Pierluigi Battista, Corriere della Sera 08/07/2012, 8 luglio 2012
STATALI. FINE DELL’EPOPEA DEL TRAVET MESSO ALLA BERLINA DALL’ARTE
L’impiegato statale, da sempre, gode del posto fisso ma non della buona letteratura. È l’incarnazione della persona tranquilla ma priva di slanci e di rischi. Corazzata dalla stabilità, ma risucchiato nella monotonia di piccole cose immerse in un piccolo mondo di piccolissima borghesia. Spesso assenteista e «fannullone». Ma ora Monsù Travet rischia di vedere svanire sicurezza e prevedibilità, ordine e routine. Non godrà, come sempre, della buona reputazione letteraria ma, forse, neanche più del posto fisso.
Fare lo «statale» era il sogno dei genitori che volevano per il figlio o la figlia la solida certezza di un «posto», al riparo delle incertezze e della volatilità del «privato». Un posto con le mezze maniche di ordinanza in qualche ufficio pubblico. Dove non si guadagnava un granché, anche con gli avanzamenti di carriera e con gli scatti di anzianità, ma in compenso non ci si ammazzava di lavoro pur godendo, specialmente nei dintorni ministeriali di Roma e nel Mezzogiorno, di una considerazione sociale da non buttar via. Si sfiorava la commedia: come in Benvenuti al Sud, dove il nordico Bisio viene a gustare le delizie di un ufficio postale pieno di vita e di umanità, ma più impegnato nella pratica della tazzina di caffè che nel disbrigo degli affari correnti. O si sfiorava la tragedia, come nel Borghese piccolo piccolo, dove il padre Alberto Sordi vede il figlio colpito da un proiettile vagante mentre va a sostenere la prova del concorso per l’impiego tanto agognato.
Povero impiegato statale. Messo alla berlina come il protagonista del Cappotto di Gogol che, perdendo il soprabito acquistato con i risparmi di una vita, smarrisce il senso stesso dell’esistenza. Bonariamente messo alla gogna da Aldo Fabrizi che in un celebre sketch attribuisce allo statale (romano) nientemeno che l’«invenzione della pennichella», l’impiegato che ha «il diritto agli scatti ma io non scatto mai perché sono pacioso» ed è «stanco di non far niente». Fino ad arrivare, in Italia, alla monumentalizzazione delle miserie dell’impiegato modello: le disavventure del ragionier Fantozzi che se pure lavora in un’impresa privata sulle orme dell’Italsider, rappresenta l’epopea di umiliazioni di chi vive barricato dietro alle scartoffie, vittima dell’assoluta inutilità, circondato dall’atmosfera miserabile che emana dai suoi pari, vessato dal destino («la nuvola di Fantozzi») e soprattutto dalla crudele ferocia dei suoi superiori che lo calpestano, lo trattano come una persona senza dignità, come oggetto di un potere immenso e immeritato, capriccioso e dispotico da imporre la visione obbligatoria e reiterata della Corazzata Potemkin mentre la Nazionale di calcio gioca la sua partita leggendaria.
Non c’era bisogno di arrivare all’epica rovesciata di Fantozzi per constatare quanto nel mondo del cinema e della letteratura il «posto fisso» dello statale non sia mai stato visto come la dimensione più sexy dell’esistenza sociale. Ecco l’impiegato pubblico che Carlo Emilio Gadda ci fa intravvedere nelle pagine del Pasticciaccio: «Vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, con una o due macchioline». O la confessione riportata da Luciano Bianciardi nel suo Il lavoro culturale: «Aspiro a una vita tranquilla e decente: voglio un posto sicuro, meglio se nell’apparato statale». Perché l’«apparato statale», paradiso degli impiegati, viene fantasticato come un porto si sicurezza. E anche di «fannulloni», senza aspettare Brunetta: basta ricordare i portantini infingardi (romani, ovviamente) che perdono il loro tempo nel primo film di Carlo Verdone.
Che poi, la sicurezza del «posto» non ha mai coinciso del tutto con una accettabile sicurezza esistenziale, almeno nei codici del teatro, del cinema e del romanzo. Nelle Miserie del signor Travet, il film con Carlo Campanini e Alberto Sordi che Mario Soldati ricavò sul canovaccio delle avventure ottocentesche in dialetto piemontese del Monsù Travet di Vittorio Bersezio (i ministeri italiani erano di conio torinese), il povero impiegato statale, funzionario dell’«amministrazione regia», viene asfissiato da una moglie che sfodera uno snobismo per risarcire un’esistenza mediocre e priva di palcoscenici sociali anche lontanamente soddisfacenti. Come capita di frequente non solo in Italia, ma anche nella saghe americane in cui al centro della scena c’è il «white collar», rappresentante di un ceto medio impiegatizio che non ha mai sfiorato i vertici dell’avventura emozionante. Oppure nell’ennesimo capolavoro di Mario Monicelli (con la sceneggiatura del grande Steno), un Totò e i Re di Roma addirittura ricalcato su La morte dell’impiegato di Cechov, in cui «l’archivista capo» del ministero incorre nel peggior incidente che possa mai essere concepito nella mitologia dello statale perfetto: starnutire addosso nientemeno che al Direttore generale, con le conseguenze catastrofiche che è facile immaginare. Hanno tutti nomi d’ordinanza, questi impiegati vittime di un meccanismo che li stritola, pur tenendoli inchiodati alla certezza del «posto fisso»: Ercole Pappalardo. Oppure Emerenziano Paronzini, interpretato da Ugo Tognazzi in Venga a prendere un caffè da noi di Alberto Lattuada. I precursori del ragionier Ugo Fantozzi.
Ma la ricerca del posto fisso dell’impiegato è l’obiettivo che si nasconde in grandi film che pure raffigurano una parta della storia d’Italia. Nella Marcia su Roma di Dino Risi, Vittorio Gassman crede di acquistare con la partecipazione allo squadrismo il biglietto d’ingresso in un impiego statale nel prossimo regime mussoliniano. E qualche volta questo miraggio si trasforma in un dramma della miseria, come in Totò cerca casa in cui chi è gratificato dal posto fisso, ma mal retribuito, si mette all’affannosa ricerca di un alloggio, passando di giaciglio in giaciglio. Ora questo mondo potrebbe dissolversi, per entrare nell’universo mobile ma vertiginoso, se non della precarietà, almeno dell’instabilità. E un «privilegio» pagato a caro prezzo nella dimensione dell’estetica, della letteratura e della reputazione pubblica è sul punto di essere detronizzato, riducendo il destino dello «statale» (e del «parastatale») a quello di chi non ha mai conosciuto le gratificazioni del «posto fisso», e inamovibile. La fine di una storia, e di una mediocre leggenda. Niente è più solido, e fisso, come una volta.
Pierluigi Battista