Gianni Clerici, la Repubblica 9/7/2012, 9 luglio 2012
MURRAY ILLUDE E PIANGE, FEDERER È UN GIGANTE
Stavo quasi per mettermi a piangere anch’io, emozionato com’ero, nonostante la cinquantina e passa finali di cui sono stato testimone.
Perduto un grande match, Andy Murray aveva tra le mani il microfono, ma pareva non sapesse servirsene, per le lacrime. Intanto anche il Grande Federer, fermo fianco al seggiolone, in attesa del suo turno per le dichiara-
zioni alla cronista sonora Sue Barker, si asciugava una furtiva lacrima. Interpretavano perfettamente, i due, senza che in loro ci fosse alcunché di teatrale, la gioia e il dolore.
Gioia per la settima vittoria che innalzava lo svizzero nell’Olimpo del tennis, dolore per chi era divenuto oggetto delle speranze di un’intera nazione, che ha reinventato il nostro tennis rinascimentale nel 1874, e fondato questo Club tre anni dopo.
Nonostante ci fossero in gioco sentimenti esasperati, Roger e Andy hanno disputato una grande finale, mantenendo alta la qualità del match, nonostante le difficoltà del solito cattivo tempo, dell’erba bagnata e scivolosa dopo i primi piovaschi, la chiusura del tetto, la ripresa dopo i troppi consigli dei clan, le luci diverse e il rumore eccessivo che genera la scatola chiusa del campo.
Una televisioncina di qui mi aveva chiesto stamattina chi avrebbe vinto, e come. Non avevo trovato difficoltà a ribadire quanto gli aficionados — mi auguro — avevano letto. Nei turni che hanno condotto alla finale, abbiamo ammirato due differenti interpretazioni del personaggio Federer. Uno scoraggiante nei due match contro il francese Benneteau e il belga Malisse, uno di gran livello contro Djokovic, uno dei pretendenti al titolo insieme a Nadal. Murray, aggiungevo, è stato più continuo, nonostante il ruolo di rappresentante di un’intera nazione sia psicologicamente difficile. Se avremo in campo il secondo dei due Federer, è lui il mio favorito. Il primo non potrebbe che essere battuto.
Come si è visto sul campo, il Federer di oggi era simile a quello che aveva superato Djokovic, simile al miglior se stesso. Mentre Andy Murray era sorprendentemente riuscito a liberarsi dell’angoscioso nervosismo che mi aveva spinto
a definirlo — e me ne
scuso — Mr. Isterix.
Nel clima che è stato definito dal
Times
il peggiore
degli ultimi cent’anni, il match è iniziato con un break a freddo in favore dell’inglese, che Roger sembrava riuscito a pareggiare nel quarto game, ma che nuovamente soffriva nel nono gioco, in un momento di grande riuscita di Murray, capace di un parziale di 8 punti a due.
L’inglese aveva ribattuto con maggior continuità, ed egualmente aveva fatto con la media dei servizi, impostando
un match di aggressiva regolarità.
Più creativo, ma anche discontinuo, lo svizzero
avrebbe rischiato un nuovo ritardo, non incolmabile ma pericoloso, nel quinto game del secondo, recuperando due palle break con una insistita presenza a rete. Proprio simile scelta tattica, ormai poco usuale, avrebbe aiutato Federer a pareggiare lo scarto, riuscendo in un break per il 7-5, con due scambi finali insoliti sull’erba, di 17 e 21 punti ciascuno.
Nel momento in cui il livello del match andava aumentando, all’inizio del terzo, dopo poco più di due ore di gioco, un piovasco e previsioni meteorologiche negative, costringevano il giudice arbitro Drewett ad annunciare la chiusura del tetto: operazione laboriosa che, come al solito, richiede una
mezz’ora.
La ripresa, dopo due game al traino dei servizi, avrebbe visto un Federer forse più a suo agio, anche nel servirsi del rovescio tagliato, che abbassava le traiettorie e metteva Murray nell’impossibilità di attaccare i rimbalzi. Sarebbe stato, il sesto, un game fittissimo di occasioni per entrambi (conclusosi dopo ben 6 palle break in favore di Roger su un totale di 26 scambi), e decisivo per l’attri-buzione del set allo svizzero.
Roger teneva ormai il pallino, anche se Murray si batteva mirabilmente. Un nuovo break causato da tre errori dell’inglese, e dall’accentuata pressione di Federer, avrebbe di nuovo squilibrata la partita,
conclusa in tre ore e 21 minuti, al secondo match point.
Con la sorridente capacità di ironia che gli è spesso propria, Roger Federer, dopo un accenno alle gemelle alfine presenti in tribuna, avrebbe osservato che il nuovo record riguarda soprattutto la finale disputata sotto il tetto, vicenda mai verificatasi.
Avrebbe anche aggiunto, a chi gli chiedeva se il suo destino non fosse intrecciato all’esistenza di Wimbledon, di sospettarlo, senza peraltro chiarirne le ragioni. Sembra più facile allo Scriba. Nessuno dei suoi passati avversari in finale, l’americano Roddick (3 volte), lo spagnolo Nadal (2), l’australiano Philippoussis, né Andy Murray, posseggono la sua varietà di gioco, la capacità di mutare rotazioni, di accarezzare la palla con un slice o colpirla con un violento lift. Infine, di volleare quanto lui. Semplice, non
vi pare?