Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 25/06/2012, 25 giugno 2012
CARAVAGGIO E LA FRETTA
Caravaggio dipinse la «Resurrezione di Lazzaro» sopra sei pezze di canapa cucite insieme, e non dodici, come si riteneva fino ad oggi. Nella parte bassa del quadro si nota un’ ulteriore aggiunta, forse dovuta al fatto che l’ opera dovette cambiare dimensione perché la cappella alla quale era destinata venne ampliata. La preparazione di fondo della tela fu realizzata con un composto a base di calcite, che lo stesso Caravaggio aveva messo a punto in Sicilia. Sono queste le scoperte più curiose fatte dall’ Iscr (Istituto superiore per la conservazione e il restauro) negli otto mesi di interventi realizzati presso i suoi laboratori romani per salvaguardare il capolavoro conservato nel Museo regionale di Messina. Scoperte ora documentate nella mostra allestita a Palazzo Braschi fino al 15 luglio, dove il quadro resterà esposto prima di tornare in Sicilia. Un’ occasione preziosa per ammirare un’ opera tra le più drammatiche ed emozionanti del maestro lombardo e per approfondire quell’ ultimo tragico periodo della sua vita, in fuga tra Malta e la Sicilia, inseguito dalle condanne dovute a risse e omicidi. Fu durante una di queste fughe che Caravaggio dipinse la «Resurrezione di Lazzaro». Scappato da Malta, si era trasferito a Messina nel dicembre del 1608 e vi era rimasto fino all’ estate dell’ anno successivo. Il mercante genovese Giovan Battista dè Lazzari gli aveva commissionato un dipinto raffigurante la Madonna, san Giovanni Battista e altri santi per la sua cappella in corso di costruzione nella chiesa dei Crociferi di San Camilo De Lellis. Sei mesi più tardi, il 6 giugno 1609, il quadro è collocato e si annota che l’ autore ne è «Michelangelo Caravagio militis Gerosolimitanus». Il soggetto però è cambiato. Sullo sfondo scuro, con accenni di elementi architettonici che suggeriscono l’ interno di una chiesa, appaiono in un gruppo serrato i protagonisti: Lazzaro appena riportato in vita, Cristo che ha operato il miracolo, e gli spettatori che vi hanno assistito. Narra Francesco Sisinno, biografo settecentesco messinese, che il dipinto ebbe una precedente versione distrutta a colpi di pugnale dallo stesso Caravaggio, offeso per le critiche ricevute; che per ritrarre il corpo di Lazzaro gonfio e irrigidito dalla morte l’ artista pretese come modello un cadavere fatto disseppellire, «già puzzolente di alcuni giorni» e tenuto in posa dai facchini minacciati col pugnale; che i dè Lazzari pagarono l’ opera mille scudi. Notizie oggi ritenute poco credibili dagli storici dell’ arte. Perfino il compenso sarebbe eccessivo, se si confronta con le quotazioni del pittore in quegli anni, come sostengono Donatella Spagnolo e Gioacchino Barbera. Caravaggio aveva un gran bisogno di soldi e una gran fretta di tornare a Roma, dove sperava di ottenere il perdono del papa. Fu la fretta a fargli usare una tavolozza povera e materie locali - diverse da quelle impiegate negli anni romani - in cui si ritrovano tracce di resti fossili reperibili solo in Sicilia e sull’ isola di Malta, come hanno dimostrato le recenti analisi chimiche effettuate dall’ Iscr. E fu la fretta a suggerirgli di riempire l’ enorme tela (275 centimetri per 380) con un fondo bruno, sopra il quale tracciò le figure con pochi e veloci colpi di luce. È stata questa dilagante macchia di bruno a creare, nel corso dei secoli, i più grossi problemi al quadro, perché i vari restauratori hanno cercato sempre di schiarirlo, convinti che fosse annerito dalla sporcizia. Già nel 1671 un certo Andrea Suppa provò a lavarlo con l’ acqua. Gli venne via il colore e pare che il poveretto, accusato di aver rovinato il dipinto, sia morto di crepacuore. Lo racconta Daila Radeglia, che ha diretto i lavori di restauro eseguiti da Anna Maria Marcone, Carla Zaccheo, Emanuela Ozino Caligaris, affiancate da cinque giovani neodiplomati dell’ Istituto (Federica Cerasi, Alessandra Ferlito, Giorgia Pinto, Maria Maddalena Santoro e Mauro Stallone). L’ intervento, che arriva a sessant’ anni da quello compiuto da Cesare Brandi ed è stato finanziato con centomila euro dall’ associazione culturale Metamorfosi, ha permesso di rimuovere le resine naturali usate nel 1951 e ingiallite fino ad alterare completamente le cromie. Le hanno sostituite con vernici sintetiche, «che danno maggiore garanzia di stabilità», come precisa Marcone.
Lauretta Colonnelli