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 2012  luglio 09 Lunedì calendario

LO SFACCIATO SALTO CON L’OMBRELLO DEL POLACCO RIBELLE


L’agonia dell’impero si annusava nell’aria fuligginosa dell’estate di Mosca 1980, annerita dal fumo delle vicine torbiere in autocombustione. Quella Olimpiade che il regime sovietico già in avanzato stato di decomposizione aveva fortissimamente voluto per decenni, la prima in una nazione dell’Est comunista, era finalmente nata. Era stato un Grande di Spagna, Don Juan Antonio Samaranch y Torellò, Primo Marchese di Samarancha, già fiero falangista al fianco di Francisco Franco divenuto presidente del Comitato Olimpico Internazionale a regalargliela. Ma era nata morta.
Neppure lo spregiudicato marchese, aveva potuto prevedere che appena sette mesi prima dell’accensione della fiaccola nello stadio Lenin, la vigilia di Natale 1979, i primi «Spetznaz», le forze speciali dell’Armata Rossa sarebbero calati sulla capitale dell’Afghanistan per «liberarla ». Si ammainarono le bandiere di grandi nazioni come gli Stati Uniti, il Canada, l’Italia, la Gran Bretagna, tra boicottaggio totale o parziale, come quello degli azzurri, e la quadriennale illusione della «grande festa della pace» svanì. Taceva la retorica degli inni nazionali, sostituita dalle generiche trombette e dalle chiarine dell’inno olimpico, quando un semi boicottatore vinceva l’oro, come Pietro Mennea sui 200 metri, ma senza la canottiera azzurra. Mentre gli stadi, gli alberghi, il nuovissimo «centro stampa», costruiti o rinnovati fra la speranza e la paura di accogliere legioni di turisti portatori di succulenta «valyuta» forte, restavano vuoti o imbottiti in extremis da cadetti, agenti e militar soldati per il pubblico televisivo.
Nella Mosca semivuota, e semisvuotata dalla deportazione di disturbatori, pregiudicati, «prostitutki», cambiavalute e soprattutto dissidenti sottratti alla caccia dei giornalisti stranieri (Sakharov, la preda più ghiotta fu spedito in una città a 300 chilometri da Mosca, chiusa agli stranieri perché di presunto interesse militare) pulsava soltanto il cuore dello stadio Lenin. Ma fu proprio nel catino dello Stadio Olimpico che il «Villaggio Potemkin» della autocelebrazione sovietica si sbriciolò.
Fu nella gara del salto con l’asta, quando il formidabile polacco Wladyslaw Kozakiewicz umiliò l’avversario russo, il pur grande Konstantin Volkov, decollando verso l’oro e il record mondiale a 5 metri e 78. La sua celebrazione fu quella che i francesi chiamano il «Bras d’honneur», i brasiliani la «banana » e noi italiani «l’ombrello», il «saluto degli avi» o, ancora più reprensibilmente, «il salame» e che in Polonia, da allora, sarà per sempre ricordato, e fotografato, come «il saluto di Kozakiewicz ». La foto con l’ormai quasi sessantenne «Wlady», con il braccetto a portambrello, è ancora oggi ricercatissima e retribuita.
Era dal pugno innalzato nel segno
del «Black Power» a Città del Messico ‘68 da Smith e Carlos che un’Olimpiade non assisteva a una manifestazione politica più sfacciata. Il pubblico dello Stadio Lenin, dopo un istante di sbigottimento, rilasciò il fiato in un buuuu corale, interrotto da pochi applausi e sorrisi. L’Urss chiese ufficialmente
che gli fosse tolta la medaglia, appello respinto dalla Commissione Disciplinare, che lo giustificò spiegandolo come un «riflesso neuro muscolare» prodotto dalla stanchezza e scrivendo una pagina inedita nella storia della fisioterapia e della medicina sportiva.
E sarebbe rimasto, quel «salame d’onore», un gesto irriverente e divertente,
ma soltanto dimostrativo, come i pugni alzati di Smith e Carlos in Messico se tutti, in Polonia, in Russia, nel mondo, non avessero saputo che nel braccio dell’astista si nascondeva ben altro che uno sfottò da tifoso di curva.
Erano quelli, mentre i primi caduti tornavano dal mattatoio afghano per essere sepolti alla chetichella e senza
fanfare come vent’anni più tardi avrebbe ordinato di fare George W. Bush con i corpi degli americani morti in Iraq, i giorni della esplosione polacca. Ribolliva la rivolta a Danzica, che pochi mesi più tardi avrebbe dato vita a Solidarnosc e segnato la fine del «Socialismo Reale. Il comando supremo dell’Armata Rossa aveva pronti i piani per invadere la Polonia, avendo capito tutti benissimo che se fosse caduta Varsavia, l’intera «Cortina di Ferro» si sarebbe trasformata in cartone.
Erano i mesi nei quali Giovanni Paolo II, il prete di Cracovia, invitava i cristiani nel mondo a «non avere paura», parlando alle anime perché i fratelli polacchi ascoltassero. E Kozakiewicz lo ascoltò. Forse non era esattamente quello il gesto al quale Karol Woytyla pensava, ma certamente non ebbe paura.