Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  luglio 09 Lunedì calendario

FINANZA. MA SI POSSONO CHIAMARE BANCHE?

JPMorgan potrebbe dover contabilizzare perdite per 9 miliardi di dollari. Barclays ha manipolato il valore del Libor, il tasso che determina una serie di indicatori. Così torna d’attualità la separazione tra banche commerciali e d’investimento, sancita dal Glass-Steagall Act del 1933.
U n tempo si usava dire che se un banchiere si butta dalla finestra è il caso di seguirlo, avrà delle buone ragioni. Oggi, visti i varchi dai quali i ceo delle super-banche escono e prendono il volo, è meglio pensarci mille volte. Perché è vero che i super-boss, come Bob Diamond di Barclays, atterranno con paracadute d’oro: ma è anche vero che per tutti gli altri — depositanti, azionisti, creditori e contribuenti in genere — questo colossi too-big-to-fail, troppo grandi per essere lasciati fallire, rischiano di essere una rovina. Anzi, lo sono già: se le cose non cambiano in fretta, saremo costretti a salvare in continuazione dei giganti che non hanno il senso del rischio perché sanno di essere troppo rilevanti per essere lasciati andare a gambe all’aria.
Scelte difficili
Quando, nell’autunno del 2008, Lehman Brothers fu lasciata fallire e il sistema finanziario mondiale rischiò il disastro nucleare, molti accusarono l’allora segretario al Tesoro americano Henry Paulson di essere stato un incosciente: Lehman era troppo grande per non essere tenuta per i capelli. Da allora, tutti furono salvati, in qualche modo. Difficile, oggi, giudicare. Di certo, si può dire che nel sistema finanziario americano erano nati colossi che avevano capito di potere fare ciò che volevano, nel peggiore dei casi sarebbero stati salvati, perché il fallimento di una banca sistemica avrebbe significato il fallimento di altre e il blocco totale del meccanismo finanziario che fa funzionare l’economia del mondo.
Questa situazione, il too-big-too-fail, rimane ancora oggi al cuore dei problemi, in America e altrove. Non è stata risolta: il caso Barclays e della manipolazione del Libor è la testimonianza di quanto la certezza dello strapotere e dell’impunità spinga a manipolare i mercati. Perché questi giganti, ormai intrecciati in mille modi con lo Stato, con le autorità di controllo e con la politica, non sono il mercato, cioè la concorrenza: sono la sua manipolazione, la sua negazione.
Il rischio e l’ombrello
A questa situazione si è arrivati per molte vie. L’ex presidente della Federal Reserve americana, Alan Greenspan, nei suoi anni di regno ha salvato la finanza di Wall Street dallo scoppio delle bolle delle dotcom e immobiliari immettendo liquidità infinita nel sistema, e poi salvò, probabilmente senza una ragione di pericolosità sistemica, l’hedge fund Ltcm, attraverso un bail-out indiretto. Dall’altra parte, l’era dei salvataggi era stata aperta da un segretario al Tesoro anch’egli, come Paulson, ex della potente Goldman Sachs, Robert Rubin, che nel 1995 aveva congegnato il salvataggio del Messico. È in questo clima che nasce e si apre l’ombrello del too-big-to-fail. Perché le grandi banche si sentono invulnerabili. Ma anche perché la fine della separazione tra le banche commerciali (retail) e le banche d’investimento ha fatto sì che due settori non necessariamente accumunati negli interessi si trovassero dalla stessa parte nel fare lobby e soprattutto che sia le banche retail che quelle d’investimento mettessero tutte le loro uova nello stesso cesto, cioè facessero le stesse cose.
Vie d’uscita
Quando in America era in vigore il Glass-Steagall Act, cioè la separazione tra istituti retail e d’investimento, le crisi che colpivano uno dei due settori erano spesso controbilanciate dal fatto che l’altro non ne soffrisse, come accadeva prima del 2008.
Oggi, invece, tutti fanno la stessa cosa e, quando la crisi ha colpito, tutti ne sono stati travolti. Il fatto che, dopo il caso Barclays-Libor, si parli della reintroduzione di regole del tipo di quelle del Glass-Steagall Act è probabilmente positivo. Le riforme per affrontare il too-big-to-fail, infatti, finora non hanno funzionato.
Nei giorni scorsi, alcune grandi banche hanno presentato negli Stati Uniti il loro Living Will, un po’ le ultime volontà, un pò un testamento biologico: una richiesta della riforma finanziaria Dodd-Frank che dopo la crisi del 2008 ha cercato di affrontare il problema. Nel Living Will, banche come JPMorgan Chase, Citigroup, Bank of America, Ubs, Deutsche Bank hanno presentato piani che immaginano cosa potrebbe succedere se la banca fallisse e non venisse salvata dallo Stato.
Perplessità
Tutti hanno più o meno scritto che il loro core business è così buono che altri correrebbero a comprarlo: sarebbe «altamente attraente» per i concorrenti, ha scritto JPMorgan. Ognuno ha dato garanzie, ma secondo gli analisti niente di credibile. Quella che doveva essere una colonna portante della riforma finanziaria è in realtà un pannicello caldo.
«Semplicemente un esercizio per fare sentire meglio alcune persone», ha commentato Mike Mayo, un analista del Crédit Agricole. Dall’altra parte, la cosiddetta Volker Rule, che impedisce alle banche commerciali il proprietary trading — in sostanza di investire in Borsa — è limitata rispetto alla portata del Glass-Steagall.
Separare le banche commerciali da quelle d’investimento, riportarle a business diversi e metterle anche in concorrenza per quel che riguarda l’attività di lobbying non è forse la fine del too-big-to-fail. Ma se regole del genere fossero in vigore, la vecchia e gloriosa Barclays Bank, istituto dell’inglese medio e dell’imprenditore solido, non si sarebbe gettata dalla finestra, non sarebbe finita a manipolare il Libor e a mettere in dubbio la reputazione dell’intera City di Londra.
Danilo Taino