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 2012  luglio 08 Domenica calendario

IL SOGNO DELLO SCERIFFO ROSSO: «UN’ALTRA GERMANIA» —

Che Berlino sarebbe stata circondata da un Muro, lo seppe mesi prima dal sarto. Otto Schily era arrivato nella metropoli tedesca da Bochum, alla fine degli anni Cinquanta. Si era appena laureato, faceva pratica prima degli esami da avvocato. «La città mi affascinava, era grande, piena di verde. La presenza degli Alleati le dava una dimensione cosmopolita e unica. Ci si poteva ancora muovere Est e Ovest. A Est andavo a comprare libri e soprattutto a farmi fare i vestiti. Avevo già allora alcune pretese di eleganza. Avevo trovato un sartino molto bravo, compravo le stoffe inglesi al mercato nero qui a Ovest e gliele portavo per farne giacche e pantaloni. Un giorno della primavera del 1961 andai a trovarlo per una prova: "Dottor Schily — mi disse — le devo dare una brutta notizia. Presto non potrò più farle i vestiti. Costruiranno un muro intorno a Berlino Ovest". Non gli credetti, risposi dicendogli che era una chiacchiera metropolitana. Non si poteva murare una città intera. Invece aveva ragione, in agosto chiusero i varchi e cominciarono a costruire il Muro. Col senno di poi, mi sono sempre detto che se un piccolo sarto di Berlino Est lo sapeva, dovevano saperlo anche i servizi segreti occidentali. Evidentemente americani e inglesi avevano accettato la prospettiva della città divisa, forse anche a causa dei rifugiati che passavano in massa e che erano una vergogna per l’Est e un problema per l’Ovest. Per noi berlinesi, fu una tragedia. Ricordo che mentre lo costruivano, guidavamo con l’auto suonando il clacson fino agli sbarramenti, al limite della terra di nessuno. Era un’azione di protesta, figlia dell’esasperazione e della rabbia, del tutto inutile».

Tempus Fugit, è scritto sotto una meridiana nel muro della casa di Schily, sulle colline senesi. È qui, nell’amato buen retiro toscano, che l’ex ministro dell’Interno tedesco venerdì 20 luglio festeggerà ottant’anni. Schily cede volentieri alla piccola vanità di notare che è lo stesso giorno nel quale la Germania moderna ricorda e celebra il fallito attentato a Hitler del 1944, quando un drappello di ufficiali guidati dal conte von Stauffenberg cercò di salvare l’onore perduto della nazione. E forse nascere in quella data è stato proprio un auspicio. Poiché negli ultimi cinquant’anni di storia tedesca, pochi personaggi più di Otto Schily ne hanno accompagnato e incarnato i momenti fatali, le svolte brusche, i passaggi cruciali e i cambi di stagione.
Il trauma del Muro incise profondamente nella psiche dei berlinesi occidentali, provocando anche strane reazioni. «Ci sentivamo un po’ abbandonati, le grandi industrie erano andate via, le famiglie emigravano». Ma nella primavera del 1963, Otto Schily attaccò le sue speranze a un lampione: «Arrivò John Kennedy. Lo accogliemmo con l’entusiasmo di chi sentiva finalmente di avere un amico in grado di proteggerlo. Il presidente americano parlò dalla Rathaus Schöneberg, dove allora era l’ufficio del borgomastro. Fu una cosa straordinaria. La piazza era stracolma, più di 500 mila persone. In effetti per vederlo mi arrampicai su un palo per l’illuminazione e rimasi lassù tutto il tempo. Quando disse "Ich bin ein Berliner" la gente era in delirio».

Fu in quel bellissimo ’63 che Schily ottenne la licenza di avvocato. Aveva trovato lavoro presso un grande studio, guidato da un principe del foro di orientamento conservatore. «Mi occupavo di diritto dell’economia, eredità, un po’ di lavoro. Un filone importante dello studio erano le richieste di indennizzi delle famiglie ebraiche, ma non era un compito mio». Poi il rapporto con lo studio aveva cominciato a guastarsi. Nel 1967 Schily aveva sposato in prime nozze Christine, molto attiva nel movimento studentesco allora appena sbocciato: per lui, giovane liberale, si era aperto un mondo. Un altro incontro importante, all’inizio solo professionale, fu quello con Horst Mahler, avvocato già famoso, futuro co-fondatore della Rote Armee Fraktion, prima di approdare ai lidi del neonazismo e dell’antisemitismo. «Era stato mio avversario in un processo civile per un’eredità. Lui già molto celebre, io alle prime armi. Pensava di fare di me un boccone. Ma perse la causa e — diciamo così — mi ha notato. Mi invitò a impegnarmi nei gruppi repubblicani, che allora erano centri di dibattito liberali».
Il 1 giugno 1967 a Berlino ci fu un convegno alla Frei Universitaet. Uno studente iraniano, Baaman Niruman, tenne un discorso molto infuocato contro lo scià di Persia. Il giorno dopo una dimostrazione contro il regime di Rezha Palevi finì in tragedia. Un poliziotto sparò, uccidendo lo studente Benno Ohnesorg. La storia tedesca di quegli anni forse cambiò in quel momento. Sicuramente cominciò un Sessantotto dal quale si sarebbero poi aperte pagine buie e mortifere. Al processo, Schily fu avvocato di parte civile: «Rappresentavo il padre del ragazzo. Fu un mandato che ricevetti attraverso Mahler. Il poliziotto fu assolto, ma chiesi e ottenni la revisione del processo. Fu assolto di nuovo, ma il processo mi diede una certa popolarità. Dopo il 1989, si è scoperto che il poliziotto lavorava per la Stasi. Seguirono altri processi, nei quali difesi studenti fermati durante manifestazioni».
Poi, sul banco degli accusati si ritrovò lo stesso Horst Mahler, arrestato e denunciato dopo una violenta protesta contro la casa editrice Springer, considerata responsabile della campagna di odio che aveva portato al tentato omicidio e poi alla morte di Rudi Dutschke, leader del movimento studentesco. Mahler fu condannato. Ma il suo difensore, un certo Otto Schily, catturò l’attenzione di tutto il Paese, costringendo l’editore Axel Springer in persona a testimoniare. «Ero diventato l’avvocato dei Sessantottini, per quanto non fossi uno di loro, né anagraficamente, né ideologicamente».
Fu in questi ambienti socialisti, marxisti, libertari che Schily conobbe Gudrun Ensslin, fin lì sostenitrice di Willy Brandt. Gli avvenimenti politici incalzavano. Dal 1966 al 1969 la Germania era stata governata dalla prima Grosse Koalition, Kurt Kiesinger cancelliere, Willy Brandt ministro degli Esteri. Contro questo sviluppo politico era nata e aveva preso piede l’Apo, l’opposizione extraparlamentare. Non c’era più spazio nel perimetro delle forze parlamentari tradizionali.
La svolta fu il processo per l’incendio alla Kaufhaus a Francoforte. Accusati e rinviati a giudizio, per averlo appiccato con una molotov, furono Gudrun Ensslin, Andreas Baader e altri. Fu la prima difesa di Ensslin accettata da Schily. Ebbero tre anni di reclusione. Ma poco tempo dopo vennero rilasciati grazie a un’amnistia.
La clandestinità di Baader cominciò nel 1970, con l’evasione dal carcere resa possibile dall’aiuto di Ulrike Meinhof, giornalista molto celebre che si era progressivamente avvicinata all’Apo. Fu l’atto di nascita della Raf, la Rote Armee Fraktion, che iniziò la sua attività terroristica con le rapine alle banche. Li arrestarono nel 1972, prima la Ensslin, poi in un conflitto a fuoco Baader, Meinhof e Jan Carl Raspe. Il processo cominciò a Stammheim nel 1975 e fu il più lungo della storia tedesca.
Racconta Schily: «Difesi ancora Ensslin, nel collegio c’era anche Hans Christian Ströbele, futuro deputato dei Verdi. All’inizio fu una difesa collettiva. Poi ognuno andò per conto suo. Nel frattempo, accanto agli avvocati di fiducia erano stati nominati dei difensori d’ufficio. Quindi nella difesa si sovrapposero due strategie, una tecnica, una politica». Anche col senno di poi, Schily è convinto che la sua fosse la scelta giusta: «Il punto era, e lo è ancora oggi, la presenza di una componente politica incontestabile. Ci sono crimini politici e c’è una politica criminale. Dire che ci fosse una dimensione politica nelle azioni della Raf non significa darne un giudizio positivo. L’ho detto anche all’Accademia Cattolica: trattare questo tipo di azioni come criminalità comune ci conduce a un vicolo cieco. C’era un retroterra politico e questo è indiscutibile. Se la società si vuole confrontare e se processo e condanna devono avere una funzione catartica, allora ha senso discuterne nel dibattimento. La Corte fece uno sforzo sistematico per tener fuori questa dimensione. La difficoltà per noi difensori fu naturalmente che i clienti non volessero avere nulla a che fare con lo Stato, mentre noi avvocati volevamo e dovevamo rimanere sul terreno dello Stato di diritto».
Il processo durò fino al 1977. Ci fu lo scandalo delle intercettazioni delle conversazioni telefoniche degli avvocati della difesa, motivo più che sufficiente per annullare tutto. «La nostra istanza fu respinta. Furono momenti di grande tensione. Poi venne la condanna, che di fatto non entrò mai in vigore: nel frattempo gli imputati morirono in carcere. Ufficialmente suicidi».

Fu un’esperienza pesante. Mentre le colonne dei terroristi in libertà rapivano e assassinavano imprenditori e banchieri, Schily venne sottoposto a attacchi, umiliazioni, fatto oggetto di sospetti e calunnie da parte dei media conservatori. «Ma fu pesante anche sul piano economico — aggiunge con un sorriso —. Così, parallelamente, per guadagnare qualcosa, accettai anche mandati in cause civili di diritto proprietario. Fu durante un’udienza a Berlino, che mi arrivò la notizia: gli imputati sono morti a Stammheim. Andai subito a Stoccarda. Una storia terribile. Mai veramente chiarita. Nel frattempo si è appurato che un’arma era arrivata all’interno, grazie a un poliziotto. E che la Stasi fosse legata a doppio filo alla Raf».

Il tragico autunno tedesco non finì a Stammheim. Ma finì l’esperienza di Schily come legale dei terroristi. Gli anni ottanta si aprivano con un nuovo rigurgito di Guerra fredda, innescato dal delirio senile e bellicista della Russia di Breznev. La società tedesca registrava nuovi sussulti e nuovi bisogni, cresceva il movimento anti-nucleare e pacifista, maturavano le prime rivendicazioni ambientaliste. Per Schily era giunto il tempo di un più diretto impegno in politica. «A Berlino nel 1979 nacque una Lista Alternativa per la difesa dell’Ambiente. Il nome lo inventai insieme a Linda, la mia seconda e attuale moglie: c’era di tutto, ecologisti, ex maoisti, fuoriusciti della Spd, neutralisti». L’anno dopo fu tra i fondatori dei Grünen. Un ciclone che in soli tre anni spazzò il paesaggio politico tedesco, cambiandolo per sempre. Sotto il 5% alle elezioni federali del 1980, i Verdi arrivarono al Bundestag nel 1983. Otto Schily fu parte di quel drappello. Fu una rivoluzione: per la prima volta nel Dopoguerra un quarto partito entrava nella geografia federale, aprendo nuove prospettive.
L’esordio fu pieno di ingenuità e massimalismi. Ma anche di semina per il futuro. Schily ricorda con orgoglio il suo contributo personale al lancio di una vera stella della politica renana. «Ricevetti la telefonata da un amico ecologista: "Viene un giovane deputato da Francoforte, un certo Joschka Fischer. È bravo, seguilo", mi disse. Secondo la logica egualitaria dei Verdi, Joschka diventò capogruppo, un posto importante. Ma mostrò subito di avere qualità di leadership e un senso innato della politica. Fu lui a decidere dove dovevamo sederci al Bundestag: a sinistra della Spd sembrava la soluzione più logica. No, disse Joschka, noi staremo al centro, a destra della Spd e a sinistra della Cdu. Geniale. Joschka diventò molto amico di Wolfgang Schäuble, allora suo omologo nella Cdu. Divenne subito espertissimo di procedure parlamentari. All’inizio abbiamo avuto un rapporto difficile, lui arrivava spesso in ritardo come gran parte dei Verdi e questo mi faceva molto arrabbiare. Ma poi ci siamo piaciuti e abbiamo avuto un rapporto fortissimo. Aveva, ha un temperamento ribelle e spesso dovevo riportarlo alla ragione. Però nella corrente dei cosiddetti realò, abbiamo lavorato molto bene insieme».
Amico di intellettuali e artisti, primo fra tutti Joseph Beuys; seguace della filosofia antroposofica di Rudolf Steiner; raffinato nel vestire; prussiano nelle abitudini; difficile e a tratti autoritario nel carattere, Schily visse sin dall’inizio un rapporto travagliato con i Verdi, scapigliati, sciattoni, protestatari, insofferenti a ogni disciplina. Un tema di dissidio fondamentale fu quello del monopolio della violenza da parte dello Stato: «Per me era ed è uno dei pilastri di ogni democrazia, la conditio sine qua non di una società organizzata». Ma l’avvicinamento alla Spd «fu un percorso lungo e anche doloroso». Furono soprattutto le lunghe discussioni con Peter Glotz, una delle menti più lucide della socialdemocrazia, a convincerlo. «Ho aderito alla Spd nel 1989. Ma non mi sono trasferito da un gruppo parlamentare all’altro: mi sono dimesso dal Bundestag, restituendo il mandato ai Verdi».
Nel Parlamento di Bonn sarebbe tornato da socialdemocratico nel 1990, nelle prime elezioni della Germania riunificata. Amicizie e conoscenze di quel periodo erano soprattutto quelle della Provinz, luogo topico della Bonner Republik. «Era una kneipe dove andavamo la sera, deputati e giornalisti, a bere e mangiare qualcosa, intavolando lunghe discussioni. Lì cominciai anche a frequentare un deputato della Bassa Sassonia, Gerhard Schröder. Ma non eravamo in grande confidenza».
Fu durante una di quelle serate, dopo abbondanti bevute, che qualcuno scrisse su un tovagliolo di carta l’organigramma di un futuro governo rosso-verde, poi rivelatosi profetico: Schröder cancelliere, Fischer agli Esteri, Schily all’Interno. Almeno così dice la leggenda che, giusta la lezione di John Ford, è quella che è stata stampata. Schily si schermisce: «Raccontata così è proprio una leggenda. È vero che discutevamo molto. Si facevano piani. Forse si fantasticava. Proprio così, non me la ricordo. Però se non è vera, è ben trovata».

La riunificazione e i primi anni Novanta segnarono l’apogeo di Helmut Kohl. Eppure, a differenza di Joschka Fischer, che attaccava il grande cancelliere con tale feroce ironia, da farlo esplodere ogni volta in roboanti risate, Otto Schily ha avuto con Kohl un rapporto sempre difficile e conflittuale. «È vero. Non ci siamo mai piaciuti. Il mio giudizio è ambivalente. Helmut Kohl ha l’incontestabile merito di aver ottenuto la riunificazione tedesca dentro un quadro europeo. Allora ebbi la sincera paura che rischiavamo di ripiombare nel nazionalismo. Ma Kohl ha capito che la riunificazione poteva darsi solo se allo stesso tempo la Germania fosse stata ancorata ancora più saldamente all’integrazione europea. Un’impresa storica. Dall’altra parte, sono stato in conflitto con lui per il suo lato oscuro sul tema del finanziamento dei partiti. Già al tempo del primo scandalo, quello dei fondi neri di Flick, fu indagato per falsa testimonianza. Lo interrogai personalmente in commissione d’inchiesta, dov’ero il rappresentante dei Verdi, rivolgendogli una domanda diventata famosa: Chi era il donatore? E lui rimase zitto. In televisione il suo compagno di partito Heiner Geissler parlò di "black out" di Helmut Kohl. Lo stesso silenzio che avrebbe opposto dopo, nel 2000, rifiutandosi di rivelare i nomi dei suoi finanziatori illegali. Ma poiché sono un conciliatore, dico anche che i suoi servizi storici alla nazione e all’Europa, di gran lunga sopravanzano questi aspetti meno nobili».
I sedici anni del regno di Kohl finirono nel settembre 1998. I tedeschi dissero «Grazie Helmut, adesso basta» e come nella profezia della Provinz mandarono alla cancelleria Gerhard Schröder alla guida di un governo rosso-verde. Fischer agli Esteri, Schily agli Interni. Cominciava la Berliner Republik. Nei sette anni al potere Schily è stato definito lo «sceriffo rosso», per la fermezza (durezza, dicono i suoi critici da sinistra) con cui ha affrontato sfide difficili: dal terrorismo islamico all’immigrazione clandestina, dal neonazismo alla sicurezza interna. Di due cose va soprattutto fiero: «Credo che una socialdemocrazia debba far sua una politica interna che ponga al primo posto la sicurezza dei cittadini. Tony Blair ha detto che "law and order" è un tema laburista. Lo sottoscrivo pienamente. Ha naturalmente anche una dimensione sociale: duri contro la criminalità, duri contro le cause del crimine. Questo per la Spd era stato fino ad allora un tema complicato, non suo. Con me è cambiato».
Ma il merito storico del ministro Schily è probabilmente un altro: la nuova legge sulla cittadinanza che ha eliminato lo ius sanguinis, anacronistica eredità del Reich guglielmino, introducendo lo ius soli. Dopo Schily, chiunque sia nato in Germania può diventare cittadino tedesco. «Una moderna democrazia deve darsi regole moderne per l’immigrazione e la cittadinanza: noi lo abbiamo fatto, eliminando il diritto di sangue e regolando in modo realistico ma aperto le regole sull’immigrazione». Poi c’è un terzo punto del quale va fiero: «L’aver contribuito all’organizzazione e al successo dei Mondiali di calcio nel 2006. Quella manifestazione ha cambiato l’immagine della Germania, milioni di visitatori hanno trovato una nazione accogliente e gentile. Fu un evento sportivo e culturale. Per voi italiani, poi, i Mondiali si sono anche chiusi in grande gaudio».
La nostra cavalcata si conclude con un pensiero all’Europa. Schily, che si compiace nel definirsi un piccolo contadino toscano, mi indica la scritta sotto la meridiana: Tempus Fugit. «Non ci è rimasto molto tempo e sono preoccupato, poiché temo che proprio qui in Germania non stiamo capendo come la nostra economia e la nostra società possano prosperare solo nel pieno ancoraggio all’Europa. Non abbiamo altre chance. È un’incomprensione purtroppo riscontrabile non solo a livello dell’opinione pubblica, ma anche dei responsabili politici. Anche nelle discussioni che sento la sera in cene o occasioni sociali, dove partecipano manager, esponenti dell’economia, studiosi, mi pare che una visione molto miope si stia facendo strada. Questo governo è stato troppo titubante, ha esitato, ha agito per piccoli passi e sempre in ritardo, mai con una visione. Per la mia generazione che da ragazzi ha visto la Germania distrutta fisicamente e psichicamente, il più grande successo è stata l’integrazione europea. È un’idiozia, oggi, pensare di tornare al marco. Sarebbe un suicidio soprattutto per il Mittelstand, le piccole e medie imprese che sono l’ossatura della nostra economia. Ci sono vari modelli, ma dobbiamo agire insieme e la Germania dev’essere in testa. La direzione è quella, solidarietà finanziaria, governo comune dell’economia, integrazione, unione politica». Buon Compleanno, Otto Schily!
Paolo Valentino