Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  luglio 08 Domenica calendario

Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, 62 anni, coltiva un gramsciano ottimismo della volontà, senza nascondersi difficoltà e ostacoli

Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, 62 anni, coltiva un gramsciano ottimismo della volontà, senza nascondersi difficoltà e ostacoli. Il governo è sulla strada giusta e nell’aggredire i mali dell’economia italiana bisogna avere due eccezionali qualità: uno spietato coraggio e il senso grave delle svolte storiche. Nulla è facile, nulla è impossibile. La nostra conversazione avviene in una sala di palazzo Koch, a Roma, dominata da tre arazzi con le gesta di Alessandro il Grande, che ospita la collezione delle monete preunitarie. In quelle teche vi finirà un giorno l’euro? Dopo la storica riduzione dei tassi allo 0,75 per cento da parte della Bce sembrerebbe che i mercati abbiano smesso di credere alle banche centrali? «Quelle decise giovedì — risponde Visco — sono misure convenzionali di politica monetaria che tengono conto di una congiuntura internazionale che si sta deteriorando. Non vanno male solo i Paesi del Sud dell’Europa, tra cui noi, rallenta la Germania, la stessa Cina. E gli Stati Uniti hanno di fronte la vera grande incognita dell’economia mondiale, il fiscal cliff». Ovvero il pacchetto di tagli alla spesa e nuove tasse di fine anno. «Vale quattro punti di prodotto lordo, detto brutalmente». Il quadro è cambiato così rapidamente? «La caduta dei prezzi delle materie prime e il rallentamento dell’export tedesco hanno convinto il Consiglio direttivo della Bce a dare un ulteriore segnale di accomodamento con la riduzione del costo dei finanziamenti che la banca centrale concede alle banche, anche quelli già erogati, al livello più basso dall’istituzione della Bce. L’inflazione nell’eurozona diminuisce rapidamente; scenderà al di sotto del 2 per cento nei prossimi mesi». E per l’Italia che cosa cambia? «Si avrà un impulso positivo, ma non si riduce certo l’esigenza di proseguire nell’opera di risanamento e riforma strutturale». Previsioni? «L’anno scorso pensavamo di crescere nel 2012 all’1 per cento, oggi le previsioni di consenso indicano che il Pil scenderà grosso modo del 2. Allora dobbiamo chiederci il perché di questi tre punti persi. La crisi è stata ed è grave. La restrizione del credito ha pesato per mezzo punto. Gli spread più alti, un altro mezzo punto. Un punto l’effetto restrittivo delle manovre di rientro. E siamo a due. E poi mezzo punto per la congiuntura internazionale e un altro mezzo per la caduta di fiducia di famiglie e imprese». Eccoci a tre punti. Troppi. E quando torneremo a crescere? «Il 2012 sarà negativo, ma penso che se la situazione non peggiora ulteriormente, se il rischio sui tassi si riduce, se la soluzione della crisi è condivisa a livello europeo, alla fine dell’anno potremo rivedere una luce in fondo al tunnel». E rischiamo ancora il commissariamento? «Lo abbiamo rischiato al vertice di Cannes, l’anno scorso. Quando un Paese riceve la solidarietà non la può ottenere senza contropartite. La condizione che possiamo offrire oggi è quella di fare fino in fondo il nostro dovere. Il fiscal compact non è una camicia di forza. È interesse di tutti non lasciare ai nostri figli un debito eccessivo. Non c’è cessione di sovranità. Il pareggio di bilancio non può essere criticato da chi dice che Keynes non l’avrebbe sottoscritto. Keynes era per il pareggio di bilancio depurato dagli effetti del ciclo economico». L’euro può resistere a lungo con dinamiche così divergenti fra i Paesi membri? «I tassi d’interesse sui Btp sono quattro volte superiori a quelli tedeschi. Il sistema finanziario dell’area dell’euro è frammentato, e la politica monetaria così non può avere successo. L’attuale spread di 470 punti base tra Btp e Bund per due quinti è "colpa" nostra, del nostro debito pubblico, della nostra scarsa competitività, della bassa crescita potenziale; il resto è un premio al rischio che lo Stato italiano paga per il timore del sottoscrittore dei suoi titoli che a un certo punto la moneta unica non ci sia più. Ed è come se la Germania ricevesse un sussidio dagli investitori internazionali. Con un tasso d’interesse a lungo termine dell’1,5 per cento e una crescita doppia, Berlino ha una condizione esattamente opposta alla nostra. Ciò crea una grave forza centrifuga nell’area dell’euro. All’ultimo summit europeo la valutazione dell’eccessivo livello degli spread è stata pienamente condivisa. Tre, a mio avviso, le ragioni del successo di Bruxelles, purtroppo comunicate male. La prima: una sorveglianza bancaria comune, che non fa scomparire ma si fonda su quelle nazionali. Seconda: l’avvio di una soluzione concreta al problema delle banche spagnole. Un problema che le nostre banche non hanno, sia chiaro. Da noi la bolla immobiliare non c’è stata. Nessuna bulimia di prestiti a fini immobiliari. Il nostro rapporto fra mutui e valore di mercato delle abitazioni è inferiore al 70 per cento. In altri Paesi è vicino, se non superiore, al 100. Terza ragione: la presa di coscienza che le differenze nei tassi d’interesse riflettono un malessere comune di fronte al quale occorre utilizzare tutti gli strumenti esistenti». Utilizzando in maniera appropriata le risorse a disposizione dell’Efsf (European Financial Stability Facility) e dello Esm (European Stability Mechanism), i cosiddetti fondi salva Stati. Le resistenze, non solo tedesche, e gli interrogativi non mancano, però. «Le incertezze — spiega il Governatore — sono di due tipi: quale capacità operativa, non sappiamo; la dimensione delle risorse, insufficiente». Vi è poi incertezza circa la possibilità che il fondo permanente, l’Esm, che sostituirà l’Efsf, debba avere o no una licenza bancaria, cioè maggiore libertà di finanziarsi a sua volta. Ma le soluzioni possibili non mancano. Certo, se il fondo potesse essere usato come garanzia contro eventuali perdite di operazioni condotte dalla Bce, con l’effetto leva si potrebbero mobilitare anche duemila miliardi. Solo ipotesi, per carità. «Ma vi sono posizioni contrarie, non solo quella di Weidmann, cartesianamente ineccepibile. La Bundesbank condiziona tutto all’unione fiscale e, in una prospettiva ancora più lunga, politica, che fa scomparire le differenze di rischio in un singolo bilancio». Lo scudo antispread è indispensabile? «Se le condizioni economiche di fondo dei Paesi sono positive — continua Visco — non serve e fa bene Monti a dire che l’Italia non lo chiederà. Diciamo che se fosse dotato di capacità di intervento adeguata la sua stessa esistenza aiuterebbe a non usarlo. Ma, soprattutto, spezzerebbe le aspettative della speculazione, le scommesse contrarie, taglierebbe le unghie a chi volesse uscire dall’euro guadagnandoci, dato che, anche per lo scudo antispread, non riuscirebbe a trarne profitto. Ma poi c’è un altro luogo comune che va sfatato». Quale, Governatore? «Che sia la Germania a pagare per tutti. Un falso. Il nostro peso nell’area dell’euro è del 18 per cento, quello della Francia del 20, quello tedesco del 27. I salvataggi sono stati di diverse modalità: interventi diretti sul bilancio pubblico (Grecia) o attraverso l’Efsf (Portogallo e Irlanda), o partecipando all’Esm». Totale per noi? «A fine anno saranno stati versati dall’Italia circa 45 miliardi, e non ci si è agitati tanto. La Finlandia, che pesa per meno del 2 per cento, si è fatta sentire di più». Dopo il summit di Bruxelles ha ancora senso il ruolo dell’Eba (European Banking Authority), l’organismo di vigilanza presieduto dall’italiano Enria? «Se si va nella direzione di un controllo comune delle banche nell’area dell’euro andrà rivisto, non c’è dubbio. C’è poi un problema di rapporto fra i 17 Paesi dell’eurozona e i 27 dell’Unione, molto delicato». Perché? «Perché gli istituti di credito che hanno una rilevanza sistemica dovranno essere trattati tutti allo stesso modo. I nostri gruppi, ma anche quelli tedeschi o francesi, sono molto diversi da quelli inglesi. E poi vi è un altro attore di cui non si parla mai, la Commissione europea». Che ha svolto un ruolo nel sistema bancario non all’altezza delle attese? «Il suo ruolo nella definizione di regole comuni è sicuramente importante. Nell’anno passato abbiamo però avuto qualche problema nell’individuazione della giusta sequenza di interventi e si è finiti per iniziare dalla fine, con l’esercizio di ricapitalizzazione delle banche, in un contesto ciclico avverso, deciso dall’Eba». Qual è il pensiero del governatore sul caso Barclays, il colosso inglese accusato di aver manipolato il tasso interbancario (Libor ovvero London Interbank Offered Rate) cui è legato il costo dei mutui? «Il soft touch, la vigilanza leggera adottata in altri Paesi, non funziona: bisogna essere severi. E trasparenti. Spesso noi siamo considerati un po’ troppo invasivi, ma data anche la percezione dello scarso rispetto delle regole nel nostro Paese, meglio così. La Banca d’Italia non è "catturata" dagli intermediari su cui vigila, questo è sicuro. E il mondo anglosassone della finanza non ci venga a insegnare nulla, perché non è il caso». A cinque anni dallo scandalo dei subprime, i prestiti senza garanzie, la lezione è servita? «Diciamo che c’è stata una reazione, con una regolamentazione da alcuni ritenuta eccessiva, anche se ho dubbi sul reale funzionamento della Dodd-Frank (la legge americana del 2010 sui mercati finanziari, ndr). Accadde così anche dopo il caso Enron (il colosso energetico Usa fallito nel 2001, ndr)». Si è rotto però, o almeno allentato, il rapporto fiduciario fra cittadino e sistema finanziario, fra cliente e banca, a volte salvata con il denaro dei contribuenti. C’è una grande questione di reputazione. Anche in Italia dove non ci sono stati salvataggi bancari con i soldi pubblici. Per esempio, nel risparmio gestito, continuano a essere collocati certificati rischiosi. «Intendiamoci bene — risponde Visco — io ho sempre pensato che il cassiere in banca dovrebbe avere dietro di sé un grande cartello, con scritto che "i", che sta per il tasso d’interesse, deve essere inferiore al quattro o cinque per cento. Se è di più vuol dire che si stanno vendendo prodotti rischiosi e bisogna che chi li acquista ne sia pienamente consapevole». Quello della banca universale è un modello in crisi, da più parti si invoca un ritorno allo spirito del Glass-Steagall Act, la legge americana del ’33 che separava l’attività bancaria da quella d’investimento? «Se ne parla. In Europa nel fare un’unione bancaria dobbiamo mettere insieme istituti di natura diversa, credo che molto stia nei dettagli. Secondo alcuni aver separato la banca d’investimento dalla banca commerciale, come è accaduto in America, ha creato le condizioni per la nascita di giganti mondiali d’investimento che sono stati all’origine della crisi. Lehman Brothers ottemperava al Glass-Steagall Act, come anche Merrill Lynch, poi finita in Bank of America. Meglio la trasparenza e l’assenza di commistioni fra attività di trading e di prestito». E le paghe dei banchieri, i bonus allegri? «Per un certo periodo si è venduta la favola che una banca potesse avere un return on equity (Roe), un profitto, doppio rispetto a una impresa commerciale, e da lì sono discesi alti stipendi e bonus principeschi. È il caso inglese, la finanza si è sviluppata a danno dell’industria. Insostenibile». Secondo cartello da apporre in banca. Rischi eccessivi, veduta corta, come la chiamava Tommaso Padoa-Schioppa. Ma la veduta corta ce l’hanno anche gli imprenditori? «Sicuramente. Il problema centrale della nostra economia è la bassa crescita della produttività. Nell’Unione monetaria si sopravvive con investimenti e innovazione. Spesso gli imprenditori italiani sono rimasti indietro, hanno mantenuto dimensioni aziendali insufficienti per competere, hanno mostrato talora scarso coraggio. Hanno utilizzato una flessibilità cattiva del mercato del lavoro unicamente per ridurre i costi, continuando a vivere alla giornata». Una delle ragioni che la spingono, Governatore, a dire che la riforma del mercato del lavoro è buona? «Certo, non è il massimo, ma confrontata con la situazione preesistente è un grosso passo avanti. L’attenzione si è concentrata troppo sull’articolo 18. Ritengo che alcune reazioni, di imprese e sindacati, siano state eccessive, contribuendo a non metterne in luce, anche nei confronti dell’estero, gli aspetti più positivi. Credo che sia stato un errore». La terapia del governo è corretta? I tagli alla spesa giusti? «Il governo si è trovato nella difficile condizione di dover operare dal lato della struttura produttiva in un momento di crisi e allo stesso tempo intervenire con misure di stabilizzazione. Molte tasse, quindi, troppe perché l’economia non ne risenta. Forse non si poteva fare altrimenti e già il precedente governo si era mosso in questa direzione con una delega fiscale che comportava l’aumento dell’Iva, già in parte avvenuto. Ma la lotta all’evasione fiscale è positiva. L’iniezione di concorrenza è apprezzabile, il sostegno all’innovazione delle imprese importante, la riforma del lavoro potrà avere effetti significativi, oltre all’intervento sulle pensioni, necessario. Intenti e misure condivisibili, ma con risorse modeste. Sulla spending review bisogna insistere il più possibile, perché solo così potremo ridurre le tasse, specie sul lavoro, oltre a non alzare l’Iva. Va detta una verità. Il bilancio pubblico è rilevante, ma è nella media europea se si pensa che ogni anno oltre il 5 per cento finisce per pagare gli interessi sul debito. Non pregiudichiamo però il futuro: su scuola, formazione e ricerca bisogna investire di più». E il pubblico impiego, gli statali? «I risparmi consistenti verranno da una azione capillare, micro, da quello che in inglese si chiama enforcement, ma non bisogna commettere un errore». Quale? «Considerare l’impiego pubblico un peso morto, un’area di negatività. Vanno premiate le pratiche migliori, le tante persone che fanno bene il proprio lavoro, occorre muovere nella direzione di aumentare gli investimenti in questo Paese, rallentati dalla corruzione e dal malaffare». E come si possono rilanciare gli investimenti, non solo esteri, in questo Paese? «Due grandi aree. Un ampio progetto di manutenzione immobiliare dell’Italia, di cura del territorio, una terapia contro il dissesto idrogeologico. I soldi, mi creda, si trovano. Si diano gli incentivi giusti, soprattutto a chi ha cura della messa in sicurezza dell’ambiente e della sua estetica. I terremoti, purtroppo, insegnano. Si faccia un piano, pubblico e privato, con il concorso dei fondi europei». E la seconda? «Per attrarre gli investimenti è necessario avere uno sportello unico che aiuti a risolvere problemi di ordine amministrativo, legale, tributario e dia garanzie agli imprenditori singoli, più che alle multinazionali, contro la burocrazia e la corruzione». Una sorta di Mister Italia, un consulente ad hoc? «Esatto, un facilitatore, ma non basta. Per portare avanti questi progetti ci vuole anche qualcosa che non costa nulla, ma nel nostro Paese è assai raro, uno spirito civile, da civil service». L’investitore estero che sottoscrive i nostri titoli di Stato si pone anche la domanda di chi verrà dopo Monti. «L’interrogativo c’è tutto, io non posso rispondere, ma mi auguro che la classe politica dia prova di consapevolezza e responsabilità, mostri l’ambizione di costruire ideali, di disegnare prospettive di crescita, non solo economica. Un nuovo spirito italiano. Non ci si impegni subito in una lunga ed estenuante campagna elettorale. Vede, io sono membro della Bce e a Francoforte opero per la stabilità dell’eurozona. Ma come Governatore della Banca d’Italia lavoro in ogni momento per il mio Paese, un Paese che ha un eccesso di debito e una carenza di Stato». Il debito pubblico sfiora il 123 per cento del Pil, gli interessi ci strangolano. Abbatterlo con un’operazione straordinaria? «Diciamo subito che c’è una parte di debito che non è calcolata: gli arretrati di pagamento della pubblica amministrazione. Saldare questi arretrati vuol dire emettere nuovi titoli. Le terapie anti debito possono essere di due tipi. Il primo: un intervento di privatizzazione di poste patrimoniali, immobili o partecipazioni in imprese. Quello che è possibile, non tanto per la verità. Si potrebbe ad esempio provare a ridurre il debito di un punto percentuale di Pil all’anno. Il secondo: il colpo secco. Sono state avanzate diverse proposte. Anche noi le esaminiamo, ma sembrano molto difficili da attuare. Non si possono approvare progetti validi solo sulla carta. Consideriamo ad esempio un fondo le cui quote siano acquistate dai cittadini mediante conferimento di titoli pubblici. Con un patrimonio costituito da varie attività, specie locali. Ma per identificarle e valorizzarle, individuarne la disponibilità sul piano giuridico amministrativo, ci vuole tempo, molto tempo. Poi se vogliamo usare la ricchezza privata per far fronte ai titoli pubblici, incentivandone la sottoscrizione, bisogna ricordarsi un particolare. Quando noi diciamo agli italiani, comprate più titoli di Stato, implicitamente li sproniamo a dismettere altre attività. L’equilibrio generale non è chiaro. Dunque, cautela». A meno che non si usi a garanzia l’oro della Banca d’Italia? «Non ne parliamo, se l’oro, le riserve della Banca d’Italia fossero trasferite al settore pubblico sarebbe finanziamento dello Stato, si violerebbero i trattati: esse sono il nostro contributo alla stabilità e all’integrità dell’Unione monetaria, in ultima istanza alla stabilità del nostro stesso sistema».