Luciano Gallino, Affari & Finanza, La Repubblica 9/7/2012, 9 luglio 2012
LA PARABOLA DEGLI AGNELLI L’UNICA GRANDE FAMIGLIA CHE NON CREDE PIÙ NEI MOTORI
La Fiat ha due facce. C’è quella americana, la faccia di chi ha mantenuto le promesse, sconfitto i dubbiosi, vinto difficoltà eccezionali negli anni della Grande Crisi. La Chrysler controllata dalla Fiat macina record di vendite; ha ripagato buona parte dei suoi debiti; generato utili nel 2011 per centinaia di milioni di dollari. A riconoscimento delle sue capacità manageriali, l’ad Sergio Marchionne è stato appena designato il “michiganiano dell’anno”. E’ un onore toccato a pochi altri, tra cui, nientemeno, Clint Eastwood. Poi c’è la faccia europea e italiana. Quella di chi scuote mestamente il capo dinanzi a un mercato europeo che ha visto le auto Fiat perdere a giugno un’altra percentuale di vendite a due cifre. Che annuncia di dover chiudere almeno uno stabilimento in Italia, stima che nella Ue vi sia una sovraccapacità produttiva di oltre 2 milioni di vetture e propone agli altri costruttori europei di elaborare un piano concertato per chiudere impianti in varie parti della Ue. Sentendosi però rispondere, dai tedeschi, che gli impianti li chiudano semmai gli italiani e i francesi, visto che lavorano al 60-65% della capacità effettiva, mentre loro (non solo Volkswagen, ma anche Mercedes e Bmw) lavorano sopra il 90% e non si sognano di chiudere un bel niente. Per tacere del fatto che la faccia europea della Fiat ha pure espresso l’intenzione di chiudere entro il 2012 ben cinque stabilimenti che producono autocarri Iveco in Francia (Chambery), Austria
(Graz), Germania (Ulm e altre due località). Come mai la Fiat si presenta nel mondo con due facce, e perché proprio all’Italia, dove essa è nata 113 anni fa, sembra toccare la faccia peggiore? Una spiegazione possibile è che il gruppo Fiat, e più ancora la famiglia Agnelli che lo controlla, hanno smesso da decenni di credere che il gruppo dovesse produrre soprattutto automobili. L’ultimo ad che cercò di concentrare sull’auto gli investimenti, la ricerca, le strategie di localizzazione e di vendita, la rete internazionale dei fornitori, fu forse Vittorio Ghidella, negli anni 80. Dopo di allora si sono susseguiti alla testa del gruppo degli ad i quali - di fronte a una famiglia che tale concentrazione non sembrava gradire per niente - o si sono barcamenati per assecondarla, oppure hanno loro stessi elaborato progetti di differenziazione produttiva e finanziaria di cui l’auto era soltanto un elemento. Quando Marchionne ha assunto la direzione del gruppo, recando con sé conoscenze e inclinazioni da nordamericano, si è trovato presto ad aver a che fare con una Fiat che tra le tante attività costruiva anche auto, ed era per di più controllato da una finanziaria familiare, la Ifil poi Exxor, che più o meno poneva sullo stesso piano automobili e industria alberghiera o grande distribuzione; e con un altro gruppo, Chrysler, che in vita sua non ha mai prodotto nient’altro se non automobili. Anche la Chrysler ha avuto un tracollo a causa della crisi, non meno che General Motors e Ford. Ma è sicuramente meno arduo rilanciare sul mercato dell’auto un gruppo che costruisce soltanto automobili, che non un gruppo con un lungo passato di differenziazione in altri settori come Fiat. Con la conseguenza che qualunque investimento nell’industria dell’auto viene visto dalla proprietà, o da parti significative di essa, come un concorrente rispetto a investimenti che si reputano più redditizi. Pare evidente che il nuovo ad abbia cercato il successo dove la posta si giocava tutta sull’auto, e, stando ai commenti (ma anche ai dati) americani, lo abbia ottenuto. All’innegabile successo oltre Atlantico corrisponde l’insuccesso della Fiat nel nostro paese e in Europa, con i costi pagati dai lavoratori italiani e dall’intera nostra economia. Perché ci si può rallegrare per le straordinarie vendite di Fiat-Chrysler in Usa, ma fino a un certo punto. Sarà pur vero che grazie al rilancio di Chrysler e alle accresciute dimensioni derivanti dalla sua acquisizione il gruppo stesso si trova ad essere più solido di prima. E che in Italia si stanno vendendo auto progettate e/o costruite in Usa e in Canada, ma con lo scudetto Lancia sul cofano, cui ne seguiranno altre con lo scudetto Alfa Romeo. Ma in questo modo aumenteranno forse di qualcosa i posti di lavoro nei saloni di vendita in Italia, non certo sulle linee di produzione. Mentre ciò che importa, o dovrebbe importare a tutti noi, a cominciare dai partiti e dal governo, sono i posti di lavoro, il livello di occupazione nel cuore dell’industria automobilistica, fornitori compresi, nelle nostre regioni. E’ qui che la faccia italiana di Fiat mostra i suoi tratti più inquietanti. Pomigliano ha ripreso a produrre, ma la capacità utilizzata non supera il 50%. Come attesta anche il numero dei dipendenti richiamati in fabbrica, circa la metà dei 5.000 che vi lavoravano un tempo; nonché la minaccia di Marchionne di mettere in cassa integrazione 145 dei neoassunti nel caso che un tribunale del lavoro lo costringesse davvero a riassumere i 145 esclusi dalle procedure di riavvio al lavoro perché avevano una tessera sindacale non gradita all’azienda. Con il corredo di una impeccabile spiegazione tecnico-economica: il mercato, ha detto l’ad, non assorbe più di quello che Pomigliano produce al momento, per cui il personale deve restar fermo al livello raggiunto - la metà di una volta. La faccia italiana di Fiat comprende anche la dichiarazione dell’ad che prima o poi bisognerà chiudere almeno uno stabilimento in Italia, e “portare la produttività in America”. E’ improbabile che la mannaia cada su Pomigliano; se n’è parlato troppo, e si è anche investito abbastanza, per poter fare un simile clamoroso passo indietro. Melfi produce ancora a pieno regime. Lo stabilimento Sevel di Val di Sangro, che produce furgoncini in collaborazione con la Peugeot, è troppo piccolo per fare la differenza in termini di occupati da ridurre in Italia. Lo stesso vale per il modesto numero di vetture costruite a Cassino, di cui pure si è subito parlato come candidato alla chiusura. I motori prodotti a Termoli sono una produzione che tira. Fatti due conti, se Fiat vuole davvero tagliare un consistente numero di posti in Italia, diciamo tra i 5 e i 10.000, la scelta più ovvia, se non la più probabile, al momento parrebbero essere Mirafiori e gli enti centrali del Lingotto. Quale che sia l’impianto su cui cadrà la scure, pare ormai evidente che l’occupazione in Fiat si ridurrà di molto. In tal modo la società che nacque a Torino e per decenni ha dato lavoro a centinaia di migliaia di persone avrà conseguito due primati. Anzitutto quello di una famiglia che fu la fondatrice di uno dei maggiori marchi mondiali dell’auto ma ha evidentemente deciso di occuparsi d’altro. Diversamente, si noti, da altre stirpi europee. La famiglia Porsche controlla tuttora il marchio di auto sportive, ed è robustamente presente nel CdA della Volkswagen. La Bmw è da sessant’anni controllata dalla famiglia Quandt. I Peugeot contano ancora nell’azionariato della fabbrica che fondarono generazioni fa. Il secondo primato potrebbe essere quello di un ad che riduce ai minimi termini la produzione di un marchio mondiale nel paese d’origine allo scopo di rafforzare la produzione interna di un marchio straniero. Due primati che inducono a dire, e spiace proprio dirlo, grazie signora Fiat.