Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 8/7/2012, 8 luglio 2012
PIPPO DELBONO
Nasce da una densa serie di storie d’amore l’identità di Pippo Delbono, regista teatrale tra i più originali, estremi e applauditi del nostro tempo, oltre che attore (anche in film di registi quali Bernardo Bertolucci, Marco Risi e Peter Greenaway), cineasta, fantasioso girovago, sapiente provocatore su temi politici e sociali (è autore di molti articoli e libri) e personaggio “forte” a tutto tondo. La sua vicenda esistenziale e artistica coincide con passioni inesauribili, nutrienti e “maledette”. Sono un amore per la vita attraversata con quotidiana intensità di esperienze, un amore per l’arte sentita come dimensione esorcizzante e salvifica, un amore per le debolezze e i vizi dell’umanità, indagata sulla scena senza pregiudizi. E anche un amore totalizzante per il teatro, esplorato anche nelle sue forme più tradizionali, come la lirica, che Delbono affronta ora per la prima volta mettendo in scena al San Carlo di Napoli (debutto il 13 luglio)
Cavalleria rusticana
di Mascagni. Gli piace definire quest’opera «un lamento eccitante e tremendo, perché il libretto, la musica e il canto, nella
Cavalleria,
ci ricordano la parte più buia e rischiosa dell’essere umano, quella che arriva a uccidere per amore. Non riuscire a ottenere il tuo oscuro oggetto del desiderio può condurti a qualsiasi violenza, e l’anima della
Cavalleria
è l’alterazione passionale. Per questo lo spettacolo sarà incorniciato da un infernale spazio rosso sangue».
Tra i frenetici amori di Pippo ce n’è uno, il più inusuale e «scriteriato» di tutti, che ha contribuito molto alla natura
della sua estetica teatrale. È l’amore per gli individui apparentemente strani o disadattati, e in verità intelligentissimi (scenicamente parlando), che partecipano al successo delle sue performance. Oltre ad attori e a danzatori professionisti, formano infatti la Compagnia Pippo Delbono alcuni interpreti anomali, “evasi” da destini marginali e sofferti, come Bobò, un piccolo uomo sordomuto e analfabeta “rubato” al manicomio di Aversa, dov’era stato recluso per quarantacinque anni, e divenuto la star del gruppo, geniale e silenziosamente eloquente nella sua espressività da clown arcano. Oltre a lui ci sono Nelson, ex clochard che spicca sulla scena con il suo corpo disseccato e un’allure decisamente signorile, e il down Gianluca, ampio, morbido e paffuto come un Buddha.
«Ma non c’è mai stato qualcosa di compiaciuto pietisticamente o di elaborato intellettualmente nella mia decisione di lavorare con loro», spiega il regista. «Questi artisti sono portatori di una bella energia teatrale e di prospettive nuove e radicali sull’esistenza. Ho avuto la fortuna d’imbattermi in loro durante un periodo travagliato della mia vita e sono convinto che questo rispettivo riconoscimento nel dolore sia stato la mia salvezza. Ammiro la loro fisicità straordinaria e la loro cura ossessiva del dettaglio. In scena eseguono ogni sequenza con rigore e sono precisi in modo maniacale. Recano in sé istintivamente i segni del teatro e della danza, espressi in certe sospensioni, in una gestualità priva di retorica, in una speciale capacità di virare i movimenti in repentini cambi di tempo. Io ne seguo e ne rispetto le dinamiche e i ritmi come un direttore d’orchestra. Quand’è in palcoscenico Bobò, non si può fare a meno di guardarlo. Ha un carisma che conquista. Sembra possedere, come dote acquisita, i princìpi del teatro orientale che io ho appreso in lunghi anni di training. Ormai è onnipresente nei miei spettacoli, e persino qui a Napoli, nella
Cavalleria rusticana,
prevedo una sua apparizione».
È anche grazie a questi incontri coi “diversi” che lo scatenato Pippo, ligure di Varazze, nato nel ’59, lottatore per vocazione, arrabbiato per scelta, plasmato da esperienze giovanili con l’Odin Teatret e con Pina Bausch, ha costruito un mondo teatrale prepotentemente fuori norma, estraneo a consuetudini estetiche e retoriche, sospinto
da un decisivo sguardo politico e morale e giocato sui territori dell’ironia, dell’affanno e della tenerezza, oltre che in grado, pur nella fisionomia “alternativa” e trasgressiva, di raccogliere plausi ovunque.
La peculiare troupe di Delbono (residente a Modena e prodotta dall’Ert, l’Emilia Romagna Teatro) può vantarsi oggi di essere l’ensemble italiano che fa il maggior numero di spettacoli all’estero, con una stagione annuale a Parigi e presenze fisse al Festival di Avignone; e in Italia viene ospitata dai più prestigiosi teatri stabili, come il Piccolo di Milano e l’Argentina di Roma. Inoltre, a conferma di un fenomeno non classificabile e trasversale sia sul versante del pubblico che della critica, sono stati numerosi i riconoscimenti meritati da Delbono, dagli onori del Premio Europa per il Teatro (2009) al tributo che, nel mese scorso, gli ha dedicato la manifestazione Futuro Presente
a Rovereto, in Trentino.
I suoi spettacoli, che hanno titoli come
La rabbia
(ispirato dall’amatissimo Pasolini),
Barboni, Guerra, Esodo, Urlo, Questo buio feroce, La menzogna
e
Dopo la battaglia,
sono luoghi di visioni oniriche, di presenze buffe o tenebrose, di narrazioni non consequenziali, d’intrecci di musiche, testi, danze e video, di flussi d’immagini che parlano d’ingiustizie e disagi, di squarci esilaranti e paradossali sui guasti della vita d’ogni giorno, di quesiti sull’amore, sulla morte, sulla poesia e sul male che aggredisce il corpo. Un tema, questo, che incalza Delbono da quando, negli anni Novanta, scoprì la propria sieropositività: «Il privato è politico. Bisogna avere il coraggio di parlare di noi e dichiarare apertamente chi siamo, anzi gridarlo forte, come faccio nel monologo autobiografico
Racconti di giugno,
che porto da anni sulle scene di tutto il mondo. Vi espongo quello che è stato il mio cammino: incoerente, tormentato, pieno di errori ma anche ricco di scoperte, passato attraverso gli sconvolgimenti nella droga e rapporti creativi o distruttivi. La persona che sono oggi, il lavoro che faccio, il teatro in cui mi rifletto, sono frutti anche di quel viaggio. Ha un senso, perciò, dire a tutti che ho una malattia impronunciabile e dannata come l’Aids. Non m’interessa scioccare tanto per scioccare, ma penso che sia inevitabile confrontarsi con le zone più scure e pericolose di sé. Me ne infischio dello scandalo fine a se stesso, ma se nello scandalo c’è una verità ben venga. Mi pare necessario spogliarsi dalle bugie che riempiono la nostra vita e smascherare finzioni politiche e teatrali».
Un atto politico è anche il cinema di Delbono, cineasta sui generis, incensato spesso da premi e accolto in festival di rilievo come quello di Locarno nel 2009. Il suo film più noto è
La paura,
girato interamente con un cellulare: sfida per dimostrare la possibilità di realizzare, a un costo irrisorio, un’opera per grandi schermi e grandi platee. Emerge, in quest’affresco sul razzismo, le tragedie dell’immigrazione, le perversioni del consumismo e la pervasività della pseudo-cultura televisiva, la potenza «della paura che invade e impregna tutto, nel nostro tempo», afferma Delbono. «Paura dell’altro, paura della crisi economica, paura di perdere una situazione di comando o di controllo. Paura di amare e timore della propria fragilità.
Paura di essere liberi e di pensare con la propria testa».
Anche il suo film più recente,
Amore e carne,
è stato girato con un cellulare, «e narra soprattutto incontri e amori: Bobò, Pina Bausch, mia madre… È morta qualche settimana fa: è stata lei la persona più importante della mia vita. Mi ha lasciato addosso una gran voglia di creare uno spettacolo morbido, felice, affettivo, che sia fonte di gioia. Per ora ho in mente solo il titolo:
Orchidee.
Il debutto è fissato per il prossimo maggio ». Delbono insiste nel segnalare che la sua malattia è stata «una bellissima occasione per guardare più lucidamente il mondo. La nostra è una società che nasconde ogni forma di morte: la occulta, la considera motivo di vergogna, la vede sempre e solo come perdita. Una cattiva religione te la fa considerare solo come un vuoto o come la proiezione in qualcosa di esterno che si chiama paradiso o inferno, che invece stanno dentro la vita, qui e ora».
Ma il suo parlare della morte è sempre allegro e vitale. A dispetto della sua carica di anatemi e di furori, Pippo è un uomo caldo, esuberante e ottimista, che sa godere a fondo delle proprie giornate e che ha un genuino senso dell’umorismo: «Quando la sovrintendente del San Carlo Rosanna Purchia m’invitò a discutere il progetto di
Cavalleria rusticana,
io non ricordavo affatto la trama dell’opera. Mi sono nascosto in bagno per leggerla su Internet, e mi sono detto: niente male. Ora mi piace che qui in teatro chiunque mi chiami “maestro”. È un appellativo rituale e fa pensare all’Estremo Oriente. Ti perdi nei labirinti del San Carlo, e tutti arrivano a salvarti e a guidarti. Sei un gran maestro e al tempo stesso sei un bambino da prendere per mano».