fabio pozzo, La Stampa 9/7/2012, 9 luglio 2012
“In mare non c’è spazio per la democrazia” - Ciao papà, sono Jane. Bravo per la vittoria, sei il mio campione
“In mare non c’è spazio per la democrazia” - Ciao papà, sono Jane. Bravo per la vittoria, sei il mio campione. Ti voglio bene. Sono Jane, la tua perla». Thomas mostra l’Sms della figlia dodicenne e sorride, con gli occhi lucidi. «Ho vinto per questo». Thomas Coville è uno dei mostri sacri della vela oceanica. Bretone, 43 anni, ha sette circumnavigazioni del mondo sulle spalle, in solitaria e in equipaggio, una sfilza di regate vinte e una partita aperta col Trofeo Jules Verne, il record del giro del globo più veloce, con «Sodeb’o», il suo trimarano gigante. Lo chiamano il «filosofo della vela», perché alla tecnica unisce l’introspezione. Dieci anni fa, durante il Vendée Globe, il giro del mondo non-stop in solitaria, si portò «L’esistenzialismo è un umanismo» di Jean-Paul Sartre. Questa volta, per la sua prima Volvo Ocean Race, la circumnavigazione del pianeta in equipaggio a tappe (39 mila miglia, 9 tratte, 10 porti, 6 barche salpate 9 mesi fa da Alicante e arrivate sabato scorso al traguardo di Galway in Irlanda), ha scelto un libro di poesie, «Atlantica» di Kenneth White, e «L’elogio della fuga» di Henri Laborit. «Non sono però riuscito a leggerli. Avrei rubato tempo al sonno». Thomas sino a ieri è stato il capo guardia di Groupama 4, la barca francese che ha vinto l’«Everest delle regate» (davanti a Camper-Team New Zealand, Puma, Teléfonica, Abu Dhabi e Sanya). È stato il braccio destro di Frank Cammas, skipper superstar che in 74 competizioni con la serie Groupama è salito 61 volte sul podio, e 34 sul gradino più alto. Un autentico «guerriero» del mare, Cammas, che per il suo debutto in questa regata ha voluto una barca disegnata da un argentino (Juan Kouyoumdjian), un equipaggio multinazionale (cinque le bandiere a bordo), eterogeneo (oceanici solitari e specialisti della Volvo) e ha affidato a Coville un compito fondamentale: «Capire le differenze di ciascun membro della squadra e cercare di fargli esprimere il suo valore più alto al momento giusto». Il «rewind» ufficiale della regata racconta di una gara tirata allo spasimo, con la spagnola Teléfonica che ha dominato la classifica per la prima metà della competizione per poi ripiegare sotto la rimonta di Groupama. Rimonta cominciata ad Auckland e consolidata in acque di casa. «Stavamo avvicinandoci a Lorient da Lisbona, la penultima tappa. C’era un problema all’albero. Burrasca, il vento a 30 nodi, noi lanciati a 25: rischiavamo di rompere la barca e di gettare via tutto in una notte. Qui Brad Marsh, che inizialmente forse non era preparato al meglio, ha suonato il suo assolo: è salito in cima all’albero per tre volte e ci ha fatto vincere la regata» racconta Thomas. Assolo? «L’equipaggio è un ensemble di musica da camera in cui a un certo punto ciascuno deve capire che è venuto il suo momento di fare qualcosa per il gruppo. Brad è stato in grado di cogliere l’attimo perché nel frattempo era cresciuto per quel momento. Questo, penso, è il segreto della nostra vittoria: allo start eravamo probabilmente il migliore team con la migliore barca, ma dovevamo crescere. Sotto la spinta di Cammas ci siamo riusciti». Thomas parla del «capo» come di una «macchina da guerra» «Franck ha un approccio molto scientifico alla vela. Attento al minimo dettaglio: ha voluto, per esempio, un numero ridotto di sacchi a pelo, costringendoci ad usarli a rotazione, per risparmiare peso. Il bello è che per lui il grammo del sacco a pelo ha la stessa importanza delle tonnellate dello scafo». Un leader che, ensemble o non ensemble, ha sempre l’ultima parola. «Non c’è democrazia su un Volvo 70, non ci può essere». Così, è stato Cammas a decidere alla partenza di portarsi fin sotto il Marocco, mossa che ha stupito gli avversari. «E’ stato un segnale della nostra diversità». Lui che ha deciso di riparare a Punta del Este in Uruguay, durante la tappa da Auckland-Itajai. «Avevamo disalberato. Eravamo a 600 miglia dal Brasile, 70 dall’Uruguay. Lo shore team si è superato per farci proseguire con un mozzicone d’albero». E sempre Cammas ha scelto di passare all’interno delle Bahamas, sulla via per Miami, anziché tenersi fuori come Teléfonica. «Ha deciso questa rotta in solitudine, senza consultarci. Per me è stato il momento più duro: non sono più riuscito a dialogare. Durante questa tappa e quella da Miami a Lisbona, mi sono sentito solo, costretto a mettere da parte il mio ego e questo mi ha frustrato». Come se ne esce? «Con il cuore». Sì, si può andare in crisi su barche del genere. Bolidi lanciati alla massima velocità, in tutte le condizioni di mare e vento. Sempre al limite, esposti al rischio fatale. «Freddo, caldo, cuccette scomode. Undici uomini compressi in 10 metri quadrati, che non si lavano, che mangiano male, che non dormono. Credo sia l’estrema prova che si possa sopportare». E poi, il rumore. «I colpi delle onde rimbombano contro lo scafo continuamente, senza requie. Il silenzio è la cosa che più mi è mancata». È come essere in prigione. Facile perdere il controllo. «Siamo andati in due o tre casi vicini alla rissa. Sono intervenuto io. Cammas ha lasciato a me il ruolo di mediatore, perché lui non concepisce la crisi umana. La trova poco professionale». Thomas durante la regata ha perso 12 chili, si è stirato i legamenti del ginocchio cadendo sulla via di capo Horn, ha avuto paura. Ma, soprattutto - dice - ha dovutoreggere il peso del suo compito. «La pressione del gruppo è micidiale. Devi essere sempre concentrato sull’obiettivo comune per i quale alla fine ti annulli. Pensare che io navigo per sfuggire alla pressione del mondo...». Però c’è anche il ricordo della bellezza di un’onda e quello di una crepe al miele. E naturalmente, della vittoria. Per Jane, la perla.