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 2012  luglio 07 Sabato calendario

“Non sono finito nella trappola di Nietzsche” - Lo ha detto e lo ribadisce: «Le esperienze quotidiane non sono niente rispetto all’incontro con un libro»

“Non sono finito nella trappola di Nietzsche” - Lo ha detto e lo ribadisce: «Le esperienze quotidiane non sono niente rispetto all’incontro con un libro». Così Sergio Givone racconta l’avventura della parola scritta nella sua vita di bambino, di ragazzo, di studente, di filosofo, di scrittore, di docente universitario (originario di Buronzo, nei pressi di Vercelli, vive e insegna a Firenze dopo essersi formato alla scuola torinese di Luigi Pareyson). Addirittura due le ragioni di attualità che invitano a incontrarlo nella bella casa a due passi da San Lorenzo: appena uscito Metafisica della peste ; appena arrivata da Palazzo Vecchio la nomina di assessore alla Cultura. Da dove parte la sua storia di lettore? «Sono vissuto fino ai diciotto anni in una di quelle cascine della Bassa che sembrano navi pronte a salpare. Ho avuto zie maestre, una madre maestra e leggevo i libri della loro modesta biblioteca». Un po’ come nel suo primo romanzo, «Favola delle cose ultime». «Sì, quella cascina si chiama La Nave e si protende verso l’altrove». C’è un libro dei libri? «È l’ Astronomia popolare di Flammarion. Racconta la sto- ria del mondo in una luce metafisica anche se è l’opera di un positivista. Era come leggere in cielo le cifre di un destino». Sono venute prima le parole o prima le figure? «Proprio in Astronomia popolare ho memoria indelebile di una figura che rappresenta L’ultima famiglia. Accerchiata dai ghiacci - dice la didascalia - l’ultima famiglia "è tocca dal dito della Morte"». Grande tema quello dei ghiacci. «Ricordo i libri che descrivevano le esplorazioni polari. Album dove c’erano spazi vuoti in cui qualcuno, forse mio padre, aveva appiccicato delle figure. Essenziale era però l’idea del viaggio verso il nulla: sarà poi uno dei temi costanti della mia filosofia». L’esplorazione polare ha tentato anche alcuni scrittori d’oggi. «E’ un fatto che mi ha colpito: Del Giudice, Tuena, Mussapi. Per noi ragazzini rappresentava un varco, un pertugio verso l’esplorazione del mondo». Tornando ai libri delle sue maestre? «Soprattutto i libri della Biblioteca Universale Sonzogno: Riso rosso , La Rivoluzione , Il figlio dell’uomo di Andreev, il dramma L’intrusa di Maeterlinck. Di lì passava la sensazione di leggere il piccolo mondo attraverso lo specchio delle grandi idee». Altri titoli? «Le mie maestre mi hanno messo pericolosamente in mano anche il Don Chisciotte eGuerra e pace ». Perché «pericolosamente»? «Prendere sul serio i libri mette di fronte a verità angoscianti. Penso in Guerra e pace al capitolo sulle fucilazioni dei soldati francesi, un vero e proprio esempio di burocratizzazione dello sterminio. Penso nel Don Chisciotte alla novella "dell’ indagatore malaccorto". Non è pericoloso che un ragazzo scopra nella cosa più desiderata, come l’amore, una metamorfosi micidiale? Il tarlo capace di trasformare la perfezione in distruzione?». Niente Salgari? «Piuttosto Verne, in cui avventura e tecnica andavano di passo. In questo penso agissero anche certi manuali Hoepli sull’irreggimentazione delle acque che leggevano gli uomini di casa». Fin qui, casa. E fuori? «Un incontro importante con Angelo Gilardino, grande musicologo e musicista. Ai tempi del Liceo "Lagrangia" di Vercelli, fu lui a farmi fare il salto nella grande letteratura europea: Musil, Kafka, Mann». Dopodiché venne Pareyson. «Pareyson e Abbagnano, un cuneese e un napoletano, con quel loro accento inconfondibile. Ma anche, da una parte, Eco, Vattimo, Riconda, dall’altra Rossi e Viano. E poi Chiodi, a cui devo soprattutto la lettura di Kant, uno dei filosofi che ho studiato di più, con Plotino, Pascal, Kierkegaard. Era un’avventura andare a lezione dalle 11 alle 12, seguire il durissimo corso di Pareyson su Fichte, "la filosofia della libertà", e poi sentire Eco parlare di mass media dicendo in modo chiaro ciò che Adorno scriveva in modo contorto o incomprensibile». Anche lei, come Cavell, ha il suo Fred Astaire? « Iannacci, ad esempio, che considero un grande poeta del Novecento e un grande raccontatore di storie. Ma anche Carosone, che considero l’ultimo grande episodio dell’opera buffa. E infine Buscaglione: in chiave torinese ci ha liberati dal mito dell’America». Parlando di poesia, mi pare che nella sua considerazione agisca meno della prosa. «È vero. Tanto sono ben disposto su filosofia e romanzo quanto la poesia mi sembra un dono assolutamente raro. Amo molto Petrarca, amo Leopardi, ho letto Montale, Ungaretti, molto Luzi. Amo anche Celan, ma non leggo la sua poesia filosoficamente». Su ciò di cui non si può teorizzare si deve narrare? «Platone ha detto: ci sono delle cose che vogliono essere afferrate dal Logos e cose che vogliono essere afferrate dal Mythos. È già tutto qui». Un un lettore così avvertito quale lei è può recuperare una dimensione di «ingenuità»? «Lo so che è impossibile, però un fanciullino in me c’è e cerco di tenerlo caro, se no non leggerei più libri». Lei è un lettore che abbandona i libri? «Sì. Sono tentato di dire Voltaire, ma poi non è del tutto vero. Sarei tentato di dire Hegel, ma perché non riuscivo a impossessarmene. Un autore che ho abbandonato con tratti quasi rabbiosi è Nietzsche». Il libro che l’abbia sorpresa di più? «Alla terza o quarta lettura, Le memorie del sottosuolo di Dostoëvskij quando ho scoperto che è un libro comico, di una comicità radicale e sconcertante». Davvero darebbe l’intera «Recherche» per «Zeno». «È la mia passione per l’ironia. La coscienza di Zeno è un carnevale meraviglioso di deduzioni e controdeduzioni».