Sergio Romano, Corriere della Sera 7/7/2012, 7 luglio 2012
Luigi Einaudi è stato un acuto pensatore di stampo liberista nonché uno dei maggiori protagonisti dell’inizio della storia repubblicana
Luigi Einaudi è stato un acuto pensatore di stampo liberista nonché uno dei maggiori protagonisti dell’inizio della storia repubblicana. Eppure nella nostra Costituzione non sembra esserne rimasta traccia. Il tipo di Stato, interventista e socialdemocratico, che la Costituzione del 1948 profila è del tutto in contrasto con gli ideali di Einaudi. Quale fu il suo ruolo nel processo costituente? Perché la componente liberista di cui era portatore ha avuto così poco spazio? Non c’è stato per questo dell’imbarazzo o della delusione da parte di Luigi Einaudi? Valerio Letizia valerio.letizia@ gmail.com Caro Letizia, L a Costituzione fu un compromesso fra tre ideologie: quella cristiano-sociale della Democrazia cristiana, quella marxista dei comunisti e quella del Psi, allora ondeggiante fra massimalismo e riformismo. Luigi Einaudi non aveva dietro di sé un grande partito e sapeva che la sua influenza sarebbe stata necessariamente limitata. Ma quando venne in discussione l’art. 81 sul bilancio dello Stato, propose che dopo l’ultimo comma («Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese») fosse inserito l’obbligo di accompagnare le proposte di spesa «con la proposta correlativa di entrata a copertura della spesa, cosicché la proposta abbia una impronta di serietà». Einaudi riconobbe francamente che desiderava limitare il diritto d’iniziativa delle Camere in materia di bilancio. Nel suo intervento disse: «L’esperienza ha dimostrato che è pericoloso riconoscere alle Camere tale iniziativa, perché mentre una volta erano esse che resistevano alle proposte di spesa da parte del Governo, negli ultimi tempi spesso è avvenuto che proprio i deputati, per rendersi popolari, hanno proposto spese senza nemmeno rendersi conto dei mezzi necessari per fronteggiarle». Dall’edizione della Costituzione «illustrata con i lavori preparatori», a cura di V. Falzone, F. Palermo e F. Cosentino (Mondadori ed.) risulta che uno dei migliori economisti democristiani, Ezio Vanoni, sostenne la proposta di Einaudi e spiegò che sarebbe stata una garanzia della tendenza al pareggio del bilancio. La proposta di Einaudi fu approvata con una formula meno imperativa. Anziché usare le sue parole («Le leggi che propongono maggiori oneri finanziari devono provvedere ai mezzi necessari per fronteggiarli») fu scritto: «Ogni nuova legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Il senso, comunque, era chiaro: il bilancio è responsabilità del governo e i parlamentari non possono trattarlo come un’occasione per caricarlo di tutto ciò che può servire ai particolari interessi dei loro collegi e delle loro lobby elettorali. Se questa norma fosse stata rispettata, l’Italia non avrebbe accumulato un debito pubblico che si aggira ormai da molti anni intorno al doppio della quota prevista nel Trattato con cui venne istituita l’Unione economica e monetaria. La strada del debito cominciò alla fine degli anni Settanta quando l’art. 81 venne aggirato con una legge (la Finanziaria) che consente al governo di introdurre innovazioni normative in materia di entrate e di spesa. Fra il 1950 e il 1969 il debito fu mediamente pari al 30% del Pil (prodotto interno lordo), nel 1970 salì al 40,5%, nel 1980 al 58%, nel 1990 al 94,8%, nel 2000 al 108,5%, nel 2010 al 118,7%, oggi ha superato il 120%.