Marco Imarisio, la Lettura (Corriere della Sera) 08/07/2012, 8 luglio 2012
BASKET, LA STORIA IN TRE SECONDI - G
li americani sono spietati con i perdenti. Anche quando sono loro a essere battuti. «E adesso un bell’applauso alla prima squadra Usa sconfitta in una competizione olimpica».
Nel 1984 i cinque cerchi tornarono in America dopo un’assenza durata 52 anni. Al Forum di Los Angeles, nella giornata inaugurale del torneo di basket, andò in scena la parata dei vincitori delle passate edizioni. Tutti a stelle e strisce. La pallacanestro è nata qui, è il gioco nazionale, le cartoline dei campi di grano del Midwest o delle metropoli hanno sempre un cesto e una retina sullo sfondo. Sette medaglie d’oro, a partire dal 1936, Berlino, quando il basket divenne sport olimpico. Tutti, tranne uno. Il kiddie corps, la pattuglia dei ragazzini. L’annuncio dello speaker fu un gesto di involontaria crudeltà. Venne seguito da sparuti applausi, molto silenzio, altrettanto imbarazzo. Al centro del campo, Doug Collins trattenne a stento le lacrime. «Fu un’ulteriore ingiustizia. Mi fece male, e mi fa male parlarne oggi».
Monaco, 9 settembre 1972, Rudi-Sedlmayer Halle, finale per la medaglia d’oro. Urss 49-Usa 48, sette secondi alla fine. Collins recupera il pallone decisivo, si butta verso l’area degli avversari. Viene fermato da un fallo terminale. Si rialza. Batte i tiri liberi. Due su due, Urss 49-Usa 50. I giovani americani hanno completato una rimonta pazzesca contro una squadra di volponi che vivono per sconfiggere l’Amerika. C’è un problema, però. Mancano tre secondi alla fine. I tre secondi più famosi della storia del basket. E della Guerra fredda tra le due superpotenze mondiali. Maestro di Michael Jordan, coach dei Sixers di Philadelphia, Collins è uno dei personaggi più rispettati dello sport americano. Marito, padre, nonno. «Ho avuto una vita felice. Ma se Dio mi concedesse di tornare indietro, per una volta, non avrei dubbi: chiederei di poter rigiocare una partita. Quella».
Le speranze riposte dalla Germania sulla ventesima edizione dei Giochi erano diverse da quelle di ogni altro Paese organizzatore. Monaco 1972 doveva cancellare Berlino 1936, la passerella del nazismo. Mai come questa volta lo sport avrebbe dovuto unire. Andò male, anzi peggio. La mattina del 5 settembre un commando di terroristi palestinesi prese in ostaggio per due giorni la delegazione israeliana. Morirono 9 atleti e 2 allenatori. La finale di basket si giocò appena quattro giorni dopo, atto di chiusura dell’Olimpiade più amara. A guardarla con gli occhi di oggi, c’erano i presupposti per uno sforzo di fratellanza. Ma era il mondo diviso della guerra in Vietnam e della cortina di ferro. E quella non era una semplice partita. Non era sport.
Tre secondi sul cronometro, sembra finita. I russi fanno la rimessa dal fondo. Non arrivano neppure a tirare. Gli americani si abbracciano, pazzi di gioia. Fermi tutti. Nel caos generale, l’arbitro bulgaro Artenik Arabadjan ha fischiato con la palla ancora in gioco. Gli ufficiali di gara stabiliscono che tra il primo e il secondo tiro libero di Collins la panchina sovietica aveva richiesto invano un minuto di sospensione. Le squadre vengono rimandate in campo. Gli arbitri decidono di ricominciare il match da dove era stato interrotto: un secondo alla fine. Dalle tribune scende William Jones, segretario della Fiba, l’organo di governo del basket internazionale. Un uomo potente, ma che in quel momento sa di essere uno spettatore qualsiasi, senza alcun diritto e potere di intervento. Invece ordina di resettare il cronometro sui tre secondi. In una confusione tremenda, i sovietici rifanno la rimessa, perdendo il pallone. Gli americani esultano nuovamente. Niente da fare. La sirena è suonata troppo presto, fu questa la spiegazione ufficiale. Jones, un signore inglese che a suo tempo aveva dichiarato di ritenere dannosa «la dittatura» americana sul basket, impone agli arbitri di far rigiocare gli ultimi tre secondi. La delegazione Usa minaccia di abbandonare il campo. È l’allenatore Hank Iba che decide di restare. Con l’aria che tira, è certo che la sua squadra sarebbe stata squalificata a tavolino.
La terza rimessa è quella buona. Arabadjan si avvicina a Tom McMillen, il giocatore incaricato di pressare Ivan Edeshko, l’avversario che deve rimettere la palla in gioco. Gli dice di allontanarsi. L’americano obbedisce. Teme che altrimenti gli possa fischiare contro un fallo. Adesso il russo ha la visuale sgombra per lanciare la palla al compagno di squadra appostato sotto al canestro avversario. Tre, due, uno. Aleksandr Belov si libera dei difensori americani. Urss-Usa 51-50. «Suppongo che adesso sia davvero finita» dice sconsolato Frank Gifford, il telecronista che stava raccontando all’America la partita.
I tre secondi più lunghi della storia del basket sono oggetto di continue ricostruzioni, quasi sempre in contrasto tra loro. Dipende dai giorni, e dall’ideologia. «La più grande ingiustizia di sempre», «la madre di tutte le partite». Il muro di Berlino è caduto da tempo. Ma solo quello. Certe divisioni restano. «Non abbiamo mai avuto una possibilità», ricorda McMillen in una recente intervista al «Wall Street Journal». «Sembrava che la Guerra fredda dovesse essere vinta su un campo da basket. Era una questione politica, e noi non l’avevamo capito». Dopo quella partita proseguì gli studi a Oxford. Ex deputato democratico, è un imprenditore di successo. Ogni tanto gli capita di sentire in sogno l’incerto inglese dello speaker tedesco: la partita non è finita, si prega di mettere tre secondi sul cronometro.
Gli Usa fecero subito ricorso al Comitato olimpico, convinti che la gara fosse viziata da palesi irregolarità. I giocatori rimasero sul campo, mentre gli spalti si svuotavano. Anche il verdetto seguì la linea tracciata della Guerra fredda. L’appello venne rigettato per 3 voti a due. A favore il giudice italiano e quello di Porto Rico. Contrari, e non poteva essere altrimenti, Cuba, Romania e Ungheria. L’arbitro brasiliano Renato Righetto rifiutò di firmare il referto della partita. Disse che la vittoria dei sovietici era contro ogni regola. La sua testimonianza venne ignorata anche in appello. Dopo 63 partite l’imbattibilità Usa finì quel giorno.
I giocatori americani decisero di non presentarsi alla premiazione. Anche quel podio deserto fu una prima volta olimpica. Dodici atleti, dodici medaglie d’argento custodite nel caveau di una banca di Losanna, che nessuno ritirerà mai. A ogni decennale della partita il Comitato olimpico rinnova l’invito. Venitele a prendere, sono vostre. Kenny Davis, il capitano della squadra, ha fatto inserire una clausola nel testamento. La moglie e i figli non dovranno mai azzardarsi a ritirare quella medaglia. Questa estate, come ogni decennale, si ritroveranno tutti, per ricordare. Collins sarà a Londra, in veste di commentatore. «Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se quei tiri liberi fossero stati decisivi».
Belov, l’uomo che gli rubò un destino da vincente segnando il canestro della vittoria russa, tornò in patria da trionfatore. Aveva lavato l’onta della sconfitta di Boris Spassky, che una settimana prima della finale di Monaco era stato battuto dallo statunitense Bobby Fischer in una lunga partita di scacchi. Morì nel 1976, ucciso da una rara forma di tumore. L’eroe di quei tre secondi infiniti, era in carcere da mesi. Lo avevano arrestato per contrabbando di jeans americani.
Marco Imarisio