Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  luglio 09 Lunedì calendario

PIAZZA AFFARI SUL VIALE DEL TRAMONTO ORMAI CAPITALIZZA UN QUINTO DEL PIL


La Borsa italiana cenerentola delle borse mondiali. Capitalizza ormai un terzo di quelle tedesca e francese, un ottavo di quella inglese. Sommando tutte insieme le società quotate si raggiunge un quinto del prodotto interno del paese e non si raggiunge la capitalizzazione della sola Apple mentre si supera di un soffio quella della Exxon. La dimensione ormai marginale non dice però tutto. Il problema vero è che la Borsa non svolge la sua funzione. Se il ruolo di un mercato azionario è convogliare risparmio per finanziare lo sviluppo delle imprese, ebbene quello italiano questa funzione non la assolve più. Da molti anni ormai i denari che arrivano alle imprese in occasione delle quotazioni e degli aumenti di capitale sono meno di quelli che escono dalle imprese quotate in direzione dei loro azionisti attraverso i dividendi, i buyback e le offerte pubbliche di acquisto. E’ un fenomeno che gli analisti chiamano de-equitization, che forse potremmo tradurre come de-azionarizzazione, riduzione del capitale di rischio. In realtà fino al 1998 le risorse che arrivavano attraverso la borsa alle società quotate e quelle che ne uscivano erano in sostanziale equilibrio. Dal 1999 in poi invece è iniziato il deflusso, massiccio e costante. Da allora con l’emissione di nuovi titoli sono stati raccolti complessivamente 140 miliardi. Nello stesso periodo sono stati pagati 285 miliardi di dividendi, a 135 miliardi sono ammontate le offerte pubbliche di acquisto, a 2,7 miliardi i buyback, gli acquisti di azioni proprie da parte delle società quotate (una pratica che è molto più diffusa sui mercati anglosassoni e solo marginale da noi). Il saldo tra i soldi che sono arrivati in Borsa e quelli che ne sono usciti è impressionante: 270 miliardi. Questo deflusso costante e potente di risorse, questa de-equitization galoppante impoverisce progressivamente il mercato, lo sfibra, lo rende più piccolo e più debole. Se oggi la capitalizzazione ammonta a 327 miliardi dipende in parte anche da questo. Non solo, ovviamente. Con la crisi del 2008 è crollato l’appetito per il rischio e tutte le borse occidentali ne hanno sofferto, e se quella italiana ha sofferto di più dipende dalla percezione del ‘rischio Italia’ dovuta alla dimensione del suo debito pubblico e ai dubbi che i mercati hanno sulla capacità del paese di sostenerlo (dubbi che sono rispecchiati dal famoso spread, il differenziale di rendimento tra i titoli pubblici decennali italiani e quelli tedeschi), nonché dal fatto che il l’economia è in recessione. Il prezzo pagato è nei numeri: a fine 2007 il listino di Piazza affari capitalizzava 723 miliardi (il massimo del decennio si è registrato nel 2000 con 790 miliardi), oggi la somma di tutte le società quotate vale meno della metà: siamo passati in quattro anni da una capitalizzazione pari al 49% del prodotto interno lordo ad una pari al 20%, un quinto. Troppo poco. Il dramma è che il sistema procede nella direzione perversa della de-equitizationproprio mentre le aziende italiane hanno invece un bisogno disperato di equity, di capitale di rischio. Il loro fabbisogno finanziario è storicamente coperto per una parte largamente preponderante (oltre l’80 per cento) con il credito, ma oggi è una struttura che non regge più. Per ragioni strutturali e per ragioni congiunturali. È il capitale di rischio che deve finanziare la ricerca e l’internazionalizzazione, e non è un caso se le imprese italiane investano troppo poco nell’una e nell’altra cosa. Tra le due componenti, credito e capitale, ci deve essere un equilibrio per sostenere nel tempo la crescita dell’impresa. Queste sono le ragioni strutturali. Quelle congiunturali - che però si stanno trasformando anch’esse in strutturali - sono legate al cambiamento enorme in corso nel mercato del credito. Le banche italiane impiegano di più di quanto raccolgono e non possono contare per sempre sulle iniezioni di liquidità della Bce per colmare la differenza, quindi la tendenza già in atto è quella di ridurre gli impieghi. C’è poi il problema dei requisiti di capitale delle banche sempre più stringenti, che spingono anch’essi verso una disintermediazione. Tutto questo riguarda la disponibilità progressivamente più limitata di credito. Poi c’è il problema del costo, che è in aumento. Se il credito facile non c’è più allora diventa urgente aumentare i mezzi propri, cioè il capitale. E qui siamo al punto: dove trovarlo? La risposta classica è “in Borsa”, ma in Italia oggi, come ieri e forse anche un po’ di più, questa strada sembra assai poco percorribile. «La Borsa italiana è troppo poco sviluppata per funzionare - dice Domenico Siniscalco, presidente di Assogestioni, l’associazione dei fondi di investimento - ci sono radici storiche per questo in un paese che è stato a lungo dominato dal capitalismo di stato e da quello familiare, ci sono ragioni istituzionali, ovvero una bassa protezione degli azionisti sia pure migliorata con la legge Draghi, e ragioni economiche: l’investimento in Borsa non rende. Ed è questa la ragione per la quale i la quota del patrimonio dei fondi d’investimento italiani investita nella borsa nazionale è tra l’1 e il 2%. Il paradosso - aggiunge Siniscalco - è che non riusciamo a portare il grande risparmio degli italiani là dove serve di più, ovvero verso l’investimento di lungo termine nello sviluppo delle imprese. E poi l’Italia non cresce: bella scoperta». Il problema della cultura dei risparmiatori è una faccia della medaglia, l’altra è la cultura del mercato. Difficile dimenticare i Tanzi, i Fiorani, i Ligresti. E difficile dimenticare che i non pochi aumenti di capitale fatti negli ultimi anni, oltre 50 miliardi tra il 2008 e oggi, sono andati in buona parte a coprire i buchi delle banche, mentre quelli che ci aspettano andranno a coprire i buchi delle assicurazioni. Le poche quotazioni di successo, da Cucinelli a Ferragamo, sono esempi felici ma non bastano. Quello che sta accadendo è un fenomeno strano. «A sostituire la Borsa nella funzione di portare capitali alle imprese è oggi il private equity», dice Enzo Cipolletta, economista finissimo e da poche settimane presidente dell’Aifi, l’associazione dei private equityche operano in Italia «Questo accade perché il private equity ha una capacità maggiore di attrarre capitali da investire nelle imprese. La borsa da questo punto di vista, ovvero quello di canalizzare risorse verso le attività produttive non sta facendo il suo lavoro, il che però alla fine diventa un problema anche per lo stesso private equity, che quando deve uscire dall’investimento trova difficoltà ad utilizzare questo canale». Avere una borsa che non riesce a fare il suo mestiere proprio quando le imprese hanno più bisogno di capitale di rischio è un problema per il paese che le istituzioni hanno cominciato a cogliere. Giuseppe Vegas, appena insediato al vertice della Consob, all’inizio del 2011, ha creato una serie di tavoli con i vari soggetti interessati per raccogliere lamentele e suggerimenti e il primo frutto di questo lavoro sono state le semplificazioni che hanno ridotto i carichi amministrativi e in parte anche i costi. Ora Vegas sta passando alla fase successiva, come ricreare una adeguata domanda, perché facilitare alle aziende l’accesso in borsa non basta se poi non c’è nessuno che acquista i loro titoli. Ancora la scorsa settimana c’è stata una riunione insieme a rappresentanti di Borsa Italiana per trovare delle vie d’uscita. Un primo passo è stato già fatto lo scorso anno dalla Sace, che ha creato un fondo di 50 milioni con la missione di investire in piccole e medie aziende quotate e quotande e con l’obiettivo di averne un reddito. «Il problema che abbiamo spiega Alessandro Castellano, amministratore delegato della Sace - è che ci sono pochi operatori istituzionali che fanno investimenti di lungo periodo nelle piccole e medie imprese quotate. Gli investitori istituzionali esteri quando guardano a questo comparto valutano i fondamentali delle aziende ma anche la liquidità del titolo e anche se ci sono investitori istituzionali italiani. Se questi non ci sono quelli esteri non vengono. Ecco la ragione per la quale abbiamo creato questo fondo, che porteremo presto a 100 milioni di euro, nella speranza che ne nascano anche altri». In concreto il problema è questo: quando si va a fare un road show per presentare una small cap prima si incontravano 25-30 investitori istituzionali italiani, ai quali si aggiungevano quelli esteri. Oggi si fatica ad arrivare a dieci italiani e quelli esteri non si accodano più. Il risultato è che le small cap hanno pochi scambi e basse quotazioni il che finisce per scoraggiare anche coloro che vorrebbero quotarsi. Tradizionalmente sono le aziende familiari italiane a tenersi lontane dalla borsa, in questi tempi di credito difficile probabilmente il numero di quelle interessate alla quotazione sta crescendo, manca chi è interessato a comprare i loro titoli. E’ su quel fronte che ora bisogna lavorare.