Paolo Griseri, la Repubblica 8/7/2012, 8 luglio 2012
DA IMPERIA A POTENZA TRA ORGOGLIO DI CAMPANILE E VOGLIA DI POLTRONE
Ancora oggi si può incontrarlo su Youtube, con la Panda d’ordinanza della Provincia, il cappello da esploratore artico e la giacca a vento a prova di disastro ad annunciare in mezzo alla neve turbinante che «questa volta non vogliamo che vada a finire come con l’alluvione. Il conto dei danni di questa nevicata sarà salatissimo. Ci abbiamo speso milioni e lo Stato dovrà restituire». Cinque mesi dopo Matteo Ricci è nel suo ufficio nella sede della Provincia di Pesaro, in via Gramsci, a contemplare il video e la risposta dello Stato: «Non solo non abbiamo visto un euro, ma ci chiudono». Ricci è di quelli che un tempo si definivano «gli ammini-stratori con gli stivali», attivo, vicino alla popolazione quando a febbraio la neve superava i tetti delle case «e le frazioni
isolate non si contavano». Un disastro nel Montefeltro, sulle montagne intorno alla città: «Lei si immagina che cosa sarebbe successo se ci fosse stato l’accorpamento con Ancona e i soccorsi si fossero organizzati a 80 chilometri di distanza»?
La domanda di Matteo Ricci è la sintesi della crisi di crescita che l’accorpamento delle Province provocherà in Italia: «Sente la mia parlata? Io sembro romagnolo perché noi pesaresi siamo una terra di confine. Non completamente marchigiani e non completamente romagnoli. Siamo marchignoli ». Intrigante. Ma che cosa cambia per il cittadino pesarese sapere che la sede della Provincia è ad Ancona? La qualità della sua vita peggiorerà? «Forse nell’ordinaria amministrazione no. Ma nell’emergenza sì». Eppure rimangono alle Provincie, anche a quelle accorpate, le competenze sulle strade, sull’organizzazione delle scuole, tutto questo non cambia: «Ma non è la stessa cosa avere un cantoniere che vive da trent’anni vicino al luogo di una frana o farne arrivare uno da cento chilometri». Ricci sorride e si capisce che oltre alle antiche questioni di campanile, c’è un problema concreto di riorganizzazione della macchina degli enti locali, la presenza capillare sul territorio delle ultime propaggini
dello Stato. Cose che coinvolgono direttamente la vita ciascuno: con la provincia soppressa spariscono la questura, la prefettura, il comando dei carabinieri, la sede dell’Agenzia delle entrate. Se ne va, in qualche modo, anche una fonte di reddito e di posti di lavoro: «Potremmo spartirci le cariche — dice Ricci — lasciando la sede della Regione ad Ancona e quella della nuova provincia unica a Pesaro». Le vecchie abitudini sono dure a morire ed è sicuro che da oggi fino a fine anno trattative complessissime come quella cui fa riferimento il Presidente della provincia di Pesaro animeranno il formicaio Italia prima che arrivi l’alluvione della soppressione e degli accorpamenti. A Imperia, nata per volere del fascismo dalla fusione tra Porto Maurizio e Oneglia, la scelta di costruire il palazzo provinciale a Porto Maurizio spinse gli invidiosi dirimpettai
onegliesi a far realizzare, proprio di fronte, una fabbrica di mattoni. Ora spariranno tutti: Porto Maurizio, Oneglia e anche Savona. Tutti condannati a un’unica provincia del Ponente ligure. Con sede? «Beh, a Savona », risponde il presidente della Provincia di Savona, Angelo Vaccarezza. Vaccarezza è un realista: «Ci
aspettavamo l’accorpamento. È anche logico. La Liguria con due provincie, il Levante, il Ponente e al centro l’area metropolitana di Genova. Ci sta». Che cosa cambierà materialmente? Una questura sola a Savona per i 120 chilometri di costa che vanno dalla periferia di Genova a Ventimiglia? «Nessuno impedisce che si creino uffici decentrati». Questa del decentramento, delle provincie soft, sarà una delle tentazioni dei prossimi mesi. «Ma tutta la discussione — dice sconsolato Vaccarezza — è una questione di lana caprina. Le Provincie non spariranno perché sono state soppresse ma perché sono state strozzate economicamente. O Monti mi fa una legge che impedisce le nevicate o mi dice dove trovo i soldi per gettare il sale sulle strade. Io ho già approvato il bilancio ad aprile. Adesso, in una notte, mi hanno tolto 5 milioni». Perché
nel decreto di venerdì notte spaventa più il taglio ai bilanci del taglio alle Provincie. «Con 500 milioni in meno quest’anno e un miliardo in meno nel 2012 non si tagliano gli enti, si tagliano i servizi».
A Torino, in via Maria Vittoria, il tavolo di legno antico che fa da scrivania al Presidente della Provincia è occupato da Antonio Saitta, vicepresidente dell’Unione delle Provincie italiane, inventore della teoria dell’accorpamento. «Volevano semplicemente abolirci — ricorda — mentre accorpandoci riduciamo il danno». Quale danno? «Le Provincie hanno svolto un compito importante per tenere insieme i piccoli comuni soprattutto nei territori in cui non c’è una grande città che fa da riferimento». Un livello intermedio che serve a organizzare i servizi e sopperisce alle carenze dei piccoli municipi: una frazione non ha i
soldi per riparare una scuola né può trattare alla pari con la società dell’acquedotto.
Non c’è solo la lotta per il campanile dunque nella protesta di queste ore. E c’è anche la possibilità concreta che l’accorpamento delle Provincie sia solo il primo passo: «Verso le macro regioni, come teorizza la Fondazione Agnelli», osserva il più giovane presidente d’Italia, Piero La Corazza, 35 anni, da Potenza. Proprio Potenza diventerebbe l’unica Provincia della Basilicata dopo la scomparsa di Matera. Ma che senso avrebbe una regione monoprovinciale? Tanto varrebbe accorpare anche le regioni tra di loro. La Basilicata ha 600 mila abitanti, come la città di Bari. Che senso ha mantenere una Regione che legifera solo per quei 600 mila abitanti? La Corazza non è d’accordo: «Lei ha idea di quale differenza passa tra un potentino e un materano?». Qual è la differenza? «In una regione dove le comunicazioni sono molto difficili, sono due mondi diversi. Il potentino prende l’aereo a Napoli, il materano a Bari. Uno guarda a est e l’altro a ovest. Ci converrà fare una provincia unica? Saremo in grado di fare sintesi tra questi due mondi?». Ah, saperlo. Sono le sfide della globalizzazione.