Stefano Lorenzetto, il Giornale 8/7/2012, 8 luglio 2012
LORENZETTO INTERVISTA MARIO DE BIASI
(fotoreporter). ATT. età di Lorenzetto)
Il Giornale, 8 luglio 2012
Parla di sé in terza persona: «Mario De Biasi ha fatto... Mario De Biasi ha visto... Su Mario De Biasi sono state scritte cinque tesi di laurea... A Mario De Biasi hanno attribuito l’Erich Salomon preis e il premio Saint-Vincent...». È il decano dei fotoreporter. Ha espugnato l’attico newyorchese dell’armatore greco Aristotele Onassis, ha documentato la rivolta d’Ungheria nel 1956, ha seguito Paolo VI sulle rive del Giordano nel 1964, s’è aggirato fra le macerie dopo il terremoto del Belice nel 1968, è uscito vivo dalla fornace del Vietnam, ha messo in posa Sophia Loren e Brigitte Bardot, ha consegnato ai posteri il posteriore di una giovane e formosa Moira Orfei vestita di bianco a spasso per Milano, «gli uomini che sostavano fuori dal bar Zucca, in piazza Duomo, se la mangiavano con gli occhi», forse la più celebre immagine del Belpaese negli anni del boom, esposta al Guggenheim museum di New York col titolo Gli italiani si voltano e stimata 30.000 sterline come base di partenza dell’asta tenutasi meno di un mese fa da Christie’s a Londra. Fu il primo assunto in pianta stabile da un rotocalco italiano, Epoca. Era il 1953 ed è rimasto lì fino alla chiusura, facendo in tempo a ricevere dalle mani di Arnoldo Mondadori una lettera con allegate 100.000 lire, «un modesto segno che vuol essere non un premio ma una testimonianza di simpatia e di ammirazione».
Per fissarmi un appuntamento l’ha tirata in lungo due giorni: «Tutti credono che un pensionato non abbia nulla da fare. Ma il De Biasi non riesce a stare inoperoso. Quando non fotografa, disegna, guardi qua, 1.400 volti inventati, uno diverso dall’altro, e 2.000 teste di pesci, una diversa dall’altra, e centinaia di soli, alberi, gatti, farfalle, usando varie tecniche, olio, tempera, china, pennarelli, acrilici, gessi. Oppure spacca col martello i cocci di vetro che un amico raccoglie sul greto dei fiumi e crea queste composizioni, ne verrà fuori una mostra». Ha pubblicato più libri, 92, che compiuto anni, 89 il 2 giugno. L’ultimo è Un mondo di baci, una sessantina di scatti rubati in giro per i continenti, manca solo quello di Giuda. L’editore Umberto Allemandi aveva appena finito di stamparglielo e lui era già tutto concentrato sul prossimo volume: «S’intitolerà Mario De Biasi, Omaggi a...». Perché alla fine è sempre lì che si torna, a Mario De Biasi.
È come se avesse costruito il monumento di se stesso per dimenticarsi da dov’è venuto fuori, Sois, 700 anime fra i monti del Bellunese. C’è rimasto fino al 1938. Padre muratore emigrato in Svizzera, madre sempre malata, «ma non ho mai saputo di che cosa, né soprattutto fino a che punto, a quel tempo in ospedale i bambini non erano ammessi; finché un giorno, avevo 10 anni, mentre stavo giocando con i miei amichetti dentro una chiesa sconsacrata, è arrivato il becchino e ha affisso sulla porta un annuncio funebre: l’ho saputo così, dall’epigrafe, che mia mamma era morta».
L’orfanello fu affidato a una zia che aveva un podere alla Veneggia. «Pascolavo le mucche lungo il Piave, a piedi scalzi, la corrente era così gelida che mi pareva di svenire. D’estate andavo a prendere l’acqua per i contadini che tagliavano il fieno sul monte Serva, 40 minuti per arrivare alla sorgente e altri 40 per tornare, sempre senza scarpe, perché le dalmare, zoccoli di legno, si mettevano solo per andare a scuola. Un giorno la slitta su cui caricavo il raccolto, da far scivolare a valle lungo i sentieri, cominciò a prendere velocità. Cercai di frenare con le mani: quando si fermò, non avevo più i polpastrelli».
Rina De Biasi, che viveva a Milano, nel 1938 decise di prendere con sé il fratello quindicenne. «Le bigotte del paese cercarono di dissuadere mio padre: “Non mandarlo, è la città della perdizione, finirà male”. Mia sorella abitava in via Vittor Pisani, meno di 200 metri dalla stazione centrale. Percorrendo questo breve tratto a piedi, ricordo che pensai: ma qui come faranno a trovare la strada di casa?».
E poi?
«Mi iscrissi a un corso per radiotecnico e trovai posto alla Magneti Marelli. Quando mi presentai al Distretto militare per l’arruolamento, scoprii che il mio nome era Mario. Fino ai 18 anni tutti mi avevano chiamato Marco o Marcheto, non sapevo d’essere registrato all’anagrafe in un altro modo. “Servi di più alla patria come radiotecnico della Magneti Marelli”, mi dissero, così evitai di partire per il fronte. Ma una sera fui catturato per strada dai nazisti in piazzale Loreto e deportato in un campo di concentramento a Norimberga. In tasca avevo una lampadina Siemens. La sera i miei compagni di prigionia si avvicinavano a quella luce per potersi spulciare. La liberazione coincise col bombardamento alleato del 30 marzo 1944, che fece 27.000 morti in una sola notte».
E lei dove finì?
«A casa dei signori Stahl, con un amico di Bergamo che aveva ospitato un soldato tedesco in Italia. Mi regalarono una Welta 6x6 a soffietto e senza telemetro. Non avevo mai scattato una foto. Norimberga rasa al suolo fu il mio primo reportage, stampato con un torchietto recuperato fra le macerie. Tornai in Italia all’inizio degli anni Cinquanta. Avevo la quinta elementare. Diedi gli esami di terza media frequentando le scuole serali. Mi sposai con Ida. È morta cinque anni fa, lasciandomi solo. Nel 1952 nacque Silvia, che oggi è biologa e insegna alla Statale di Milano. Nel 1953 fui assunto a Epoca».
In che modo?
«Da autodidatta giravo le librerie fingendomi interessato all’acquisto dei volumi di fotografia. Solo che, non avendo soldi, chiedevo sempre quelli stranieri appena recensiti da Camera, in modo da essere sicuro di non trovarli, altrimenti avrei dovuto comprarli. Intanto sfogliavo gli altri e imparavo. Ezio Croci, che dirigeva Fotografia, un giornale di quattro pagine, mi segnalò al figlio dell’editore Ulrico Hoepli, il quale, dopo aver visto alcuni dei miei scatti, mi scrisse una lettera di presentazione per Alberto Mondadori, direttore di Epoca. Andai. Mi ricevette Sergio Polillo, il segretario di Arnoldo. Acquistò subito una mia foto per 100.000 lire e mi propose un’assunzione in prova. Siccome la Magneti Marelli non mi dava l’aspettativa, mi licenziai. Entrai in Mondadori come impiegato di seconda categoria».
E cominciò a girare il mondo.
«Nando Sampietro, il miglior direttore che Epoca abbia avuto, mi mandava da solo. Guerre, rivoluzioni, terremoti, alluvioni. Prendevo appunti, al ritorno raccontavo ai giornalisti quello che avevo visto e loro scrivevano con prosa elegante. Ce n’erano di bravissimi: Livio Caputo, Ricciotti Lazzero, Ugo Tramballi. Nel 1956 stavo facendo un servizio sul lago di Como. Mi telefonarono dalla redazione: “È scoppiata una rivolta in Ungheria”. Il buon Barana, l’autista della Mondadori, mi portò fino a Vienna, dove ad attendermi trovai l’inviato Mino Monicelli, figlio di Tomaso, grande giornalista e cofondatore della Mondadori, la cui sorella, Andreina, aveva sposato Arnoldo. Stufo d’essere scambiato con i più celebri fratelli Mario, regista, e Furio, romanziere, Mino si firmava Massimo Mauri. Partimmo per Budapest».
La frontiera con l’Ungheria era chiusa.
«La feci riaprire smoccolando in tedesco. Arrivammo nella capitale a fari spenti, perché s’era rotta la dinamo. Davanti alla caserma della polizia politica sparavano da tutte le parti. Una pallottola mi passò davanti agli occhi, sento ancora il sibilo».
Lì scattò la sequenza dell’agente segreto insanguinato, legato per i piedi, strascinato nelle strade e infine appeso a un albero a testa in giù.
«Lì vidi lo spirito di vendetta che il comunismo genera e fino a che punto può spingersi l’odio umano. Il corpo fu preso a calci e coperto di sputi. Un ungherese dall’aspetto inoffensivo trasse di tasca un coltellino da campeggio e lo conficcò fra le scapole del cadavere. Più tardi mi dissero che quell’agente aveva mozzato la lingua e strappato le unghie a uno degli insorti durante un interrogatorio. Lo scoppio di una granata pose fine al barbaro spettacolo. Me la cavai con una scheggia nella spalla. Jean-Pierre Pedrazzini, fotoreporter di Paris Match, si prese una sventagliata di mitra nella pancia e, nonostante l’aereo messo a disposizione dal presidente francese René Coty per riportarlo a Parigi, morì a soli 29 anni».
Ha rischiato altre volte di lasciarci la pelle?
«Il quotidiano ungherese Magyar Nemzet mi ribattezzò “l’italiano pazzo”. A Huê, in Vietnam, gli americani mi fecero salire su uno dei loro elicotteri. Mi accorsi che sotto le suole degli stivali avevo del liquido rosso scuro. Chiesi: cos’è? “Ah, niente, ieri abbiamo avuto un ferito”, rispose il pilota. Era sangue. In Siberia, per fotografare un cavallo coperto di brina a 50 gradi sotto zero, rischiai il congelamento: mi avrebbero amputato le orecchie se non ci fosse stato Walter Bonatti a salvarmele con un energico massaggio. La mia unica dote sul lavoro è che non avevo paura».
Ne aveva un’altra: la faccia tosta.
«Non nego. Nel 1955 fui mandato a New York per la prima sfilata di moda italiana. Non sapevo una sola parola di inglese. Appena sbarcato dal transatlantico Cristoforo Colombo, credevo d’impazzire: era tutto bello, tutto nuovo, tutto luminoso, tutto da fotografare. Chiesi al giornale di tornare in aereo, per avere a disposizione una settimana in più. “Non se ne parla, il viaggio in nave è regalato”, fu la risposta. Mi feci prestare i soldi per il volo dall’ufficio americano della Mondadori, poi restituiti, e rimasi lì, tirando avanti a pane e Coca-Cola. Un giorno vidi uscire dal ristorante Colony gli armatori Aristotele Onassis e Stavros Niarchos con l’attore David Niven. Sapevo che Onassis parlava italiano. Mi avvicinai: sono un reporter di Epoca, mi piacerebbe fotografarla a casa sua. Lui mi squadrò stupito: “Peyton Place numero 16. Venga domani alle 9”. Lo ritrassi in camera da letto, davanti allo specchio. Alla fine, per scusarsi d’avermi fatto attendere 35 minuti, disse all’autista: “Porta Mario a vedere New York e torna alle 18.30”».
Sullo sfondo della Grande Mela immortalò anche Giuseppe Ungaretti.
«Era il 1964. Quella volta Epoca aveva trasferito a New York mezza redazione, 14 fra giornalisti e fotografi, per la Fiera mondiale. Tentò un mio collega. Niente da fare, Ungaretti non voleva uscire dalla camera d’albergo. “De Biasi, ci provi lei”, mi ordinò Sampietro. Andai. Il poeta era alloggiato in una stanzetta squallida. Fu irremovibile anche con me. Allora, per disperazione, piagnucolai: maestro, io sono un suo grande estimatore, l’ho vista recitare le sue liriche in Tv. E mi misi a imitarlo, declamando un verso: le sabbie infuocate del deserto...». (Urla a gran voce, con tono ispirato, roteando gli occhi).
Non ricordo una poesia di Ungaretti sulle sabbie infuocate del deserto.
«Embè? Il poeta rimase colpito lo stesso. S’infilò il cappotto. Lo portai sul ponte di Brooklyn. Foto straordinarie».
Quali altri personaggi famosi le sono rimasti impressi nella mente, oltreché sulla pellicola?
«Marlene Dietrich nel 1956. Stava girando Montecarlo con Vittorio De Sica nel Principato di Monaco. Lei su uno yacht, io su un altro, a portata di mano avevo solo la Rolleiflex senza teleobiettivo. Una dea che sorge dall’acqua. Silvana Mangano, malmostosa. Quando beveva si trasformava in un camallo, mai sentito parolacce e barzellette più sconce delle sue. Sophia Loren mentre fuma e si trucca, ho anche molti scatti mentre esce dalla vasca da bagno: ci farò un libro».
Ma lei fa libri su tutto?
«Sì. Le mie vacanze attorno al Borgo è dedicato ai 50 metri che percorrevo ogni mattina fuori dall’albergo di Belluno dove sono stato in ferie l’anno scorso. Vicino c’erano due cassonetti, dai quali recuperavo pezzi di lamiera e di legno che schiacciavo, sagomavo e fotografavo. Sono immagini che ricordano particolari delle opere di 100 artisti famosi. Diventeranno il contenuto del libro Omaggi a...».
Quale dei suoi colleghi stima di più?
«Gianni Berengo Gardin. Sua zia vendeva perline in piazza San Marco a Venezia. Mi disse: “Beato te che giri il mondo”. Gli risposi: perché non fotografi casa tua? Ha ascoltato il mio consiglio».
C’è una foto che l’ha fatta sudare tanto?
«Il Duomo di Milano al tramonto, mentre la città sta per essere inghiottita dal buio della notte. Con un sotterfugio mi ero fatto dare dal sagrestano le chiavi del campanile della chiesa di San Carlo al Corso, vicino a piazza San Babila. Sette volte sono salito fin lassù, nella cella priva di balaustra, con una pila fra i denti per illuminare i gradini coperti dagli escrementi dei piccioni. Finché una sera ho beccato la luce giusta. Credo che sia l’unica foto trasmessa per tre anni di fila in televisione con la bottiglia dell’amaro Ramazzotti che spuntava dai tetti. È rimasto il simbolo della “Milano da bere”».
Che cosa non le piace della società d’oggi?
«La superficialità, il pressappochismo. C’è in giro un sacco di gente poco seria».
Perché settimanali come Epoca e Life non esistono più?
«Oggi vanno di moda i giornali con tante pagine piene di niente».
Stefano Lorenzetto
LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: La versione di Tosi (Marsilio).
LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto, Il Vittorioso, Visti da lontano e La versione di Tosi. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.