una mia foto per 100.000 lire e mi propose un’assunzione in prova. Sicco­me la Magneti Marelli non mi dava l’aspet­tativa, mi licenziai. Entrai in Mondadori come impiegato di seconda categoria». E cominciò a girare il mondo. «Nando Sampietro, il miglior direttore che Epoca abbia avuto, mi mandava da so­lo. Guerre, rivoluzioni, terremoti, alluvio­ni. Prendevo appunti, al ritorno racconta­vo ai giorn­alisti quello che avevo visto e lo­ro scrivevano con prosa elegante. Ce n’era­no di bravissimi: Livio Caputo, Ricciotti Lazzero, Ugo Tramballi. Nel 1956 stavo fa­cendo un servizio sul lago di Como. Mi te­lefonarono dalla redazione: “È scoppiata una rivolta in Ungheria”. Il buon Barana, l’autista della Mondadori, mi portò fino a Vienna,dove ad attendermi trovai l’invia­to Mino Monicelli, figlio di Tomaso, gran­de giornalista e cofondatore della Monda­dori, la cui sorella, Andreina, aveva sposa­to Arnoldo. Stufo d’essere scambiato con i più celebri fratelli Mario, regista, e Furio, romanziere, Mino si firmava Massimo Mauri. Partimmo per Budapest». La frontiera con l’Ungheria era chiusa. «La feci riaprire smoccolando in tedesco. Arrivammo nella capitale a fari spenti, perché s’erarottala dinamo.Davanti alla caserma della polizia politica sparavano da tutte le parti. Una pallottola mi passò davanti agli occhi, sento ancora il sibilo». Lì scattò la sequenza dell’agente se­greto insanguinato, legato per i piedi, strascinato nelle strade e infine appe­so a un albero a testa in giù. «Lì vidi lo spirito di vendetta che il comuni­smo genera e fino a che punto può spinger­si l’odio umano. Il corpo fu preso a calci e coperto di sputi.Un ungherese dall’aspet­to inoffensivo trasse di tasca un coltellino da campeggio e lo conficcò fra le scapole del cadavere.Più tardi mi dissero che quel­l’agente aveva mozzato la lingua e strap­pato le unghie a uno degli insorti durante un interrogatorio. Lo scoppio di una gra­nata pose fine al barbaro spettacolo. Me la cavai con una scheggia nella spalla. Jean-Pierre Pedrazzini, fotoreporter di Paris Match , si prese una sventagliata di mitra nella pancia e, nonostante l’aereo messo a disposizione dal presi­dente francese René Coty per riportarlo a Parigi, morì a soli 29 anni». Ha rischiato altre volte di lasciarci la pelle? «Il quotidiano ungherese Magyar Nemzet mi ribattez­zò “l’italiano pazzo”. A Huê, in Vietnam, gli ameri­cani mi fecero salire su uno dei loro elicotteri. Mi accor­si c­he sotto le suole degli sti­vali avevo del liquido rosso scuro. Chiesi: cos’è? “Ah, niente, ieri abbiamo avuto un ferito”, ri­spose il pilota. Era sangue. In Siberia, per fotografare un cavallo coperto di brina a 50 gradi sotto zero, rischiai il congelamen­to: mi avrebbero amputato le orecchie se non ci fosse stato Walter Bonatti a salvar­mele con un energico massaggio. La mia unica dote sul lavoro è che non avevo pau­ra ». Ne aveva un’altra: la faccia tosta. «Non nego. Nel 1955 fui mandato a New York per la prima sfilata di moda italiana. Non sapevo una sola parola di inglese. Ap­pena sbarcato dal transatlantico Cristofo­ro Colombo, credevo d’impazzire:era tut­to bello, tutto nuovo, tutto luminoso, tutto da fotografare. Chiesi al giornale di torna­re in aereo, per avere a disposizione una settimana in più. “Non se ne parla, il viag­gio in nave è regalato”, fu la risposta. Mi fe­ci prestare i soldi per il volo dall’ufficio americano della Mondadori, poi restitui­ti, e rimasi lì, tirando avanti a pane e Coca-Cola. Un giorno vidi uscire dal ristorante Colony gli armatori Aristotele Onassis e Stavros Niarchos con l’attore David Ni­ven. Sapevo che Onassis parlava italiano. Mi avvicinai: sono un reporter di Epoca , mi piacerebbe fotografarla a casa sua. Lui mi squadrò stupito: “Peyton Place nume­ro 16. Venga domani alle 9”. Lo ritrassi in camera da letto, davanti allo specchio. Al­la fine, per scusarsi d’avermi fatto attende­re 35 minuti, disse all’autista: “Porta Ma­rio a vedere New York e torna alle 18.30”». Sullo sfondo della Grande Mela im­mortalò anche Giuseppe Ungaretti. «Era il 1964. Quella volta Epoca aveva tra­sferito a New York mezza redazione, 14 fra giornalisti e fotografi, per la Fiera mon­diale. Tentò un mio collega. Niente da fa­re, Ungaretti non voleva uscire dalla ca­mera d’albergo. “ De Biasi,ci provi lei”,mi ordinò Sampietro. Andai. Il poeta era al­loggiato in una stanzetta squallida. Fu ir­removibile anche con me. Allora, per di­sperazione, piagnucolai: maestro, io so­no un suo grande estimatore, l’ho vista re­citare le sue liriche in Tv. E mi misi a imitar­lo, declamando un verso: le sabbie infuo­cate del deserto... ». (Urla a gran voce, con tono ispirato, roteando gli occhi). Non ricordo una poesia di Ungaretti sulle sabbie infuocate del deserto. «Embè? Il poeta rimase colpito lo stesso. S’infilò il cappotto. Lo portai sul ponte di Brooklyn. Foto straordinarie». Quali altri personaggi famosi le sono rimasti impressi nella mente, oltre­ché sulla pellicola? «Marlene Dietrich nel 1956. Stava giran­do Montecarlo con Vittorio De Sica nel Principato di Monaco. Lei su uno yacht, io su un altro, a portata di mano avevo so­lo la Rolleiflex senza teleobiettivo. Una dea che sorge dall’acqua.Silvana Manga­no, malmostosa. Quando beveva si tra­sformava in un camallo, mai sentito paro­lacce e barzellette più sconce delle sue. Sophia Loren mentre fuma e si trucca, ho anche molti scatti mentre esce dalla va­sca da bagno: ci farò un libro». Ma lei fa libri su tutto? «Sì. Le mie vacanze attorno al Borgo è dedi­cato ai 50 metri che percorrevo ogni matti­na fuori dall’albergo di Belluno dove so­no stato in ferie l’anno scorso. Vicino c’erano due cassonetti, dai quali recupe­ravo pezzi di lamiera e di legno che schiac­ciavo, sagomavo e fotografavo. Sono im­magini che ricordano particolari delle opere di 100 artisti famosi. Diventeranno il contenuto del libro Omaggi a... ». Quale dei suoi colleghi stima di più? «Gianni Berengo Gardin. Sua zia vende­va perline in piazza San Marco a Venezia. Mi disse: “Beato te che giri il mondo”. Gli risposi: perché non fotografi casa tua? Ha ascoltato il mio consiglio». C’è una foto che l’hafat­ta sudare tanto? «Il Duomo di Milano al tra­monto, mentre la città sta per essere inghiottita dal buio della notte. Con un sotterfugio mi ero fatto da­re dal sagrestano le chiavi del campanile della chiesa di San Carlo al Corso, vici­no a piazza San Babila. Set­te volte sono salito fin las­sù, nella cella priva di ba­laustra, con una pila fra i denti per illuminare i gradini coperti da­gli escrementi dei piccioni. Finché una se­ra ho beccato la luce giusta. Credo che sia l’unica foto trasmessa per tre anni di fila in televisione con la bottiglia dell’amaro Ramazzotti che spuntava dai tetti. È rima­sto il simbolo della “Milano da bere”». Che cosa non le piace della società d’oggi? «La superficialità, il pressappochismo. C’è in giro un sacco di gente poco seria». Perché settimanali come Epoca e Life non esistono più? «Oggi vanno di moda i giornali con tante pagine piene di niente».