Marco Del Corona, Corriere della Sera 7/7/2012, 7 luglio 2012
L’ELOGIO DEL DOGGY BAG
Basta la parola. «Dabao». Non serve sussurrarlo, non c’è nulla da vergognarsi: basta dirlo. E a pronunciare le due sillabe alla fine del pranzo o della cena, in qualsiasi ristorante della Cina, ecco che cameriere e camerieri si affrettano a recuperare vaschette di plastica e sacchetti e raccolgono gli avanzi dai piatti che affollano la tavola, come i resti di un’armata sbaragliata. Cucchiaiate rapide, colpi di bacchetta chirurgici, e tutto viene salvato, sigillato, imbustato. Questione di attimi ed è fatta, e solo qualche volta viene chiesto un renminbi (circa 10 centesimi di euro) per i contenitori. Gli avanzi si portano via. Il pasto non del tutto consumato in un locale si appresta a vivere una seconda vita sui piatti e le ciotole di casa.
Il «dabao» è grosso modo l’equivalente dell’americano «doggy bag». Ma la «busta per il cane» è in Cina una rispettata e praticatissima usanza. «Da», preparare, e «bao», pacchetto: il termine non ha accezioni negative o ironiche; con un pragmatismo e un senso della sintesi tutti cinesi, l’espressione descrive un gesto normale e civile. Il cibo che si è regolarmente pagato al ristorante ti appartiene e sprecarlo è ritenuto, se non immorale, almeno inopportuno, o non bello. Sembra quasi che emergano, in una Cina che nelle città conosce una prosperità che mai ha sperimentato prima, le memorie della fame patita per secoli. Anche nel Novecento, quando i disastri che hanno accompagnato il Grande Balzo in Avanti (1958-1960) spinsero la Repubblica popolare di Mao Zedong all’inedia di massa nelle campagne.
Il Cina il «dabao» appare, a un’osservazione empirica ma continuata e pluriennale, un fenomeno senza distinzioni di classi. Nessuno si sogna di tornarsene a casa da un banchetto ufficiale con il suo bravo sacchettino di avanzi, tuttavia i ristoranti di livello sono territorio non meno battuto delle tavole calde di strada, dove i ravioli rimasti trovano rapidamente la via della borsa di plastica rosa tenue o della vaschetta trasparente. Per dire, in un ristorante di medio livello del Cbd, il cosiddetto Central Business District di Pechino, il Charme, a detta dei camerieri l’80-90% dei clienti cinesi chiede il «dabao». Secondo Tang Mingji, manager di una delle sedi di Da Dong (che offre forse la migliore anatra laccata), il 70-80% degli avventori torna a casa con gli avanzi della cena: «Sono in stragrande maggioranza cinesi, ma lo fa anche qualche straniero. Chi è abituato al Paese non si stupisce affatto». Addirittura, aggiunge Tang, «nel nostro servizio il "dabao" è una procedura prevista. Prima di portare la frutta o i dolci, chiediamo ai clienti se lo desiderano. La troviamo una buona abitudine per non sprecare il cibo. Per lo stesso motivo, consigliamo di non ordinare troppe portate».
Tra gli stranieri la pratica attecchisce ma lentamente. E, in modo speculare, i ristoranti occidentali restano un terreno infido per i cinesi che altrove non avrebbero scrupoli a chiedere il «dabao». Capital M è probabilmente il locale con la location più spettacolare di Pechino, affacciato sulla Qianmen, la porta all’estremità meridionale di piazza Tienanmen: qui — spiega al Corriere la maitre di sala — solo un 20% dei clienti cinesi azzarda la richiesta del «doggy bag». «Si sentono a disagio», giocano in trasferta.
Cosa si fa poi con «dabao» è faccenda secondaria. Lo si porta a casa, lo si dà al vicino, ai figli per la scuola, magari lo si regala a un mendicante. L’uso reale del «dabao» non è contemplato dalla sua ragion d’essere, che è non fare prigionieri, evitare lo spreco. Per noi che osserviamo con occhi europei, può tradursi in un salutare esercizio di disciplina mentale. Trasforma il pranzo fuori casa in un’estensione naturale della vita domestica e viceversa, sancisce e rafforza il legame tra il nido familiare e la strada. Ha un suo senso pedagogico: il cibo è sacro e non si spreca, e persino ai bambini schizzinosi o capricciosi viene concessa l’opportunità di riconciliarsi con quello che poco prima scatenava un «non mi piace» senz’appello.
Elogio del «dabao», dunque. Usanza esportabile (con il vino, in Italia, qualcuno già lo fa). La Cina, in questo caso, pare suggerire che di certi inutili formalismi (che non significa fare a meno dell’educazione) si possa fare a meno. Chiedere al cameriere il tuo cibo per finirlo di consumare più tardi non dovrebbe imbarazzare: imbarazzante è vedere pietanze costate lavoro e fatica buttate nella spazzatura. I tempi austeri che ci accompagnano non c’entrano, dal «dabao» viene un insegnamento — come direbbe Totò — a prescindere.
@marcodelcorona