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 2012  luglio 06 Venerdì calendario

LA LAUREA NON SPINGE I GIOVANI

La disoccupazione giovanile elevata e persistente crea una generazione perduta che deve essere recuperata al più presto. In Italia anche, anzi soprattutto, tra i ragazzi diplomati e laureati. Capitale umano in fumo, che non trova lavoro o non lo cerca o lo trova spesso con caratteristiche inferiori alle proprie qualifiche e aspettative di salario.
La recessione è certo una ragione di questo fenomeno, ma la differenza tra la condizione dei giovani e il tasso medio di disoccupazione (26 punti percentuali in più) è anche il risultato di tre inadeguatezze strutturali: dell’offerta scolastica e universitaria, della domanda delle imprese e delle regole che ne determinano l’incontro. In tempi di riforme strutturali su ciascuno di questi fronti ci sono cantieri aperti e alcuni (vedi il lavoro) già chiusi, ma non ancora sufficienti.
Iniziamo dai numeri. Il 36% di disoccupati tra i 15 e i 24 anni è un dramma, ma si riferisce solo ad un parte della popolazione giovanile, quella che lavora o cerca lavoro. Esclude dunque gli studenti e coloro che il lavoro neppure lo cercano. Il problema dell’accesso al mercato del lavoro appare particolarmente chiaro soprattutto se consideriamo i giovani un po’ meno giovani, coloro tra i 25 e i 29 anni che hanno completato gli studi o comunque hanno l’età per aver terminato anche l’università. Il loro tasso di disoccupazione qui era a fine 2011 quasi il 15%, ben più elevato che in Francia e Germania. Ma il dato inquietante, una vera peculiarità italiana, è che la proporzione cresce tra i laureati (16%), mentre diminuisce in tutti gli altri paesi. Ossia il principio "studia che poi troverai lavoro" vale molto meno per un ragazzo italiano che per un suo coetaneo europeo. Che spreco per un paese che cerca disperatamente la via della crescita!
Il recente rapporto sull’Università della Fondazione Agnelli spiega che questo è il frutto di un serio mismatch strutturale tra domanda e offerta di lavoro, particolarmente evidente tra i laureati. Da un lato l’offerta universitaria, anche dopo la riforma del 3+2, non sempre riesce a fornire competenze richieste dal mercato. D’altro lato il sistema produttivo non è in grado di assorbire l’aumento dell’offerta di laureati che in seguito alla riforma ha raggiunto livelli simili alla media Ue. Il che si traduce non solo in elevata disoccupazione, ma anche in un aumento della remunerazione limitato in seguito alla laurea, inferiore agli altri paesi europei ed anche alle lauree pre-riforma.
L’incontro tra domanda e offerta di ragazzi qualificati è la prima via per ritrovare competitività. Il sistema produttivo è in drammatica evoluzione, anche durante la recessione. Le aziende che crescono e che hanno successo sui mercati globali impiegano in proporzione crescente personale altamente qualificato ed hanno bisogno di competenze sempre nuove. Anche le attività meno complesse, come il lavoro di fabbrica richiedono ormai abilità e conoscenze avanzate e non solo manuali. Una parte del sistema produttivo, soprattutto le piccole imprese meno dinamiche, non è in grado di fornire prospettive di impiego stabili a giovani altamente qualificati. Ma l’aumento di competitività inevitabilmente richiede un upgrading qualitativo in tal senso della domanda di lavoro.
D’altra parte c’è un problema di competenze fornite dall’Università. Solo un più forte interfaccia tra i futuri datori di lavoro e gli Atenei può aiutare a qualificare meglio l’offerta. Il che può implicare due diverse direzioni. Una più specializzante. Ad esempio Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi propongono corsi di laurea triennali professionali come le Fachhochschulen tedesche. In Italia questa offerta formativa è svolta, ma ancora in via sperimentale, dai corsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (Ifts), cui si sono recentemente affiancati gli Istituti Tecnici Superiori (Its). La seconda strada è di rafforzare i criteri selettivi di corsi più generalisti, comunque interfacciandosi con le imprese, in modo che gli studenti apprendano competenze generali, ma imparino allo stesso tempo come applicarle.
Infine c’è il nodo istituzionale dell’incontro tra domanda e offerta. La disoccupazione giovanile è anche figlia del bagno-Maria della precarietà: spendere poco e non investire sul futuro. La riforma del mercato del lavoro, rafforzando il ruolo dell’apprendistato ed aumentando la flessibilità in uscita (anche se marginalmente) garantisce un canale utile di incontro tra domanda e offerta per le imprese che vogliano investire sui giovani nel lungo periodo. Gli strumenti istituzionali e contrattuali però non bastano. Le aziende devono capire che costruire rapporti stabili e duraturi (per quanto flessibili) è la via per la competitività virtuosa. La riforma ha in parte ridotto i costi relativi di scegliere questa via rispetto a modelli contrattuali più precari. L’auspicio è che un numero maggiore di aziende scelga questa strada. Per risolvere il dramma della disoccupazione giovanile, ci vuole un impegno collettivo: governo, datori di lavoro (anche il settore pubblico), scuola e università. Nessuno può fare da solo.