Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  luglio 08 Domenica calendario

ATTACCO AD HARVARD —

Tutto è cominciato con Salman Khan, padre del Bangladesh, madre di Calcutta. Un analista californiano di hedge fund coltissimo (tre lauree al Mit di Boston e un master ad Harvard) ma sconosciuto. Quando, nel 2004, la cugina Nadia gli chiese di aiutarla con qualche lezione di matematica via computer, Salman cominciò a mandarle appunti e spiegazioni usando il taccuino digitale di Yahoo! «Spiegava bene: altri parenti e amici si unirono a Nadia. Così l’analista decise di trasferire le sue lezioni su YouTube», racconta Angela Lin, direttrice di YouTubeEDU, l’area istruzione di quello che, grazie ai suoi video, è diventato il secondo sito più visitato al mondo.
«Fu un successo travolgente. Nel 2009 Salman lasciò la finanza per dedicarsi all’insegnamento digitale a tempo pieno. Creò la Khan Academy, il primo canale di insegnamento digitale su YouTube. Da allora l’analista divenuto docente ha messo in rete 3.000 conferenze e lezioni — matematica, ma anche fisica e diverse altre materie scientifiche — che, in media, sono state seguite da 20 mila allievi». Oggi il canale di Salman Khan ha 330 mila iscritti ed è la punta di diamante della piattaforma «education» di YouTube che, dice ancora la Lin, «ormai veicola una gran mole di lezioni per tutti i livelli scolastici, mentre la società di tanto in tanto organizza nella sua sede di San Bruno seminari per spiegare agli insegnanti delle scuole americane come utilizzare il materiale disponibile in Rete creando un’interazione tra le lezioni in video e l’attività didattica in classe».
Metodi nuovi che possono minare l’insegnamento tradizionale, le istituzioni scolastiche, i sindacati dei docenti. Ma, dopo le esitazioni e l’ostilità iniziale, «adesso i distretti scolastici collaborano» spiega la Lin. «Ce ne sono ormai 750 che lavorano con noi».

Ispirato anche dai successi di Khan, l’anno scorso Sebastian Thrun, un genio tedesco trapiantato in America dove ha fondato X Lab, i segretissimi laboratori di ricerca di Google, e dove ha (anzi aveva) anche una cattedra a Stanford, decise di inaugurare anche lui un ciclo di corsi online presso la celebre università di Palo Alto, insieme con Peter Norvig, un altro capo dei ricercatori di Google. Al corso di intelligenza artificiale si iscrissero 58 mila studenti che diventarono più di 160 mila (di 190 Paesi) quando la notizia si diffuse sulla stampa.
Lezione dopo lezione, furono in molti a mollare: chi si era iscritto per curiosità o non aveva voglia di lavorare duro, rispondendo ai quiz messi in rete ogni 5 minuti da Thrun. Ma 23 mila studenti sono arrivati in fondo, sostenendo anche l’esame finale. Lo scienziato tedesco si è reso conto di trovarsi a cavalcare una rivoluzione: con quel ciclo di lezioni digitali concentrate tra settembre e dicembre aveva addestrato più studenti che nei precedenti vent’anni della sua carriera accademica: «Sono piombato in uno stupefacente Paese delle Meraviglie dell’istruzione. Ora è la cosa che mi appassiona di più: ci sono ancora molti problemi da risolvere, soprattutto nella valutazione dei risultati, ma, per quello che vedo, credo che la democratizzazione dell’istruzione cambierà tutto».
Una scoperta che gli ha cambiato la vita: ha ridotto a un giorno alla settimana il suo impegno con Google e si è tuffato sulla nuova impresa dell’università online. Ma non con Stanford, che pure si è lanciata anche lei in questo nuovo business promuovendo l’alleanza Coursera con Berkeley, Princeton e le università del Michigan e della Pennsylvania. Thrun, che considera troppo rigide le grandi accademie tradizionali, si è messo in proprio lanciando Udacity: una nuova piattaforma di insegnamento digitale che — insieme ad altre start up, tutte sostenute da venture capital — sta contendendo il promettente mercato dell’insegnamento universitario in Rete a Coursera e a edX, l’altra grande alleanza accademica digitale: quella lanciata due mesi fa sulla East Coast da Harvard e dal Massachusetts Institute of Technology.

Le grandi accademie tradizionali, a cominciare da quelle, blasonatissime, della Ivy League, si sono mosse con tempestività: i loro due consorzi non profit hanno già cominciato a produrre corsi online pressoché gratuiti, guardando, come mercato, al mondo intero. Il presidente Obama benedice, sperando che il canale digitale serva alle università americane a consolidare la loro supremazia mondiale, fin qui affidata soprattutto alle teste di ponte create dagli atenei Usa in Europa, nel mondo arabo e in Estremo Oriente.
Annunciata da lungo tempo (il primo, fallimentare, tentativo della Columbia University risale a dieci anni fa), l’ora della rivoluzione dell’insegnamento digitale sembra giunta davvero: lo sviluppo della banda larga, delle tecnologie video digitali e l’incredibile diffusione dei social network hanno creato in brevissimo tempo condizioni molto diverse e favorevoli rispetto a qualche anno fa: anni punteggiati da esperimenti finiti nel nulla quando non, addirittura, da abusi come quelli commessi dall’Università di Phoenix con i suoi «laureati immaginari». Scandali arrivati a lambire la famiglia Graham, gli editori del Washington Post, il cui traballante bilancio è stato tenuto a galla dalla Kaplan, la società scolastica del gruppo, il cui ramo università nel 2010 è stato messo sotto inchiesta dal Congresso per la disinvoltura con cui concedeva titoli accademici.
Ora, però, alla possibilità di trasmettere ovunque, via video e con sistemi di traduzione automatica, le lezioni dei professori migliori (o più celebri) del mondo, si sono aggiunti strumenti nuovi: soprattutto alcune efficaci tecniche per verificare i livelli di apprendimento, ad esempio chiedendo agli studenti di rispondere in continuazione a quiz rapidi durante la lezione. Inoltre i meccanismi della rete sociale consentono agli studenti che hanno dubbi o non hanno capito qualche passaggio di ottenere entro pochi minuti una risposta alle loro domande dai professori o da altri studenti più preparati. È il trasferimento del modello collaborativo della Rete all’università realizzato attraverso apposite start up della Silicon Valley come Piazza: una parola italiana sinonimo di incontro, scelta per battezzare una piattaforma che cerca di ottimizzare la comunicazione a distanza tra i ragazzi che seguono i corsi e tra loro e i docenti. In questa piazza virtuale gli studenti si scambiano nozioni con la supervisione di istruttori che fungono da moderatori del dibattito.
Funzionerà davvero? «Certo, e dovete prepararvi a un vero tsunami», annuncia eccitato il «centauro» John Hennessy, attivissimo presidente dell’università di Stanford (un ateneo che ha brevettato ottomila invenzioni): una figura di accademico-imprenditore, visto che è anche consigliere d’amministrazione di Google e di Cisco Systems.
Ma qual è il «business model»? E le grandi università sono pronte a dare ai corsi online la stessa dignità di quelli seguiti nei loro campus da studenti che pagano anche 50 o 60 mila dollari l’anno per una laurea al top?
Davanti a queste domande tutto si fa più confuso. I corsi gratuiti per adesso sono sperimentali, promozionali, «laterali»: i grandi atenei Usa si danno da fare per mettersi in pole position con l’obiettivo di vendere, domani, i propri corsi alle università indiane, cinesi e brasiliane se questi Paesi, che hanno bisogno di molti laureati e hanno strutture scolastiche insufficienti, apriranno il loro mercato universitario.
Ma quando Sebastian Thrun ha provato a bruciare le tappe offrendo un intero percorso accademico gratuito, Stanford l’ha bloccato: per questo il fondatore di X Lab se n’è andato.
Ora a guidare il consorzio Coursera ci sono Andrew Ng, un altro professore di computer science, e la professoressa Daphne Koller, anche loro eccitati dall’aver scoperto che, come hanno confessato a Thomas Friedman del New York Times, avrebbero dovuto insegnare per 250 anni in una classe di Stanford per raggiungere i 100 mila studenti del loro primo corso. Per ora i corsi sono soprattutto quelli legati alle tecnologie digitali, ma Coursera, che fin qui ne ha messi in piedi una trentina, si sta allargando alle altre materie scientifiche. «E presto — promette Ng — la nostra offerta si allargherà a poesia, sociologia e medicina». Galoppa anche Udacity che ha già introdotto materie storiche e letterarie.
I dubbi, oltre a quelli sulla sostanza del business, comunque, non mancano: cosa faranno le università di secondo e terzo livello se i loro studenti vorranno seguire via video le lezioni delle star di Harvard e Berkeley? E, visto che l’insegnamento digitale si diffonderà anche nei licei e nelle scuole medie, come ci si regolerà se questa nuova offerta verrà sfruttata dagli integralisti religiosi per ritirare i figli dalle scuole e ricorrere all’«home schooling»?
Domande legittime, ma l’esperienza di questi anni ha dimostrato che l’avanzata tumultuosa delle tecnologie e la convenienza economica fanno premio su tutto. «Se un Nobel può insegnare a un milione di studenti a un costo molto basso, succederà», dice Terry Moe, studioso della Hoover Institution, centro di ricerche politiche e sociali di Stanford: la tecnologia, che costa poco, sostituirà il lavoro dei docenti, che è costoso, rendendo la scuola più efficiente, com’è avvenuto già per tanti altri settori produttivi.
Nessuno sa quale sarà il punto di approdo finale, ma le grandi università sperano di restare al centro di un sistema a più livelli nel quale i ricchi continueranno a frequentare i costosi campus «fisici», mentre chi ha minori disponibilità sceglierà quelli virtuali. Quanto ai docenti delle università «periferiche», continueranno a tenere i corsi solo nelle materie che richiedono una interazione continua con gli studenti. Per il resto si dedicheranno alle spiegazioni e alla valutazione del rendimento accademico degli studenti.

Ma non è affatto detto che l’aristocrazia accademica di oggi mantenga la sua leadership anche in futuro: la carica delle start up dell’insegnamento universitario, alimentata anche da incubatori come Imagine K12, è impressionante. A minacciare Yale e Harvard non è solo il fiorire di iniziative come Udacity, Piazza o l’università digitale a pagamento Minerva Project sulla quale si stanno investendo in venture capital 25 milioni e che aprirà i battenti nel 2014. Oltre al modo di fare lezione, potrebbe cambiare anche il modo di insegnare, l’intera struttura temporale sulla quale è costruita l’università: sono in molti a sostenere che, col cambiamento continuo delle tecnologie e dei mestieri, non ha più senso concentrare tutti gli studi superiori in un quadriennio (o quinquennio) ad alta intensità. Meglio sparpagliare l’insegnamento negli anni, a mano a mano che le esperienze e le professioni si evolvono. Già oggi a seguire i corsi di Udacity sono più professionisti a metà carriera che hanno bisogno di aggiornamento professionale che studenti alle prime armi.
La mina innescata sotto i grandi atenei sta in alcuni numeri forniti da Thrun al Wall Street Journal: tra i primi 400 classificati del suo concorso di computer science non c’è nessuno dei suoi 200 studenti di Stanford. Quello che ha fatto meglio è arrivato 411°. Criteri di valutazione affidabili? E che ne sarà dell’università tradizionale? «I problemi da risolvere sono ancora tanti — mette le mani avanti Thrun — ma è chiaro che le lauree spariranno e con esse l’idea di un periodo fisso di studio dopo il liceo che ti prepara per il resto della tua carriera. Le carriere, ormai, cambiano in continuazione: quel modello non funziona più».