Valerio Gualerzi, la Repubblica 8/7/2012, 8 luglio 2012
L’ALTRO PETROLIO
Mel Gibson ha sbagliato incubo. In
Interceptor,
il secondo episodio della saga di
Mad Max,
la star di Hollywood si aggirava in un angosciante mondo del futuro dove bande di esseri umani si combattono per impadronirsi dell’ultima benzina rimasta. Un errore comprensibile: la fine della disponibilità del petrolio è stato il filo conduttore di molti film catastrofici, ma si tratta di una profezia che per un altro paio di secoli pare destinata ad andare smentita. Davanti all’umanità rimangono un’infinità di sfide, ma almeno quella di restare a breve senza carburante sembra pronta per l’archivio.
Negli ultimi decenni è fiorita una vasta letteratura scientifica sul “peak oil”, ovvero sul momento in cui i giacimenti di greggio avranno raggiunto il punto di produzione massima oltre il quale la quantità di oro nero estratto potrà andare solo diminuendo, segnando “l’inizio della fine”. C’è chi è convinto
che il “picco del petrolio” sia già stato passato, c’è chi crede sia in corso esattamente ora e chi ci concede ancora qualche anno di tempo. Una banda di pessimisti di cui non fanno parte solo ambientalisti ansiosi di spingere il mondo verso le rinnovabili, ma anche pezzi di establishment come il Pentagono. Secondo il
Joint Operating Environment 2010,
già nel 2015 la differenza fra una domanda al galoppo e una produzione asfittica potrebbe aver raggiunto dieci milioni di barili al giorno. Ma mentre nella comunità dei geologi il dibattito sulla data esatta del “peak” si andava accendendo, l’industria delle perforazioni ha messo a segno una sequenza di straordinari avanzamenti tecnologici in grado di rimescolare tutte le carte.
Ragionare in termini di pozzi di greggio, come da iconografia saudita o texana, non ha più tanto senso. La nuova promessa (o minaccia, come vedremo più avanti) si chiama
shale,
o, in italiano, scisto. Si tratta di una particolare
roccia argillosa dalla struttura a lastre che imprigiona al suo interno petrolio o gas naturali che possono essere estratti sottoponendola alla violenta pressione di un fluido, un processo chiamato “fracking” (fratturazione idraulica). Questi giacimenti nascosti sono noti da decenni, ma fino a poco tempo fa petrolio a basso costo e strumenti arretrati ne scoraggiavano lo sfruttamento. Un quadro che è ora completamente cambiato.
«Lo sfruttamento in Usa del greggio non convenzionale sta vivendo una fase di splendore sia grazie all’alto prezzo del barile, che giustifica l’utilizzo di tecnologie costose per la sua estrazione, sia grazie al boom dello shale gas, che avendo fatto crollare i prezzi del gas naturale, spinge le società upstream a convertire le tecnologie per la sua estrazione con altre in grado di sfruttare l’unconventional
oil
», spiega Marcello Colitti, a lungo consigliere dell’Eni e commentatore per
Staffetta Quotidiana.
«Le nuove scoperte in questo campo — ag-
giunge — portano a classificare tre tipi di greggio non convenzionale: lo
shale oil
(argilla petrolifera), rocce sedimentarie che contengono idrocarburi solidi chiamati kerogene; l’oil
shale
(greggio ottenuto dallo scisto), che può essere ottenuto processando kerogene; il
tight oil,
idrocarburi liquidi che possono essere estratti attraverso l’hydrofracturing di scisto. Il loro sfruttamento spinge a rivedere i dati sulle risorse petrolifere in Usa al punto che spesso ormai si sente dire dai politici in campagna elettorale che il sottosuolo degli Stati Uniti contiene più petrolio dell’Arabia Saudita».
Insomma, non è sbagliata solo l’idea di futuro portata sullo schermo da Mel Gibson, ma c’è un’intera filmografia di Hollywood dove gli americani sono impegnati a tramare per il petrolio del Medio Oriente che rischia di finire in soffitta. «Per la prima volta dal 1949 gli Stati Uniti sono diventati un esportatore di prodotti petroliferi, e hanno superato la Russia
come maggior esportatore di prodotti petroliferi. Gli Stati Uniti sono diventati l’area in cui la produzione di petrolio e di gas cresce più rapidamente. Aggiungendo il Messico e il Canada si ottiene un tasso di crescita più alto di quanto possa sostenere l’Opec», scrive Ed Morse in un dossier del marzo scorso per Citigroup dal significativo titolo “Energy 2020: North America, the New Middle East?”. Uno studio che mette nel conto anche lo straordinario contributo dello shale gas, ovvero il metano estratto per fratturazione proprio come il petrolio.
«A livello mondiale, le riserve sono gigantesche: quelle convenzionali sono di 180mila miliardi metri cubi, mentre quelle non convenzionali sono superiori di 4 volte, oltre 800mila miliardi. Se si riuscisse a sfruttare queste immense potenzialità, le riserve di gas passerebbero dall’attuale durata di 58 anni, a oltre 200 anni, molto di più dei 47 anni del petrolio e dei 120 anni del carbone», spiega il presidente
di Nomisma energia Davide Tabarelli.
Una minoranza degli analisti, a iniziare da Michael Leibreich di Bloomberg New Energy Finance, si sforza ancora di mettere in guardia dal fatto che si tratta di proiezioni basate su presupposti sballati. «Tutti parlano di riserve e nessuno di prezzi», sottolinea pronosticando vita breve per questa “isteria” mano a mano che i costi di estrazione e del gas andranno lievitando. Ma sta di fatto che con la percezione di questa nuova abbondanza si rischia di passare dall’incubo di finire a secco a quello di continuare a produrre allegramente una quantità di anidride carbonica sufficiente a innescare un devastante riscaldamento globale, passando per un vasto assortimento di altri gravissimi guai ambientali che vanno dalla sismicità indotta dal fracking all’inquinamento delle falde acquifere.
«È indubbio che le fonti fossili non convenzionali stiano minando la percezione anche psicologica che la transizione alle rinnovabili
sia imperativa, ma occorre distinguere », ragiona Massimo Tavoni,
lead authornel
prossimo rapporto dell’Ipcc, l’organizzazione delle Nazioni Unite che studia e sintetizza i risultati scientifici sui rischi del cambiamento climatico. «Se lo shale gas va a sostituire il carbone, può essere un’utile fonte di transizione visto che bruciando produce circa un terzo delle emissioni di CO2, ma certo esiste il rischio di
lock-in,
che ci si leghi ovvero a un sistema di infrastrutture dal quale non si riesce più a uscire».
Saremo in grado di fare la scelta giusta? «Il petrolio è nel cervello degli uomini», era solito dire il pioniere dell’industria estrattiva americana Wallace Pratt per ribadire come le riserve di greggio fossero legate alle illimitate capacità dell’ingegno umano. Ora che il petrolio lo abbiamo trovato si tratta di utilizzare lo stesso ingegno per evitare al Pianeta conseguenze
devastanti.