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 2012  luglio 08 Domenica calendario

CANCELLARE LE PROPRIE TRACCE. IN VERSI

Purificare la propria opera letteraria, cancellare le cose scritte un tempo per celebrare i potenti e che oggi appaiono reperti vergognosi di un cedimento che potrebbe deturpare un’immagine di purezza, è lecito? E se invece quelle parole, quei versi, quei colori fossero stati usati con entusiasmo e convinzione, e non per mero opportunismo, sradicarli dalla propria biografia intellettuale non sarebbe forse un atto di consapevole mistificazione, un gesto che dimostra l’incapacità di fare i conti con se stessi e con cosa si è pensato un tempo?
Ci sono versi di Wislawa Szymborska, la grande poetessa scomparsa il febbraio scorso, che non compaiono nelle antologie «autorizzate» dei suoi scritti. La volontà della Szymborska, come ha scritto Francesco Maria Cataluccio, era quello di «impedire che venissero pubblicati». Cancellati, vietati, proibiti, inaccessibili. Però, come riferisce Marco Filoni su «Panorama», una mano maligna li sta disseppellendo dall’oblio per distribuirli piratescamente presso le redazioni di giornali sparsi per il mondo. Il premio Nobel per la letteratura non voleva che si sapesse più niente di quelle poesie ripudiate. Ma il passato ritorna sotto forma di una memoria vendicativa. Quelle poesie dimenticate ricominciano a girare, provocando qualche imbarazzo. Sono inni a Lenin e a Stalin che la Szymborska vergò nella Polonia comunista degli anni Quaranta e Cinquanta. Nel ’49, peraltro, come ricorda lo stesso Filoni, la sua «prima raccolta» di poesie venne censurata perché non «possedeva i requisiti socialisti». Per eccesso di zelo, per compiacere il tiranno, per conquistare la possibilità di scrivere, oppure solo per banale e veniale conformismo, la Szymborska si adeguò agli imperativi del «realismo socialista» scrivendo versi dal tono esplicitamente servile in onore dell’ideologia dominante. Nella poesia «Entrare nel partito» scrisse: «Le domande sono severe/ ma così devono essere/ per chi ha scelto/ la vita da comunista». Oppure, nella poesia «Lenin»: «Ha costruito solide fondamenta/ la tomba dove riposa/ questa nuova umanità». E ancora, nella poesia intitolata «Un giorno» e dedicata alla morte di Stalin: «Le lettere inflessibili non riescono a mostrare/ la mia mano tremante/ il dolore che mi piega».
Frammenti di un passato sepolto frettolosamente che il premio Nobel per la letteratura ha voluto eliminare tassativamente dai libri che portano la sua firma. Eppure il meccanismo che ha portato tanti generosi scrittori e poeti dell’Est europeo ad adeguarsi alla «linea» imposta con arroganza dal potere comunista è stato descritto con grande precisione da Czeslaw Milosz nella Mente prigioniera o da Milan Kundera in molti suoi romanzi, primo fra tutti Il libro del riso e dell’oblio. Ma una comprensibile ansia di cancellazione ha fatto sì che tanti intellettuali che hanno scritto (o compiuto) opere di adulazione del regime abbiano evitato ogni resa dei conti con il passato. Non spiegando i motivi di quei versi o di quegli scritti, ma ignorandoli. Una rimozione molto tipica di chi ha vissuto l’epoca buia dei sistemi totalitari, dove le persone danno il peggio di se stessi per stare a galla o sono disposte ad azioni che in condizioni normali appaiono abiette, ma che nell’anormalità di un dispotismo asfissiante e pervasivo vengono vissute come una necessità non moralmente abominevole. Lo stesso Kundera ha dovuto rispondere a chi lo ha accusato di non aver rifiutato negli anni Quaranta pratiche delatorie nei confronti di dissidenti costretti a subire il rigore della dittatura nella Cecoslovacchia stalinista. E Christa Wolf è stata costretta a tortuose autogiustificazioni quando il suo nome è comparso nell’elenco degli informatori della Stasi, il regno della delazione nella Germania comunista, la più grande macchina spionistica messa a punto per invadere le «vite degli altri».
Non solo minimizzare, ma nascondere, cancellare. È la stessa pulsione che ha indotto Günter Grass a occultare per decenni la sua partecipazione volontaria, sedicenne ingenuo e infervorato dalla propaganda nazista, a un reparto delle Waffen SS. È lo stesso istinto al nascondimento che ha incoraggiato un numero impressionante di scrittori, poeti, artisti, architetti, musicisti, filosofi italiani a non dire nell’Italia antifascista di aver aderito nella loro vita «precedente» al fascismo, ai suoi riti, alla glorificazione del Duce. Dissero, come fece Giacomo Debenedetti, di aver scritto quegli elogi al fascismo con l’«inchiostro simpatico»: da cancellare prima ancora di essere messi su carta. Ma non è una spiegazione convincente. Anzi, appare una ricostruzione ex post sostanzialmente auto-giustificatoria. E certo, si capisce questa meticolosa pratica dell’auto-occultamento: chissà quanti attacchi, quanti «processi» postumi, quanti maligni rinfacciamenti, quante vendette. Si capisce che la Szymborska abbia voluto proibire che quelle poesie tanto imbarazzanti venissero lette e giudicate. Senza essere oltremodo severi, dalla posizione confortevole di chi non ha mai vissuto in un Paese totalitario, bisognerebbe tuttavia chiedersi se questa rimozione collettiva non abbia impedito di capire qualcosa di più sul funzionamento di quei sistemi, sulle vie sinuose e seduttive che hanno creato il consenso nei regimi dittatoriali, sulle pratiche di adattamento che tante brave e ammirevoli persone hanno dovuto adottare per vivere e non essere dimenticate o recluse. Ma anche sulla convinzione con cui tanti intellettuali hanno sinceramente creduto nell’ideologia che ha sorretto e alimentato quei sistemi.
Rinfacciare il passato a qualcuno che non ha commesso crimini, ma solo ceduto a comprensibili debolezze, potrebbe essere un esercizio cinico. Ma la mancata resa dei conti con il passato impedisce di capire tante cose, deforma la realtà, altera la percezione di ciò che è accaduto, mistifica e restituisce una memoria dimezzata del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Rivendicare la grandezza della Poesia violata potrebbe essere l’ultimo alibi per non voler comprendere il passato.
Pierluigi Battista