Lorenzo Salvia, Corriere della Sera 7/7/2012, 7 luglio 2012
ROMA —
«Impiegato di settima: scrivania in mogano, poltroncina in finta pelle, telefono, pianta di ficus. Impiegato di quinta: lampada di opalina, piano di cristallo, naif jugoslavo alla parete, due piante di ficus». No, non c’è la gerarchia degli arredi raccontata nel Secondo tragico Fantozzi. Ma il decreto sulla «spending review» entra anche fisicamente nelle stanze degli statali. L’articolo 3 parla di «ottimizzazione degli spazi ad uso ufficio» e fissa un «parametro di riferimento compreso tra 20 e 25 metri quadri per addetto». Non è «l’ufficietto da 15 metri» minacciato un paio di mesi fa dal ministro Piero Giarda. Ma la stanza che si restringe è la prova materiale della rivoluzione (in peggio) che sta arrivando per i travet d’Italia.
«Quello che una volta chiamavano "impiegato irto di diritti" si sta avvicinando sempre di più al lavoratore privato» dice Guido Melis, ordinario di Storia dell’amministrazione pubblica alla Sapienza di Roma. «Un percorso ineluttabile — avverte il professore — che va guidato con intelligenza per evitare la brutta sensazione di voler mettere con le spalle al muro un’intera categoria». E che come ogni cambiamento, ogni rivoluzione, ha i suoi simboli. Il buono pasto, ad esempio. Dal primo ottobre si restringerà pure quello, 7 euro per tutti con la fine di quel federalismo del ticket che oggi vede le somme più diverse, quasi sempre più alte. Così lo Stato pensa di risparmiare 50 milioni di euro. Ma per il lavoratore è un’erosione dello stipendio di fatto. «I buoni pasto — dice Gregorio Fogliani, presidente dell’azienda del settore Qui! Group, — rappresentano per 2,3 milioni di persone una mensilità in più. Così si restringono i consumi, creando recessione». Oltre che di simboli, però, la rivoluzione è fatta anche di sostanza. E la vera preoccupazione è un’altra, la messa in discussione del posto garantito e dello stipendio sicuro. È vero che la mobilità è stata introdotta nel 1993, non a caso dopo un’altra burrasca finanziaria. Anche allora per gli statali fu un colpo. Ma poi, grazie al criterio della volontarietà, non cambiò molto. Questa volta invece la manovra si presenta per loro meno rassicurante. Il taglio all’80% era previsto dalla riforma Brunetta di tre anni fa. Ma adesso la mobilità è più di un’ipotesi perché scatta obbligatoriamente se non bastano i prepensionamenti per rispettare i tagli alla pianta organica dei ministeri, quel 20% per i dirigenti e quel 10% per tutti gli altri che rappresentano il cuore del decreto. C’è un vincolo esterno, insomma, che lascia poche speranze come tutti i vincoli esterni da Maastricht in giù. «La chiamano mobilità per fare meno paura ma la sostanza è che ti mettono alla porta», dice Pompeo Savarino, presidente dell’Associazione dirigenti delle pubbliche amministrazioni. Dopo due anni di mobilità chi non trova un altro posto viene licenziato. «E con i tempi che corrono essere ricollocati è un’illusione» prevede Savarino che per questo dice sì al blocco del turn over ma no alla mobilità. C’è poi un’altro problema. L’80% dello stipendio incassato durante la mobilità viene calcolato sul salario base, senza straordinari o indennità, e diventa quindi la metà di quello che uno è abituato a portare a casa ogni mese.
I sindacati del pubblico impiego non ci stanno, anche se usano toni diversi: Cgil e Uil pensano a uno sciopero a settembre mentre la Cisl parla di mobilitazione. E la paura si allarga dal centro alla periferia, visto che i tagli potranno essere imposti anche agli enti locali se supereranno del 40% la media nazionale nel rapporto fra dipendenti e popolazione. Qui a tremare è soprattutto il Sud, ma si riuscirà poi davvero a provare lo sfondamento previsto dalla norma? Considerando l’Italia intera la media è di un dipendente comunale ogni 128 abitanti. Ma se abbassiamo la lente di ingrandimento vediamo che in Sicilia è di uno ogni 87 mentre in Lombardia di uno ogni 142. «Mettere un numeretto e via non funziona» dice il presidente dell’associazione dei Comuni Graziano Delrio, che considera questa misura «a rischio di incostituzionalità». Ma il problema Sud resta e ha radici antiche. Le ricorda di nuovo il professor Melis, lo storico della pubblica amministrazione: «Tutto comincia con il patto Giolitti dei primi del ’900, un accordo non scritto per il quale i meridionali, rimasti fuori dall’industrializzazione del Nord, entrarono in massa nella burocrazia». Erano 100 mila alla fine dell’800, salirono a 300 mila nel 1915. «E schizzarono in alto dopo le due guerre mondiali, la burocrazia divenne quasi uno strumento di welfare». Nel suo campo il professor Melis è un’autorità, ma la sua scienza non lo aiuta abbastanza in queste ore: «Mi scrivono decine di amici che lavorano nel pubblico. Hanno paura di perdere il posto, vogliono sapere come andrà a finire». È riuscito a tranquillizzarli? «Neanche uno».
Lorenzo Salvia
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