Gian Marco Chiocci, il Giornale 7/7/2012, 7 luglio 2012
Un paio di cose in difesa dei poliziotti condannati - E così Diaz. È finita come doveva finire, perché altrimenti sarebbe venuta giù l’Italia
Un paio di cose in difesa dei poliziotti condannati - E così Diaz. È finita come doveva finire, perché altrimenti sarebbe venuta giù l’Italia. Per la «macelleria messicana» alla scuola del G8 di Genova è finita, processualmente, con le reclamate condannedei pezzi pregiati della polizia di Stato che hanno disarticolato le Brigate rosse, stanato Provenzano, i boss della ’ndrangheta,i casalesi, buon ultimo il bombarolo della scuola di Brindisi. È finita come le difese degli sbirri imputati temevano potesse finire dopo quell’insolito rinvio di 20 giorni in Cassazione disposto per rifletterci ancora un po’ prima di prendere una decisione che fa a cazzotti con la logica, con le prove, con la sacrosanta sete di giustizia per quei pestaggi infami. È finita nel peggiore dei modi, e vi spieghiamo perché. La Quinta sezione della Suprema Corte, con un nuovo presidente, senza procedere ad alcun nuovo atto ha accolto le motivazioni dei giudici d’appello di Genova lesti a ribaltare la sentenza del tribunale con convincimenti e interpretazioni a dir poco discutibili. L’eccellenza investigativa è da condannare perché in una riunione in questura, pur sapendo che nella scuola non vi erano black bloc, si sarebbe inventata l’aggressione a una pattuglia della polizia e avrebbe organizzato la mattanza per fare arresti e rifarsi l’immagine dopo la penosa performance in mondovisione. Tutto ciò sarebbe avvenuto con l’accordo di tutti i presenti,in raccordo coi vertici romani, a cominciare da quel capo della polizia, Gianni De Gennaro, che però, udite udite, un’altra sezione della Cassazione ha recentemente assolto insieme all’allora questore Francesco Colucci con motivazioni opposte: la perquisizione alla Diaz era da considerarsi legittima per la presenza sospetta di tute nere responsabili dell’assalto al pattuglione della polizia. Delle due, l’una. Non si capisce poi perché, in questa storia, la catena di comando ha visto alcuni anelli finire a processo ed altri no. Francesco Gratteri, in quei giorni a capo dello Sco, è stato condannato per falso in atto pubblico non avendo firmato alcun atto (e con lui Luperi dell’Antiterrorismo), e non essendoci la prova che abbia mailetto quei verbali e che in quel momento fosse ancora a Genova. Assolto per non aver commesso il fatto in primo grado, s’è beccato quattro anni a vita. Stessi fatti, nessuna nuova prova, decisioni opposte. Normale? Fuori dall’inchiesta, invece, due uomini-chiave di quella stessa catena, diventati a sorpresa testimoni, come il prefetto Ansoino Andreassi, vice capo della polizia presente a Genova per volere di De Gennaro, e Lorenzo Murgolo, oggi ai Servizi, all’epoca responsabile dell’ordine pubblico alla scuola con tanto di fascia tricolore (al telefono urla alla sala operativa di mandare i mezzi per «caricare i prigionieri »). In questa stessa catena, via via a scendere,c’è finito quel povero cristo di Vincenzo Canterini, capo del Settimo Nucleo di celerini che per primo entrò nella scuola, lui che fu l’ultimo a varcare l’uscio della Diaz senza casco e manganello e che nella famosa riunione in questura propose di far uscire gli occupanti coi lacrimogeni per evitare quei problemi di ordine pubblico poi puntualmente verificatisi. E vogliamo parlare dei vari celerini condannati e prescritti? Li volevano colpevoli a tutti i costi infischiandosene di quel che prevede il codice a proposito della responsabilità penale, che è personale. Chi ha picchiato chi,nessuno ancora lo sa tant’è che in primo grado l’orda di agenti indagati è finita tutta archiviata non essendo stata identificata dalle vittime. Quella sera entrarono tra i 250 e i 300 poliziotti di reparti diversi, Digos, squadre mobili, reparti anticrimine, gente non abituata a mulinare lo sfollagente rimasta senza un nome. A pagare sono stati solo i capisquadra del Settimo perché tutti d’accordo (non si capisce quale carta lo dica) a far carne di porco con un loro funzionario, Michelangelo Fournier, talmente assetato di sangue che non appena scorge tutte quelle teste sfasciate si toglie il casco, urla «basta basta» e si fa riconoscere. E che dire dell’ultima, ultimissima, ruota del carro: Massimo Nucera, il poliziotto accoltellato alla Diaz. La consulenza tecnicadel tribunale ha stabilito che i tagli sul suo giubbotto erano compatibili con una coltellata e con la ricostruzione fatta dal poliziotto sul tentato omicidio. Il successivo incidente probatorio portò il perito a parlare di certezza della pugnalata. Nucera venne giustamente assolto ma in appello è stato condannato per un altro taglio, questo sì, indecente: nel motivare il falso accoltellamento i giudici hanno riportato solo la prima pagina della sua relazione di servizio, non la seconda che l’avrebbe scagionato per sempre. Nonostante le proteste dell’avvocato Romanelli e i venti giorni in più per ragionarci sopra, i giudici con l’ermellino non si sono accorti dell’abbaglio preso dalla Corte d’appello presieduta da quel Salvatore Sinagra che solo grazie a una provvidenziale delibera del Csm riuscì a finire il processo nonostante la proroga del servizio presentata in ritardo. «Hanno preso la mia vita di poliziotto e l’hanno buttata nel secchio – sbotta l’agente Nucera al Giornale –. Ho solo quarant’anni, improvvisamente non ho più lavoro né un futuro. Dopo la coltellata alla Diaz ringrazio lo Stato e la giustizia italiana per avermi pugnalato alle spalle».