Paolo Griseri, Affari & Finanza, La Repubblica 9/7/2012, 9 luglio 2012
FIAT, ADDIO FABBRICA ITALIA CHI RESTERÀ TRA MELFI E MIRAFIORI
Uno stabilimento su quattro è a rischio, dice Sergio Marchionne parlando dello stato drammatico del mercato italiano dell’automobile. Ma, a fare bene i conti, l’ad del Lingotto pecca di ottimismo. Perché se davvero, come prevede il manager di Torino, il mercato delle quattro ruote rimarrà a 1,4 milioni di pezzi venduti per «i prossimi 24-36 mesi», non ci sarà da chiedersi quale stabilimento verrà tagliato sui quattro oggi in attività in Italia. Piuttosto, si tratterà di capire quale dei quattro è destinato a rimanere. Perché con l’attuale livello del mercato, le 450 mila automobili che verranno prodotte in Italia nel 2012 potrebbero tranquillamente uscire da una sola fabbrica. Rendendo superflue le altre tre. E’ davvero auspicabile che accada qualcosa. O, come dice Marchionne, «cominciando a produrre per gli Stati Uniti con le linee italiane», o trovando il modo di aumentare le vendite in Italia. Magari con quegli incentivi che il Lingotto protesta di non volere nonostante la pressante richiesta di Federauto, l’associazione dei concessionari. Per il momento il calcolo è presto fatto e il risultato è sconfortante. Il panorama è sideralmente distante da quello che Sergio Marchionne aveva immaginato solo due anni fa, al momento del lancio del piano 2010-2014, chiamato, all’epoca, Fabbrica Italia. Quel piano prevedeva «di incrementare gradualmente i nostri volumi di produzione negli stabilimenti italiani fino
al 2014, quando raggiungeranno 1.400.000 unità, più del doppio delle 650.000 prodotte nel 2009». La realtà indotta dalla crisi dice che, in luogo dell’incremento graduale previsto, si è verificata una discesa graduale. Nel 2011 la produzione di automobili negli stabilimenti italiani della Fiat è stata inferiore alle 480.000 unità, quasi 200.000 in meno del livello raggiunto nel 2009. Di conseguenza, per raggiungere l’obiettivo di Fabbrica Italia bisognerebbe incrementare la produzione di un milione di automobili nel triennio 2012-2014. In realtà, con il mercato italiano a questi livelli è piuttosto probabile che il numero di auto prodotte negli stabilimenti della Penisola scenda ancora e si avvicini a quota 450 mila nel 2012. Se il mercato dell’auto in Italia resterà tanto depresso, basterebbe un solo stabilimento a soddisfare la richiesta. A Melfi, per fare un esempio, il record produttivo risale al 1999, ma quei livelli sono stati avvicinati più recentemente anche nel 2006. Nel 1999 arrivarono dirigenti e autorità a festeggiare in fabbrica il record: gli incentivi e i buoni modelli avevano portato lo stabilimento a sfiorare quota 400 mila auto prodotte in un anno. Un numero importante. Nel piano Fabbrica Italia presentato da Sergio Marchionne il 21 aprile del 2010 si legge che a Melfi «il numero di vetture prodotte nel 2014 sarà superiore alle 400 mila unità». Al momento delle aspre discussioni con i sindacati sull’introduzione del nuovo contratto aziendale, si calcolava che già senza i 18 turni settimanali a Melfi la capacità produttiva teorica superava le 400.000 unità e che con i 18 turni avrebbe sfiorato le 450 mila. Per questo oggi, da sola, Melfi potrebbe produrre tutte le auto del Lingotto. Si tratta, naturalmente, di un calcolo teorico. Nessuno stabilimento raggiunge, nella realtà, il 100 per cento della capacità produttiva installata. E, soprattutto, Melfi, al momento, non è in grado di produrre il mix necessario per saturare la produzione italiana, ancora oggi compresa tra il segmento mini della Panda di Pomigliano e la piattaforma media di Delta e Giulietta. Ma una simile possibilità ci sarebbe, ad esempio, a Mirafiori dove lo spazio per installare linee diverse non manca e dove l’esperienza dei dipendenti ha consentito negli anni di produrre dalla Punto alla Thesys. Del resto, se la capacità produttiva media di uno stabilimento è intorno alle 300 mila unità all’anno, è chiaro che con un milione di auto in meno del previsto le fabbriche in eccesso potrebbero essere tre. Questo scenario è quello che spaventa il Lingotto. Difficilmente la politica, anche quella italiana molto distratta in questi anni su quel che accadeva a Torino, potrebbe accettare un ulteriore drastico taglio di stabilimenti e posti di lavoro dopo il sacrificio di Termini Imerese. Ma se il mercato non riprende è evidente che la sovracapacità produttiva installata dalla Fiat in Italia sfiora il milione di pezzi. Perché proprio il piano Fabbrica Italia, fissando a 1,4 milioni l’obiettivo per il 2014 diceva che quella soglia corrisponde «alla capacità ottimale di utilizzo». E aggiungeva che del totale faranno parte anche «300 mila veicoli destinati al mercato statunitense ». Oggi nessuno stabilimento italiano produce per il mercato Usa che, a differenza di quelli europei, continua ad essere in crescita. Così, se anche la situazione italiana rimanesse quella attuale, la produzione di 300 mila veicoli per il Nordamerica ridurrebbe a 6-700 mila la sovracapacità, salvando uno stabilimento dalla chiusura. Ne rimarrebbero comunque due di troppo. Una ripresa del mercato delle quattro ruote nella Penisola tra oggi e il 2014 che riporti le vendite intorno a quota 2 milioni (era stato di 2,4 milioni il record del 2007) potrebbe salvare un altro stabilimento italiano ma difficilmente potrebbe salvarne due. Non va dimenticato che la Fiat detiene il 30 per cento del mercato domestico e che una quota significativa è stata ottenuta negli ultimi anni grazie alle utilitarie prodotte in Polonia. Per salvare tutta la capacità installata oggi in Italia si può immaginare o un ritorno del mercato ai livelli record del 2007 o un raddoppio delle esportazioni previste negli Usa. Anche in quest’ultimo caso però non mancherebbero le incognite: ammettendo che la Fiat possa produrre in Italia auto con i marchi Chrysler, Jeep e Dodge da vendere negli Stati Uniti, quanto tempo durerà la ripresa del mercato d’Oltreatlantico e per quanto tempo potrebbe assorbire 5-600 mila auto aggiuntive rispetto a quelle prodotte negli stabilimenti statunitensi? Ecco dunque i dilemmi che si trova a dover affrontare in queste settimane l’amministratore delegato del Lingotto. Decisioni non semplici da prendere. A fine mese l’ad incontrerà i sindacati che hanno firmato gli accordi aziendali ed è probabile che in quella sede qualcuno chieda conto delle strategie italiane del gruppo. Quel che appare abbastanza scontato (a meno di clamorose inversioni di tendenza del quadro economico) è che il piano Fabbrica Italia non raggiungerà gli obiettivi previsti. Solo a ottobre, esaminando i dati dei primi nove mesi dell’anno, Marchionne annuncerà quali sono i nuovi obiettivi tenendo conto degli effetti della crisi. Ed è dunque difficile che prima di allora voglia o possa anticipare le sue mosse. Anche perché fissare nuovi obiettivi significa rispondere alla domanda cruciale su quanti stabilimenti saranno necessari in Italia alla Fiat di domani e, nel caso, quanti e quali tagliare. Il problema della sovracapacità non riguarda solo il Lingotto. Nei giorni scorsi la Peugeot ha annunciato l’intenzione di tagliare 10.000 posti di lavoro in Francia (che equivalgono a due stabilimenti della Fiat in Italia) e problemi di eccesso di capacità installata li hanno anche i tedeschi della Opel. La differenza con la Fiat è che l’annuncio della Peugeot è stato seguito, poche ore dopo, dall’annuncio del ministro del Riassetto produttivo, Arnaud Montebourg, di «un piano per salvare la filiera dell’auto francese in una fase di contrazione del mercato» e dall’invito ai vertici di Psa a «fare immediatamente la massima trasparenza sulle loro intenzioni ». In Italia invece, due giorni dopo l’annuncio di Marchionne sul rischio che salti uno stabilimento italiano, il ministro dello sviluppo, Corrado Passera, si è limitato ad affermare che «nessuno può mettere in discussione le scelte di un’azienda privata. Lo Stato - ha aggiunto il ministro - può intervenire con aiuti all’innovazione e alla competitività». Un po’ poco rispetto a quanto fanno in casi analoghi i governi d’oltralpe. L’eventuale chiusura di stabilimenti in Italia avrebbe infatti conseguenze sull’intera filiera dell’auto e metterebbe fortemente in discussione l’esistenza stessa di un’industria che continua a rappresentare, anche oggi, l’11 per cento del Pil italiano.