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 2012  luglio 08 Domenica calendario

KATRIN E GLI ORFANI DELLA STASI


«Era un gelido mattino d’inverno, quel grigio, buio sette febbraio del 1972, quando “Loro”, poco prima dell’alba, bussarono gridando rabbiosi alla porta nel nostro appartamento. Io sulle prime tentai di scaldarmi sotto le coperte, solo dopo capii quel che stava accadendo. “Loro”, lo Stato, ci stavano portando via la mamma. Avevo quattro anni. Mi chieda quel che vuole, vorrei solo raccontarle la mia storia. Una storia tra decine di migliaia, allora nello Stato chiamato Ddr». Katrin Behr sorride energica e gentile, mi offre un caffè, gioca col suo simpatico cane bassotto, mentre la ascolto là a un piano alto dell’ex palazzo-città della Stasi. Là dove per decenni la “Gestapo rossa” sorvegliò un popolo, oggi al pianterreno c’è un museo della repressione. E al sesto lavora lei, con la sua Ong di soccorso: aiuta gli orfani di Stato, gli adottati per forza, un popolo nascosto allora a Est del muro della vergogna, un popolo che ancora oggi non si conosce a vicenda e non sa riscoprire l’identità strappata. Solo da lunedì scorso il potere federale e i cinque Stati dell’Est hanno varato un network di aiuti per tutti i reduci dai famigerati orfanotrofi della Ddr, con quaranta milioni di euro a disposizione per soccorsi e risarcimenti.
«Era una direttiva dall’alto», mi spiega Katrin Behr, «i bambini nati nel socialismo reale dovevano stare con la famiglia solo se la famiglia era fidata. Se mamma e papà erano sospettati di contatti col dissenso, o peggio ancora di voglia di fuga in occidente, allora la potestà parentale veniva abrogata d’un colpo, senza diritto d’appello. I bimbi venivano strappati alle famiglie, parcheggiati in brefotrofi e orfanotrofi, poi affidati in adozione a famiglie di provata, devota, incondizionata fede al regime». I ricordi di Katrin corrono indietro veloci. «Bussavano rabbiosi, urlavano di aprire, altrimenti avrebbero buttato giù la porta. Io gridai, mamma ci disse di vestirsi in fretta, poi urlò verso la porta presa a spallate da quelli: “Subito, un momento, il tempo di vestirsi!”. Non volevo infilare la pesante calzamaglia in lana rozza, pungeva. Mamma mi dette
uno schiaffone pesante, la guancia mi fece male a lungo. Mirko, mio fratello maggiore, mi consolò. Capimmo d’un tratto che non avremmo festeggiato il suo compleanno imminente».
Katrin è fredda e precisa quando ricorda e racconta, trattiene ogni emozione. «Mamma aprì, entrarono in sei o sette, tutti con quel macabro, famoso cappottone nero, e dietro di loro una donna esile che prendeva appunti. Ci portarono via, pochi minuti appena per raccogliere il minimo in pochi bagagli. Scendemmo spinti di corsa dalle scale del vecchio palazzo del centro di Gera dove abitavamo. Ci sospinsero circondandoci anche in strada, a passo di corsa verso l’antica piazza del mercato». Era prestissimo, quasi nessuno in strada,
un passante vide tutto e protestò, «non potete maltrattare così una famiglia ». Lo minacciarono, mostrandogli il temuto distintivo con la spada e lo scudo sormontati dalla stella rossa, dal martello e dal compasso emblemi nazionali della Ddr: la Stasi, spada e scudo del Partito-Stato. «Sparisca, una parola di più e portiamo via anche lei».
Le Lada nere con targa speciale e vetri bruniti li attendevano con i motori accesi. «Forza, bambini, congedatevi da vostra madre», dissero gli agenti. Senza dire altro, senza spiegare perché. “Mamma, che cosa hai fatto, non voglio perderti”, gridai io mentre la guancia mi doleva ancora per lo schiaffo. Mi aggrappai disperata alle sue braccia, poi alle caviglie, mentre la spingevano nella
prima delle Lada. Lei mi carezzò, tentò di abbracciarmi un’ultima volta, e dal suo abbraccio sentii che l’avevano ammanettata. Da quel momento, non la vidi più per decenni».
Il primo Stato socialista in terra tedesca, leggiamo oggi su dossier, atti pubblici derubricati e manuali di storia, si prendeva dannatamente sul serio. Doveva crescere una generazione nuova, sradicata dal passato borghese. Non era proprio il progetto
Lebensbornnazista
dei perfetti bimbi ariani, ma il ricordo sinistro è quello. «Solo dopo il 1989, dopo la caduta del Muro, fu possibile per me e per tanti altri ricercare, chiedere, trovare indizi delle nostre origini e famiglie negate», narra Katrin. «Nel 1991 potei leggere i dossier della Stasi su di me. All’inizio ero in collera, poi capii che ira e rabbia non mi avrebbero aiutato. Mi portarono solo disturbi cardiaci. Sapevo di essere stata una bambina adottata, ma solo allora scoprii il perché. Trovai appunti e lettere della mamma adottiva, in cui lei scriveva chiaramente: “Non ebbi mai contatti con la mamma naturale di Katrin, sapevo che era un caso di sicurezza, che si parlava di un caso di pericolo di fuga illegale dalla Repubblica».
Le leggi ispirate da Margot Honecker erano durissime. Margot, moglie del capo, la bella malvagia regina della notte, come Elena Ceausescu. Ministro della Famiglia, temuta dai bimbi come “il drago viola” (dal colore con cui amava tingersi i capelli). Per lei c’erano sulle piste di Berlino Est i Tupolev di Stato sempre pronti a voli di shopping a Parigi, per i nemici presunti del suo socialismo l’esproprio della prole. C’era anche il paragrafo 249 del diritto penale: chi è definibile come asociale non abbia alcun aiuto dello Stato sociale, gli vengano tolti i figli. Bastava poco, nel clima tardostaliniano dietro il Muro, per venire classificati come asociali: ragazze madri, che non trovavano lavoro perché avevano bisogno di tempo per i bimbi. «Ragazze come mia mamma, che una volta pare si lasciò sfuggire una frase di sfogo, “vorrei andarmene da questa realtà che odio”. Aveva sottovalutato la forza della delazione, fu la sua condanna. Mi lasciarono pochi giorni da nonna, poi mi assegnarono a un brefotrofio. Poi fui adottata da una famiglia fedele al regime». Infanzia conforme per forza: il giuramento dei
giovani pionieri, punto primo, l’amore per la Ddr e solo dopo l’affetto per i genitori.
L’associazione di aiuto agli orfani per forza Katrin l’ha fondata nel 2009, ma soltanto in quest’ultimo anno la rete di volontari sta ottenendo i primi incoraggianti risultati. Aiuta i suoi compagni di sventura a ritrovarsi, ad aiutarsi a vicenda, li assiste nella difficile ricerca negli archivi della disciolta Ddr. Li aiuta a incontrarsi e confortarsi scambiandosi i racconti delle loro tragiche vite con quei momenti d’infanzia spezzata dalle irruzioni all’alba della Stasi a casa. Quanti furono, gli orfani per forza? Migliaia, probabilmente decine di mi-
gliaia. In un paese che su sedici milioni di abitanti ebbe tra trecentomila e cinquecentomila prigionieri politici, i calcoli prudenti di Frau Behr parlano di almeno 75mila bambini strappati alle loro famiglie. Ti tolgo i figli, era la vendetta di Stato contro chi veniva sospettato di idee critiche o di voglia di fuga o di voglia di democrazia, niente differenziazioni contro il
Klassenfeind,
il nemico di classe registrato allora come il
Rassenfeind
(nemico razziale) decenni prima dall’altra dittatura. I genitori adottivi sapevano o intuivano, ma col bimbo affidato loro dovevano tacere, per non rischiare loro stessi. Alcuni erano gentili, altri corrotti o alcolizzati.
«Cercando negli archivi, ritrovai la mia vera mamma», narra Katrin cercando di non commuoversi. Era ridotta al relitto di se stessa, legata a una sedia a rotelle, appena capace di esprimersi.
«Katrin, mein Kind»
(Katrin, bimba mia), disse la madre alla figlia, riconoscendola subito. Si ritrovarono,
Katrin si godette gli ultimi anni di vita della mamma ritrovata. Quanti bimbi di allora abbiano sofferto come lei, lo sanno solo le ceneri dei dossier bruciati mentre il regime cadeva o i fogli tagliati in strisce da un millimetro dalle macchine distruggi-documenti che la Stasi usò fino all’ultimo minuto. Quel popolo disperso degli orfani per forza comincia adesso a scoprirsi, a trovare la sua identità: Katrin Behr e il suo gruppo li conducono per mano, indietro nel tempo alla ricerca di quel passato di vite strappate e famiglie distrutte. Margot Honecker vive tranquilla in Cile, in una villa offertagli per onesta gentilezza vecchio stile dal Partito comunista cileno. In una recente intervista alla tv tedesca, ha definito «poveri stronzi quelli che rischiavano la morte per passare il confine» e si è lamentata della pensione (1.500 euro mensili netti, una fortuna in Cile) che riceve ancora oggi da Berlino.