Stefano Montefiori, la Lettura (Corriere della Sera) 08/07/2012, 8 luglio 2012
LO SPREAD DELLA CITTADINANZA —
Nei giorni di project bond, euro-bill, Esm e Efsf, della serie infinita di incontri a due, poi a quattro e infine a Ventisette, i leader europei hanno combattuto per evitare che il continente sprofondasse nel disastro economico: un intervento di tecnica finanziaria, in emergenza, che andava fatto nella speranza di scongiurare il peggio. C’è da augurarsi che non si renda necessario sfiorare un analogo baratro perché gli europei, nei prossimi mesi e anni, si interroghino sull’altra emergenza, stavolta politica, che riguarda il mezzo milione di persone che abitano entro i confini dell’Unione europea. Chi sono, chi siamo? Residenti comunitari senza diritto di voto, cittadini, espatriati, stranieri? Come definirci?
Cittadinanza, il nuovo saggio scritto dal filosofo francese Étienne Balibar per Bollati Boringhieri, affronta l’altra grande questione emersa in questi anni di crisi economica, e cioè come sentirsi parte di una società dotata di senso, valori e principi. Su scala europea l’impresa appare gigantesca, se notiamo con quale disaccordo i due più grandi Paesi dell’Unione, Germania e Francia, si pongono davanti al processo che potrebbe un giorno farci diventare cittadini europei: «federalismo» secondo Angela Merkel, «integrazione solidale» per François Hollande, pronto ad avventurarsi in territori da neolingua orwelliana pur di allontanare l’idea di una vera unione politica.
Il saggio di Balibar è interessante perché ripercorre — attraverso le sue lenti di studioso dichiaratamente di sinistra, di formazione marxista — le tappe di una disgregazione sociale che si accentuata nei decenni e che rende oggi difficile a molti sentirsi «cittadini» di qualcosa. «La Francia (e in generale l’Europa) postcoloniale fornisce un’illustrazione quotidiana di tutto ciò (disgregazione ed esclusione, ndr): vi si ritrovano al tempo stesso, trasformati più o meno completamente in differenze di classe, i prolungamenti delle discriminazioni secolari esercitate contro il soggetto del dominio coloniale e le nuove varietà di cittadinanza passiva che derivano dall’indebolimento dei movimenti sociali e dalla loro incapacità di trasformare la società».
A giudizio di Balibar è difficile descrivere la cittadinanza perché, nell’Europa in crisi economica e di identità, essere cittadini, detentori di diritti, è sempre più legato alla contrapposizione con altri esseri umani che risiedono nelle stesse città ma che di quei diritti sono privi. Vige una sorta di «cittadinanza negativa»: «Si deve dire che sono sempre dei cittadini che, sapendosi o immaginandosi tali, escludono dalla cittadinanza e in questo modo producono dei non-cittadini, in modo da poter rappresentare a se stessi la propria cittadinanza come un’appartenenza comune».
Gli immigrati, i clandestini, protagonisti negativi della campagna elettorale per l’Eliseo — sia nel discorso di Marine Le Pen sia in quello della destra repubblicana di Nicolas Sarkozy — a giudizio di Balibar ormai esistono non tanto come minaccia ai valori e all’identità nazionale, ma anzi come fattore costitutivo al contrario: senza non-cittadini non ci sarebbero più cittadini.
La questione naturalmente non è solo legale e formale. In Italia giovedì scorso il presidente della Camera Gianfranco Fini ha dichiarato che «è necessario rivedere l’attuale legge sulla cittadinanza in modo da permettere alla "generazione Balotelli", cioè i ragazzi nati nel nostro Paese di diventare cittadini prima di raggiungere la maggiore età». Il vicecampione europeo di calcio Mario Balotelli, nato a Palermo da genitori ghanesi nel 1990, cresciuto con la famiglia adottiva in provincia di Brescia, è diventato «cittadino italiano» solo nel 2008, quattro anni prima di essere ricevuto, di ritorno dagli Europei, dal presidente della Repubblica al Quirinale. In Francia invece gli immigrati di seconda o terza generazione possiedono magari dalla nascita la cittadinanza, ma poi — per restare nella metafora calcistica —, protestano contro l’esclusione sociale fischiando la Marsigliese o sventolando negli stadi la bandiera dell’Algeria, in molti casi strumento di provocazione più che vero segno di appartenenza.
Balibar insiste più sulle ragioni economiche che culturali della crisi della cittadinanza. E quindi non può fare a meno di ricordare (per biasimarla) l’espressione del grande liberale Friedrich Hayek, quando riformulò il principio dell’homo oeconomicus nella forma «ogni individuo deve comportarsi come una piccola banca»: di questi tempi, non il più popolare dei paragoni.
Come essere cittadini, quando tutto quel che lo Stato ci ha chiesto per decenni è stato «diventare impresa di noi stessi», in base a quell’idea di razionalità neo-liberale che secondo la docente di Berkeley Wendy Brown incoraggia gli individui a «dare alla propria vita una forma imprenditoriale»? E adesso che in Grecia mancano le medicine e nei Paesi più affluenti dell’Europa occidentale molti rinunciano alle vacanze, non suona beffarda quell’ingiunzione a diventare tutti banche o imprenditori?
Balibar, allievo di Louis Althusser, entrò nel partito comunista in opposizione alla guerra d’Algeria per esserne poi espulso nel 1981, quando criticò l’azione anti-immigrati di un sindaco della banlieue parigina. Partigiano del no al referendum europeo del 2005 («Volevo un’Europa più federale e democratica»), intravede la nascita di un nuovo proletariato nella massa di stranieri, extracomunitari, rom, disoccupati e precari. Tutti, a vario titolo, non-cittadini.
La prospettiva diventa quindi «democratizzare la democrazia», secondo l’espressione adottata da teorici molto diversi tra loro, dai sostenitori della «terza via» come Anthony Giddens al portavoce dell’altermondismo Boaventura de Sousa Santos. Per Balibar ci troviamo di fronte, su scala europea, a un bivio epocale: o la cittadinanza avanza, enunciando nuovi diritti fondamentali (come la sicurezza sociale, il diritto al lavoro, la cittadinanza degli stranieri), oppure regredisce, perde i diritti acquisiti (compresi i diritti dell’uomo), e questi si trasformano nel loro contrario, «con diverse modalità antipolitiche autoritarie, burocratiche, discriminatorie». Anche qui, è all’Europa in costruzione che chiediamo di salvarci.
Stefano Montefiori