Dario Di Vico, Corriere della Sera 08/07/2012, 8 luglio 2012
VITE DA DIPENDENTI PUBBLICI (PER PASSIONE) - I
l titolo «Impiegati» ricalca un vecchio film di Pupi Avati ma il libro rappresenta un tentativo della Cgil, a suo modo ambizioso, di narrare il vissuto dei dipendenti pubblici «oltre i luoghi comuni». Insomma di cambiare l’immagine degli statali raccontandone l’attaccamento allo «spazio pubblico» (dotta citazione nientemeno che di Hannah Arendt) e la loro etica del lavoro. Una risposta alle denunce anti-fannulloni che una parte della sinistra continua a vedere come una campagna ideologica orchestrata dalla solita e immancabile «destra retriva». Gli impiegati si chiamano Angelo, Monica, Sabrina, Alessandro e Rossella, lavorano all’Inps, all’Inail, nei ministeri, nelle agenzie fiscali, alla Protezione civile, nei centri di accoglienza, nelle carceri o fanno parte del corpo dei Vigili del fuoco. Ad intervistarli è stata una giornalista, Paola Lo Mele, che ha trovato qualche difficoltà a indicare per ciascuno il loro vero nome e cognome. Ma poi ce l’ha fatta.
Il minimo comune denominatore delle testimonianze dei nostri impiegati è la passione per il lavoro che fanno, la maggior parte di loro ha scelto il proprio mestiere e non l’ha invece subìto come l’ultima spiaggia prima della disoccupazione. E ciò fa sicuramente la differenza, perché nei loro racconti c’è quasi l’orgoglio di far parte dello Stato e di lavorare per venire incontro ai bisogni e alle esigenze dei cittadini. Dice Angelo Flamini, infermiere romano del 118: «Per fare il mio lavoro ho rifiutato una buona proposta all’Enel e mi piace il rapporto con la gente. Potrà sembrare retorica ma mi piace il fatto di poter aiutare gli altri, a volte di salvarli». Idem Franco Zelinotti, un vigile del fuoco di Marino, in provincia di Roma, di 45 anni: «Ho sempre voluto questo lavoro. Facevo ancora le elementari quando andai a vedere un saggio professionale di mio fratello alla scuola di Capannelle, dove si simulava un salvataggio. Più tardi ho fatto il concorso e l’ho vinto». Francesca Valentini ha 35 anni ed è assistente alla vigilanza e sicurezza presso la Galleria d’arte moderna a Roma, dice di amare il museo nel quale lavora e «soffro nel vedere che potrebbe andare molto meglio se ci fossero più mezzi e persone». Maurizio Carrozzi ha 48 anni e fa il tecnico della prevenzione in una Asl di Roma. Controlla che nei luoghi di lavoro vengano applicate le leggi che tutelano la salute dei lavoratori. «Una volta sono andato con un collega a controllare un ristorante del litorale che si vociferava fosse in odore di mafia ma anche lì abbiamo fatto il nostro sopralluogo». Antonio Marone di anni ne ha 50 è impiegato all’Agenzia delle Entrate di Latina e considera il suo lavoro una vera missione. «Le tasse servono perché lo Stato funzioni e offra servizi ai cittadini, quando vengono evase questi servizi si contraggono. Una volta Padoa-Schioppa disse che erano bellissime e fu criticato, ma aveva ragione da vendere». Francesco Bitossi è anche lui romano e fa il bibliotecario alla Alessandrina: «Sono contento del mio lavoro, è la professione che più si avvicina al mio amore per i libri, beni preziosi da custodire e divulgare». Rosa Maria Scalise è psichiatra, anche lei presso una Asl romana. «Ancora oggi continuo a svegliarmi con il piacere di andare a lavorare e l’incontro con persone sofferenti mi commuove. Mi affascina la complessità della mente umana in tutte le sue sfaccettature».
Attaccati al lavoro, contenti di essere dei piccoli civil servant che non faranno mai notizia, gli impiegati raccontati nel libro non operano sconti al loro datore di lavoro. Sono esplicitamente statalisti ma impazziscono di rabbia per le deficienze dell’amministrazione. Si sentono soci cooperativi della cosa pubblica in virtù del contributo che versano con il loro lavoro e dell’impegno che profondono per lo sviluppo civile del Paese e, di conseguenza, vorrebbero che tutto funzionasse come il famoso orologio svizzero. «Sono cinque anni che chiedo più addetti al servizio vigilanza e accoglienza, di questo passo non saremo in grado di garantire la tutela del monumento né l’accoglienza dei visitatori» dice Rossella Rea, direttrice del Colosseo. «Ho ideato un progetto di inserimento lavorativo per minori, invalidi e adulti svantaggiati, ci ho creduto ma ora non ci sono le condizioni per portarlo avanti» testimonia Rossana Latini, operatrice sociale a Tor Bella Monaca, uno dei quartieri più caldi di Roma. «Ci sono liste d’attesa infinite, anche due anni per gli interventi riabilitativi. Chi è benestante può pagare di tasca propria, chi non lo è no» denuncia Eliana Giorgi, terapista di bimbi disabili. Nella visione genuina di uno Stato-provvidenza gli impiegati vorrebbero che il pubblico assumesse di più, che per ogni pensionato subentrasse un giovane e quando l’amministrazione non rinnova il turn over loro insorgono. «Il sotto-organico è pauroso, solo io mi occupo di un centinaio di minori, più o meno problematici» accusa Giuseppe Cavallo. «Da anni non vengono fatte assunzioni e io che gestisco il personale sono costretto a chiedere gli straordinari» dice Giovanni D’Alessio, capo-infermieri al Policlinico Umberto I di Roma. Straordinari, che a detta loro, in diversi settori vengono pagati, se va bene, con grande ritardo. «Siamo costretti a lavorare sempre di fretta e sotto pressione perché mentre il personale è stato dimezzato le cause nel penale sono aumentate. E nel penale non ci si possono permettere ritardi, perché, se salta una notifica, salta il processo» riferisce Angela Miceli, 41 anni ausiliaria presso il ministero di Giustizia.
A fronte dell’impegno che tutti manifestano nel proprio lavoro l’auto-rappresentazione che i nostri impiegati hanno di sé tende però irreversibilmente verso il basso. Il primo misuratore che induce al pessimismo è il declino dello Stato, nessuno si illude che la tendenza alla privatizzazione si arresti e di conseguenza c’è il timore di diventare stabilmente lavoratori di una serie B. Il secondo indicatore di pessimismo viene dall’ammontare della paga mensile. «Abbiamo tagliato la pizza e le uscite la sera, i vestiti firmati, andiamo sempre al discount e non compriamo pane fresco tutti i giorni». «Il nostro stipendio medio alle Entrate è di 1.600 euro e ogni ora di missione fuori del nostro territorio comunale ci viene retribuita 86 centesimi, una cifra ridicola».
Ma lette le testimonianze e comprese le ragioni degli impiegati una domanda avanza prepotente: perché questo mondo non è stato capace di investire su così tanta disponibilità, come mai una riserva di etica personale e pubblica come quella che emerge dai racconti non si è trasformata in forza per il cambiamento? Una (prima) risposta al quesito viene, nello stesso libro, da un commento di ex dirigente Cgil poi diventato parlamentare del Pd, il bolognese Paolo Nerozzi. Ricorda come negli anni 90 si fosse aperta anche a sinistra una discussione sulla privatizzazione della pubblica amministrazione e la premiazione del merito. E come «il sindacato iniziasse a prendere coscienza delle differenze che c’erano tra chi lavorava veramente e chi timbrava il cartellino in ufficio e poi andava a gestire una pompa di benzina». La Cgil aveva preso coscienza che non poteva rappresentare tutti e che chi si impegnava andava incentivato e chi non faceva nulla andava lasciato al suo destino. Questo ripensamento si incontrò con l’azione di Massimo D’Antona, l’ispiratore della riforma Bassanini che, rammenta Nerozzi, «scommise sulle differenze interne al lavoro pubblico» e avviò la riforma del pubblico impiego. Dopo l’assassinio del giuslavorista, all’inizio del 2000, la stagione economica era migliorata ma la spinta riformatrice si fermò bruscamente. «In un momento storico in cui c’erano più soldi il sindacato non si occupò più del merito ma, nuovamente, di distribuire questi soldi» ammette Nerozzi. Amen.
Dario Di Vico