Francesco Merlo, la Repubblica 7/7/2012, 7 luglio 2012
NON muore, ma si esaurisce per accorpamento, che è la morte peggiore per una piccola patria, la cuccia calda del sentimento italiano, quella Provincia che fu l’identità in due lettere – MI oppure BA –, una targa, un fonema, la nostra particella di dio, Milano e Bari anche per gli abitanti di Lainate e di Bitetto che senza l’istituzione Provincia, non sarebbero mai stati milanesi e baresi
NON muore, ma si esaurisce per accorpamento, che è la morte peggiore per una piccola patria, la cuccia calda del sentimento italiano, quella Provincia che fu l’identità in due lettere – MI oppure BA –, una targa, un fonema, la nostra particella di dio, Milano e Bari anche per gli abitanti di Lainate e di Bitetto che senza l’istituzione Provincia, non sarebbero mai stati milanesi e baresi. LA PROVINCIA è il bosone che ha dato massa all’Italia, mai isolato nel laboratorio del Cern e tuttavia modello standard dell’idea di nazione: «Paese mio che stai sulla collina / disteso come un vecchio addormentato …». Dunque neppure Monti riesce a togliere completamente di mezzo gli spettri della Provincia: l’albero degli zoccoli, il Friuli pasoliniano, la Racalmuto — metafora di Sciascia -, la dolce ferocia contadina sulle donne, i bambini e gli animali. E ancora le melanzane e il latte di capra come archetipi di una modesta ma sicura felicità, la vita come una lunga partita a carte che ricomincia ogni pomeriggio e non finisce mai. Sopravvivono come grasse bestie accorpate, 50 mostri che ne divorano 60, cinquanta rimanenze di Provincia, che non è stata solo il luogo del keynesismo all’italiana, anzi alla democristiana, l’ente inutile degli stipendi inventati, del nascondimento della disoccupazione, delle clientele politiche, ma è stata anche la nostra grande risorsa, la fucina dei caratteri, la patria degli sradicati, dei provinciali appunto, sempre in cerca di un centro di gravità permanente e dunque con la smania di scappare, di evadere — scriveva il provinciale Giorgio Bocca — «dalla prigione dorata, dalle notti stellate, dall’aria pura e correre in una metropoli a vedere come gli uomini si scannano e inganno e derubano» . Ecco cos’è il provincialismo: lo sforzo, il dolore di chi tende le proprie forze per saltare più in alto degli altri, la necessità per il marginale di avere letto un libro in più, di diventare un virtuoso del sapere dire o del sapere scrivere o del sapere fare, e tutto per essere accettato, per conquistare il centro, per ristabilire i valori stando a cavallo, per imporsi a Torino come il Gramsci di Ales, o per impadronirsi di Roma come il Giolitti di Mondovì o il Crispi di Ribera, come il Mussolini di Predappio, il Verga di Vizzini, il Fenoglio di Alba, e — vado volutamente a casaccio — il Montanelli di Fucecchio, il Benedetto Croce di Pescasseroli, il Leonardo di Vinci, il Bartali di Ponte a Ema e il Coppi di Castellana, il Camillo Benso di Cavour… La stessa monarchia italiana era di provincia, di quella grande provincia mezzo francese che fu il Piemonte. Forse dunque in questa lunga, estenuante agonia della Provincia, in questa incapacità di accoppare il morto che cammina, non c’è soltanto la resistenza della casta e dell’odiato ceto politico che non vuole accettare per sé i sacrifici che impone a tutti gli altri cittadini. Certo, l’abolizione delle province è stata e ed è il cavallo di battaglia (azzoppato) di tutte le opposizioni, lo slogan (tradito) di tutte le campagne elettorali, da De Mita a Berlusconi, da Prodi a Beppe Grillo. Ma nessuno c’è mai riuscito, è uno degli “impossibili” della politica, come la riforma della Rai. All’ultimo momento infatti l’abolizione cambia regolarmente natura: c’è sempre chi propone come alternativa di cancellare le prefetture; una volta la soppressione è diventata trasformazione in area metropolitana; più spesso è stata proclamata e subito insabbiata in attesa di una futura legge attuativa; e ora l’accorpamento decretato da Mario Monti è deludente, perché uccide l’identità ma non le competenze, non sottrae ma addiziona. Di sicuro era già morto quel guardare una campagna, un bosco o una montagna e pensare di essere a Bologna o a Firenze; ed era già nostalgia «quella faccia un po’ così» dei provinciali di terra che scoprono la città di mare: «e ogni volta ci chiediamo / se quel posto dove andiamo / non ci inghiotta e non torniamo più». E già nessuno più credeva che l’infelice Giacomo, appollaiato sulla collina del suo borgo selvaggio, trovasse l’infinto dove dolcemente naufragare nella provinciale SS76, “la strada regina” che porta a Macerata. E, diciamo la verità, era una sopravvissuta anche la provincia dei vitelloni e pure quella delle aspre battaglie tra campanili per dare un nome a un territorio: in Sicilia è raccontata come un’epica la vittoria di Ragusa su Modica con i leggendari manifesti «a Ragusa la provincia/ a Modica ‘sta mincia». Ma la provincia è stata anche bottino di guerra: nel 1947 l’Italia perse le province dell’Istria, Carnaro e Dalmazia, e parte del territorio di Trieste e Gorizia. Neppure Monti riesce dunque a spazzare completamente via il fantasma della signorina Felicita, a togliere il catafalco della provincia dal centro della casa. Anche lui infatti ha ridimensionato il suo progetto davanti all’egoismo della politica. Raccontano che, già ai tempi della Bicamerale, Massimo D’Alema abbia gelato Augusto Barbera: «E se l’inutile fossi tu?». Francesco Storace, che è fascista ma spiritoso, riassunse così la battaglia del governo Berlusconi: «Avevamo promesso di abolire le provincie e il bollo auto, ed è finita che ora affidiamo la gestione del bollo auto alle province». Nicola Zingaretti è l’unico che definisce ente inutile la provincia che presiede. Mentre i leghisti vorrebbero al contrario moltiplicarle su fantasiose basi etniche, e basti come esempio la proposta di creare Ladinia come terza provincia autonoma del Trentino Alto Adige. Eppure nella storia d’Italia, le province, istituite nel 1859 su modello dei dipartimenti francesi, dovevano assicurare allo Stato che «da qualunque punto del territorio fosse possibile arrivare al centro dell’amministrazione»: strumenti dunque di centralismo e nel sud persino di annessione. E però a rendere la Provincia dura a morire non c’è solo l’ostruzionismo politico che si spinge sino a bollare come demagogiche le stime serissime che calcolano dai 12 ai 18 miliardi di euro il risparmio che deriverebbe dalla loro abolizione. C’è anche il sarcofago egiziano che l’italiano di strapaese si porta addosso, con dentro gli oggetti “erotici” della sua vita: la pappa reale, il cimitero di famiglia come unica casa certa, e poi un liquido seminale e un Dna che sanciscono una separatezza e una diversità che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali, ciascuno con la sua psicospecialità e le mutande a baldacchino delle nonne, il parente prete o il babbo partigiano, la pennichella come ritorno alla natura, un complesso di inferiorità che diventa una scatola magica, come il letto della mamma, la vigna, il bosco e i colori dell’infanzia che sono finestre sullo spirito umano sia a Drò sia a Tropea: la provincia come dolore dell’anima, asprezza di vivere e goffaggine personale, incapacità di adattamento o al contrario spirito di adattamento. Georges Simenon, che era nato in una provincia del Belgio ed era fuggito, la metteva così: « Me ne sono andato e ho avuto fortuna. Ho raccontato i crimini che avrei commesso se non me ne fossi andato. Cos’altro si può dire di chi ha avuto fortuna se non che se n’è andato» dalla provincia?