Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 7/7/2012, 7 luglio 2012
L’ADDIO DEI DUE SUPERPOLIZIOTTI CERTI DI AVER SUBITO UN’INGIUSTIZIA
Ieri mattina sono saliti sul colle del Viminale, per essere ricevuti dal ministro dell’Interno e dal capo della polizia, in un’atmosfera non certo allegra. Per nessuno. Perché Anna Maria Cancellieri, responsabile politica della sicurezza degli italiani, era consapevole che stava dando il benservito a due dei migliori poliziotti che aveva a disposizione. Dopo che la sentenza della Cassazione li ha messi fuori dall’istituzione, il ministro ha voluto manifestare il proprio dispiacere e rammarico a Francesco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, ormai ex capo della Direzione centrale anticrimine ed ex dirigente del Servizio centrale operativo, le più importanti strutture investigative della polizia. Non poteva fare altro che salutarli, esprimendo loro una solidarietà umana e professionale già esplicitata in dichiarazioni e interviste. In sette mesi aveva imparato ad apprezzarli oltreché beneficiare dei risultati che avevano ottenuto: dalla cattura del superlatitante di camorra Michele Zagaria, a dicembre, fino alla soluzione dell’attentato di Brindisi, giugno scorso.
Con Antonio Manganelli, il capo della polizia, la storia è diversa. I legami del capo con quei due sbirri sono fortissimi, hanno lavorato insieme per anni e quando è salito al vertice dell’amministrazione li ha lasciati agli incarichi di responsabilità in cui li ha trovati semplicemente perché erano gli uomini giusti ai posti giusti. Ce li aveva messi Gianni De Gennaro, il suo predecessore e il capostipite di una generazione di poliziotti che ha raggiunto risultati importanti, prima e dopo la bruttissima parentesi del G8; Manganelli li ha tenuti perché in primo grado erano stati assolti, e la condanna d’appello è diventata definitiva solo ieri. Poteva essere ribaltata e non c’era motivo — ha pensato — di privarsi della collaborazione di Gratteri e Caldarozzi finché c’era l’eventualità che potesse prevalere la tesi dell’innocenza da loro sostenuta e che già il tribunale aveva condiviso.
Ieri ha dovuto prendere atto che così non è andata e s’è adeguato. A malincuore, anche nel ricordo di tante indagini svolte fianco a fianco, al tempo dell’antimafia dopo le stragi del ’92 e ’93. Le sentenze si devono rispettare, non necessariamente condividere. E al secondo piano del palazzo del Viminale era difficile trovare qualcuno, ieri, disposto a sottoscrivere la decisione della Cassazione. I due condannati — come altri dai nomi meno altisonanti e con incarichi meno rilevanti, ma ugualmente significativi — hanno sempre ripetuto di non essere responsabili del reato che gli è stato addebitato: la decisione di portare nella Diaz un paio di bottiglie molotov trovate altrove e addossarle agli occupanti della scuola, per giustificare i pestaggi avvenuti durante quella sciagurata perquisizione notturna.
Anche al vertice del Dipartimento stentano a credere che quei due investigatori possano essere davvero responsabili di una simile truffa, per come è stata ricostruita nel processo; non fosse per l’esperienza che avevano già allora e che difficilmente li avrebbe portati a mettersi in combutta con complici appartenenti a tutt’altre «filiere» interne all’amministrazione. In quel palazzo sanno bene che gli artefici materiali dell’inganno — l’autista che prese le bottiglie dalla macchina per portarle dentro la Diaz e il vicequestore che lo chiamò per ordinargli l’operazione, entrambi in forza al Reparto mobile — non avevano e non hanno mai avuto nulla a che vedere con Gratteri e Caldarozzi, al pari degli imputati per l’irruzione violenta.
Per le sentenze i condannati sono tutti uguali, le uniche differenze sono i reati ascritti e l’entità delle pene; per chi conosce le persone e le loro storie non è così. Ma si tratta di ragionamenti e considerazioni destinate a rimanere nel chiuso delle stanze, di nessun valore di fronte alla decisione della Cassazione che ha confermato il verdetto di una Corte d’appello giunto a conclusioni opposte. Rispettarla significa adempiere alle disposizioni e questo ha fatto il capo della polizia. Avendo però cura di scegliere, ad esempio, al vertice dello Sco, in sostituzione di Caldarozzi, una poliziotta che ha lavorato a lungo sia con lui sia con Gratteri. Decidendo di dare un chiaro segnale di continuità. Quel gruppo di investigatori venuti su negli ultimi venticinque anni e arrivati dalle indagini condotte in strada fino ai posti di comando, prima con la gestione di De Gennaro e poi di Manganelli, non è uscito di scena; ha perso due dei suoi rappresentanti più in vista, tagliati fuori da una vicenda processuale complessa e condotta non al meglio dagli stessi imputati, ma il lavoro di chi resta prosegue anche sulla base dei loro insegnamenti e della loro esperienza.
Ecco perché ieri mattina Gratteri e Caldarozzi sono usciti dal portone principale del Viminale. Da pregiudicati, però, loro che i pregiudicati l’hanno sempre contrastati. E con altri problemi da affrontare rispetto a quelli con cui hanno fatto i conti fino all’altro ieri: non pratiche d’ufficio, indagini da impostare o da chiudere, ma complicati calcoli sulla pena residua da scontare dopo il taglio di tre anni di carcere consentito dall’indulto. Non andranno in prigione Gratteri, Caldarozzi e gli altri poliziotti condannati giovedì, ma dovranno decidere se trascorrere quello che resta (da alcuni mesi, fino a un anno) agli arresti domiciliari oppure all’affidamento «in prova» ai servizi sociali, presso qualche struttura dove potrebbero svolgere un lavoro socialmente utile. Erano abituati a dare la caccia ai criminali, per arrestarli e farli condannare; ora devono adeguarsi a comportarsi come i «clienti» che hanno trattato fino all’altro ieri. Perché così ha stabilito l’ultima sentenza, anche se la ritengono un’ingiustizia.
Giovanni Bianconi